Repubblica 25.6.18
Michelangelo il genio vero che amava realizzare falsi
di Pietro Citati
Lettere,
versi e una nuova biografia ricostruiscono la vita del maestro del
Rinascimento e la sua passione per le sculture invecchiate ad arte
Michelangelo
Buonarroti nacque, non sappiamo esattamente se nel Casentino o a
Chiusi, il 6 marzo 1475, verso le due di mattina. Mercurio e Venere –
così si diceva – lo proteggevano dall’alto dei cieli. Insisté sempre,
più del giusto, di essere un cittadino di antichissima nobiltà costretto
dalla vita a maneggiare scalpelli e pennelli. Ancora bambino venne
portato alla scuola di grammatica di Francesco di Giovanni da Urbino: ma
«non si poteva tenere da non correre a disegnare». Più volte ripeté con
violenza di aver rinunciato alla letteratura (sebbene scrivesse
bellissime Rime), per abbracciare con passione soltanto le arti. Non
imparò mai il latino: cosa molto singolare per l’epoca. Molto presto
lavorò nella bottega di Domenico Ghirlandaio, anche se per tutta la vita
detestò le botteghe d’arte e persino l’idea di bottega.
Erano gli
ultimi anni di Lorenzo de’ Medici: il quale esercitò un’immensa
influenza sull’arte e la vita di quel tempo. « Redeunt Saturnia regna…
surget gens aurea mundo », si diceva.
Michelangelo lavorò da
giovane nel giardino dei Medici a San Marco, come raccontò nel 1553
Ascanio Condivi nella sua bellissima vita ed ora, in un libro molto
ricco e informato, Giulio Busi ( Michelangelo. Mito e solitudine del
Rinascimento,
Mondadori). Il giardino era «adornato di varie
statue antiche e figure». Lorenzo «accarezzava», accendeva e spronava
Michelangelo: lo chiamava molte volte al giorno, mostrandogli le sue
pitture, le sue sculture e i suoi cammei, le meduse e le sfingi.
Quell’epoca d’oro finì.
Preceduto da un fulmine sulla cupola di
Santa Maria del Fiore, nella notte dell’8 aprile 1492, alle quattro di
mattina, Lorenzo morì, e ciò fu, per Michelangelo una sciagura
personale: «per molti giorni non potette fare cosa alcuna». «Fu denotata
questa morte – scrisse Guicciardini – come di momento grandissimo da
molti presagi: era apparita poco innanzi la cometa, erasi udito urlare
lupi: una donna di Santa Maria Novella infuriata avea gridato che un bue
con le corna di fuoco ardeva la città; eransi azzuffati insieme alcuni
leoni, e uno bellissimo era stato morto dagli altri».
Michelangelo
aveva diciassette anni. Come racconta Ascanio Condivi, «non era tanto
alto, da giovane ammalato e cagionevole, la testa un po’ grande, e due
occhi piccoli macchiati di scintille gaiette ed azzurre».
Aveva le
spalle larghe: ma il resto del corpo e specialmente le labbra, sottili.
Secondo gli amici, sino alla fine della vita, anche in anni gravi e
difficili, fu un eccellente e divertente conversatore, sebbene non si
confidasse volentieri. Come scrisse l’Aretino, amava il mistero e il
silenzio. Aveva una memoria tenacissima: tanto – diceva agli amici – che
«avendo dipinto tante finzioni, non ne ho fatta mai una che somigliasse
ad un’altra».
Amava ogni cosa bella: un bel cavallo, un
bell’uomo, una bella montagna; e «le ammirava con meravigliosa
attenzione, come l’ape raccoglie il miele da tutti i fiori».
La più antica statua di Michelangelo che ci sia giunta è la Zuffa de’ centauri che gli venne ispirata da Angelo Poliziano.
Studiò
l’anatomia come forse nessuno nella sua epoca: scorticava i corpi, per
studiare i muscoli e le vene. Come racconta Edgar Wind in un bellissimo
libro ( Misteri pagani del Rinascimento, Adelphi) amava i falsi: statue
che sembrassero antiche; le tingeva e le invecchiava col fumo, in modo
che si credesse che appartenevano all’età classica.
Proprio per
questo amava l’incompiuto – l’incompiuto che risveglia in chi vede il
senso dell’indefinito e dell’infinito. «Si conosce nell’imperfezzione
della bozza – scrive stupendamente il Vasari – la perfezzione
dell’opera… Ha avuto l’immaginativa tale e sì perfetta, che le cose
propostosi nella idea sono state tali che con le mani, per non poter
esprimere sì grandi e terribili concetti, ha spesso abbandonato l’opere
sue, così come ne ha guaste molte… io so che innanzi di morire abbruciò
gran numero di disegno, acciò nessun vedesse la fatica durata da lui».
