Repubblica 25.6.18
Il commento
La profezia di Hannah Arendt
di Richard J. Bernstein
Nella
prefazione alla raccolta di saggi del 1968, L’umanità in tempi bui,
Hannah Arendt scrisse: «Anche nei tempi più bui abbiamo diritto di
attenderci una qualche illuminazione » . Nei tempi bui di oggi l’opera
di Arendt assume nuova importanza proprio perché è fonte di
illuminazione. Arendt era dotata di notevole perspicacia nell’analizzare
i problemi più gravi, i dubbi più profondi e le tendenze più pericolose
della realtà politica moderna, in molti casi presenti ancora oggi.
Nell’accenno ai « tempi bui » e nel suo invito a diffidare delle «
esortazioni morali o di altro genere che, con il pretesto di confermare
antiche verità, degradano ciascuna di queste a insignificante banalità »
, leggiamo non solo una critica agli orrori del totalitarismo del XX
secolo, ma anche un monito circa alcune forze largamente presenti oggi a
livello politico negli Stati Uniti e in Europa.
Arendt fu tra i
primi massimi esponenti del pensiero politico a sostenere che la
crescita costante del numero di apolidi e profughi avrebbe continuato a
essere un problema insormontabile. Uno dei suoi primi saggi, Noi
profughi, pubblicato su una rivista nel 1943 e basato sulla sua
personale esperienza di apolide, pone questioni fondamentali. Arendt
offre una vivida descrizione di cosa significhi perdere casa, lingua e
lavoro, e conclude con una riflessione più generale sulle conseguenze
politiche del nuovo fenomeno, ossia la “creazione” di masse di persone
costrette a lasciare le proprie case e il proprio Paese: «I profughi
costretti a muoversi di Paese in Paese rappresentano l’avanguardia dei
loro popoli… Il rispetto reciproco dei popoli europei è andato in
frantumi quando, e perché, si permise che i membri più deboli fossero
esclusi e perseguitati».
Nel momento in cui scriveva tutto questo,
Arendt non poteva sapere quanto le sue osservazioni sarebbero state
calzanti nel 2018. Negli ultimi cent’anni pressoché tutti gli
avvenimenti politici significativi hanno portato al moltiplicarsi di
nuove categorie di profughi, un fenomeno apparentemente destinato a
ripetersi senza fine. Nel saggio del 1951 dal titolo Le origini del
totalitarismo, Arendt scrive riferendosi ai profughi: « La disgrazia
degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati
della vita, della libertà, del perseguimento della felicità,
dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione, ma
nel non appartenere più ad alcuna comunità » . La perdita della comunità
comporta l’espulsione dall’umanità stessa. Appellarsi ai diritti umani
in astratto non serve in assenza di istituzioni che garantiscano
efficacemente tali diritti. Il più fondamentale dei diritti è il
“diritto di avere diritti”.
Il saggio Verità e politica,
pubblicato nel 1967, potrebbe essere stato scritto ieri. L’analisi che
Arendt fa della menzogna sistematica e del pericolo che essa rappresenta
per la verità fattuale calza a pennello. Poiché le verità fattuali sono
contingenti e di conseguenza il loro opposto è possibile, è fin troppo
facile distruggere la verità fattuale sostituendola con “alternative
facts”, ossia realtà alternative. In Verità e politica scrive: «La
libertà di opinione è una farsa a meno che l’informazione fattuale non
venga garantita e i fatti stessi siano sottratti alla disputa » .
Purtoppo una delle tecniche più fortunate per sfumare la differenza tra
verità e falsità è spacciare qualsiasi verità come una semplice
opinione: quello che avviene più o meno quotidianamente a opera
dell’amministrazione Trump. Oggi i leader politici seguono con grande
successo una prassi eclatante dei regimi totalitari di un tempo, creano
cioè un mondo fittizio di realtà alternative.
Arendt individua un
rischio ancora peggiore: « Il risultato di una coerente e totale
sostituzione di menzogne alla verità non è che ora le menzogne saranno
accettate come verità e che la verità sarà denigrata come menzogna, ma
che il senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo — e la categoria di
verità versus falsità è tra i mezzi mentali che servono a tal fine —
viene distrutto».
Le possibilità di mentire diventano illimitate e
spesso incontrano scarsa resistenza. Molti progressisti restano
sconcertati dall’indifferenza del pubblico di fronte alle bugie
smascherate in base alla verifica dei fatti. Ma Arendt aveva capito come
funziona davvero la propaganda. Le masse « si lasciano convincere non
dai fatti, neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza
del sistema che promette di abbracciarle come una sua parte». Gli
individui che si sentono negletti e dimenticati anelano a una narrazione
— anche fittizia — che dia un senso all’ansia che provano e prometta
una sorta di redenzione. I leader autoritari traggono enormi vantaggi
sfruttando queste ansie e inventando una storia a cui la gente vuole
credere. Una storia inventata che promette di risolvere i problemi di
ciascuno ha molta più presa rispetto ai fatti e alle tesi “razionali”.
Arendt
non era una Cassandra. Non si è limitata a denunciare i rischi
politici, ma ha elaborato un concetto preciso della dignità della
politica. Grazie alla nostra capacità di agire, siamo sempre in grado di
dare vita a un rinnovamento. Il fulcro del pensiero di Arendt è proprio
la necessità di assumersi la responsabilità della nostra vita politica.
La sua difesa della dignità della politica rappresenta un metro di
giudizio importantissimo per molti di noi a fronte della situazione
odierna, che vede diminuite le opportunità di partecipazione, di agire
di concerto e di impegnarsi in un dibattito autentico tra pari. Dobbiamo
resistere alla tentazione di tirarci fuori dalla politica pensando che
non si possa fare nulla contro le brutture, gli inganni e la corruzione
di oggi. Per tutta la vita Arendt si è proposta di affrontare e
comprendere davvero il buio dei nostri tempi, senza perdere di vista la
possibilità di trascendenza e di illuminazione. Noi dovremmo avere lo
stesso proposito.
© 2018 The New York Times Traduzione di Emilia Benghi