Forse, per far dimenticare di non essere vittima nemmeno
dell’incompiuto, dipinse la famosissima Madonna del Tondo Doni; che
Roberto Longhi giudicò “il capolavoro assoluto di Michelangelo”; dove
sembra inseguire da vicino l’impossibile perfezione. Quando, nell’agosto
1501 i responsabili dell’Opera di Santa Maria del Fiore gli
commissionarono il David, dovette trarre una nuova figura da un blocco
di marmo già malamente abbozzato; e cercò, e riuscì, a trovare la
perfezione nell’imperfetto e nell’impossibile. «Certo fu miracolo –
commentò Vasari – di far risuscitare uno che era morto». Andava a
Carrara a scegliere i marmi; e un giorno gli sembrò che doveva scolpire
l’intera collina, assoggettando tutta la natura alla forza delle proprie
mani. Passava mesi a cercare i marmi che gli si adattavano: Carrara era
la sua vera patria. Amava il danaro: amava i papi sopratutto perché
erano mecenati generosi: coltivò Giulio II, Clemente VI, che parlava di
lui “con un’infinita affezione” e voleva che dipingesse solo per la
chiesa; e Paolo III, che veniva a trovarlo mentre dipingeva la Cappella
Paolina, arrampicandosi su una scala a pioli. Nel 1513 ebbe una grande
visione: «essendo una notte al sereno, ed elevando gli occhi su al
cielo, vide apparire in cielo un mirabile segno triangolare fuora
dell’ordine e similitudine di ogni cometa consueta: era di un color
splendente e rilucente, come una verga d’argento pulitissima o una spada
brunita. La coda del segno si estendeva verso Firenze tutta di color di
fuoco e nella sommità era biforcata e così lunga da raggiungere
Firenze».
Nell’ultimo periodo della vita abitò a Roma, nella casa
di Macel de’ Corvi, a piazza Venezia, dove ora sorge il palazzo delle
Assicurazioni Generali. «È un caseggiato, con palchi, sale, chamere,
terreno, orto, pozzo»: comodo per stiparvi i marmi e dedicarsi a diverse
opere contemporaneamente. In quegli anni, Michelangelo lavorò
moltissimo, quasi al di sopra delle forze umane: ci sembra impossibile
che abbia immaginato e realizzato tanti progetti, come se, da solo,
volesse costruire l’intera città di Roma. «Sono tanto ocupato – scriveva
al nipote il 25 agosto 1541 ( Rime e lettere, a cura di Antonio Corsaro
e Giorgio Masi, Bompiani) – che io non ho’ tempo di badare a voi, e
ogni altra piccola cosa m’è grandissimo fastidio». Ora era lento, ora
velocissimo. La pittura «non era la sua professione: ma la scultura»: o,
meglio, non era mai «pictore né scultore né architetto, ma quel che voi
volete»: chissà cosa. In ogni caso «si dipinge col cervello e non con
le mani; e chi non può avere il cervello seco si vitupera». La pittura
era «la fiamma del fuoco; la quale è più atta al movimento di tutte le
cose». Era vecchio, diceva: «ogni ora potrebbe essere l’ultima mia»:
«era – scrive Vasari – alle ventiquattro ore, e non nasceva pensiero in
lui che non vi fusse sculpita la morte»; affascinato ed atterrito dalla
morte. Nell’ottobre 1556 andò pellegrino: si avviò verso Loreto; ma si
stancò e tornò a Roma con un compagno. Era solo, si sentiva solo e si
lamentava di essere solo, sebbene volesse vivere da solo, nella sola
compagnia delle arti.
Spesso era stizzito, irritato, furibondo,
non sappiamo mai di che cosa. A volte era stanchissimo: poi,
all’improvviso recuperava le forze. Gli pareva impossibile affrontare la
grande impresa della Cappella Paolina.
Nel giugno 1544 era malato
grave, sebbene dicesse che sperava «di vivere ancora qualche anno».
Aveva il male della pietra e beveva moltissima acqua. Non riusciva a
dormire.
Era sporco. Come racconta Condivi, portava «di continovo
stivali di pelle di cane sopra lo ignudo i mesi interi, che quando li
voleva cavare, poi nel tirarli ne veniva spesso la pelle». Come scrive
D’Annunzio, «era incurvato, corrugato, col naso rencagnito, col gozzo
sotto la barba caprina, e le unghie cresciute fuori dal tomaio degli
stivali, con la fronte sudicia di colore». Scolpiva la Pietà Rondanini,
una settimana prima di morire. «Fece testamento di tre parole, che
lasciava l’anima su nelle mani di Dio, il suo corpo alla terra, e la
roba ai parenti più prossimi». Dopo cinque giorni di malattia “due
levato al fuoco e tre in letto”, morì mezz’ora prima dell’Ave Maria il
18 febbraio 1564.
Il 10 marzo fu portato a Firenze, «vestito con
un robone di damasco nero, e con gli stivali e gli sproni in gambe ed in
capo un cappello di seta all’antica col pelo lungo di felpa nera».