Repubblica 21.6.18
La guerra segreta dei droni svelati 550 raid Usa in Libia quasi tutti da Sigonella
Esclusivo/ Il lato oscuro della sfida al terrorismo
Il
numero degli attacchi supera quelli lanciati nel resto del mondo Nel
2016 Sirte usata come laboratorio delle guerre robotizzate con 300
missioni tra le case
di Gianluca Di Feo
Partono
quasi ogni notte, con un sibilo silenzioso. Sagome spettrali confuse
nell’oscurità prendono il volo dalla pista di Sigonella, dirette verso
le coste dell’Africa. Sono i droni da combattimento americani, diventati
i protagonisti più discussi della guerra contemporanea. Ma nessuno
finora aveva scoperto che il campo di battaglia principale di questo
conflitto tecnologico è la Libia, epicentro delle incursioni teleguidate
statunitensi. Adesso un’inchiesta condotta da Repubblica in
collaborazione con la testata investigativa The Intercept è in grado di
rivelare che dal 2011 i bombardieri robot Usa hanno lanciato almeno 550
attacchi sul suolo libico.
ROMA È un numero altissimo,
che apre uno squarcio sul lato più oscuro della sfida globale al
terrorismo e mette in discussione la contabilità fornita dalla Casa
Bianca di fronte alle richieste dei parlamentari Usa e delle
associazioni per i diritti civili di tutto il mondo. Le autorità di
Washington infatti non hanno mai presentato dati sulle incursioni dei
droni in territorio libico. Ma gli attacchi lanciati in Libia durante la
presidenza Obama sono superiori al totale dei raid scagliati nello
stesso periodo in Pakistan, Yemen e Somalia. E, secondo le fonti
interpellate da Repubblica, la quasi totalità di queste 550 missioni
killer è stata realizzata usando la base italiana di Sigonella.
Obiettivo Gheddafi
Proprio
nell’installazione siciliana il 25 marzo 2011 è stato attivato il 324th
Expeditionary Reconnaissance Squadron, un reparto dell’aviazione
statunitense dotato di Predator, i primi velivoli da combattimento senza
pilota. Tre settimane dopo, gli Usa hanno dato il via all’offensiva
contro Gheddafi e per sei mesi i Predator hanno continuato a distruggere
mezzi e postazioni del regime, aprendo la strada ai ribelli fino alla
vittoria. Secondo il Pentagono i droni hanno condotto 145 attacchi
durante questa operazione. Ma l’ex colonnello Gary Peppers, comandante
del reparto di Sigonella impegnato all’epoca nella missione libica,
dichiara a the Intercept che i raid furono ben 241. Con un primato
bellico: « In quei sei mesi i nostri Predator hanno lanciato 243 missili
Hellfire: un quinto di tutti quelli usati nei quattordici anni di
impiego di quest’arma » . Per un altro ufficiale Usa, quello dei droni è
stato “ un successo fenomenale”. Le incursioni sono partite da
Sigonella: l’operazione Unified Protector infatti è stata condotta dalla
Nato, dopo una risoluzione delle Nazioni Unite. Ma il personale
americano presente nell’aeroporto siciliano li ha pilotati solo durante
decolli e atterraggi: la fase d’attacco veniva diretta via satellite
dalla base di Creech, nel deserto del Nevada.
La grande battaglia
Dopo
la caduta di Gheddafi per circa un anno le missioni armate dei droni
sulla Libia sono state interrotte. Solo il 15 settembre 2012, dopo
l’assassinio dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, sono
ripresi i decolli da Sigonella, con alcune “eliminazioni mirate di
terroristi”. Ma negli anni successivi la nuova guerra civile ha fatto
peggiorare la situazione e favorito la nascita di una filiale dello
Stato Islamico. Così nell’estate 2016, dopo una richiesta formale del
governo di Tripoli, l’Amministrazione Obama ha deciso di scacciare
l’Isis dalla città di Sirte, scatenando l’operazione Odyssey Lighting.
Il contributo americano è stato affidato soprattutto ai droni più
avanzati: i potenti Reaper, letteralmente “mietitore”. Lo stormo
stanziato in Sicilia ha come simbolo proprio la “ triste mietitrice” che
impugna la falce. Complessivamente gli Usa hanno lanciato 495 attacchi
tra agosto e dicembre 2016, di questi — come ha spiegato il colonnello
Case Cunningham, comandante del 432 Wing basato a Creech in Nevada — il
60 per cento sono stati opera dei Reaper. Si tratta quindi di circa 300
incursioni, durante le quali ciascun drone ha scagliato fino a sei
ordigni. Il volume di fuoco dei bombardieri teleguidati è stato enorme: «
Abbiamo sparato centinaia di missili Hellfire » , ha dichiarato uno dei
piloti. La città di Sirte è stata definita “ zona attiva di ostilità”,
abolendo le lunghe procedure per autorizzare i raid: «Non è stata
un’eccezione che l’ordine di colpire venisse impartito anche un solo
minuto dopo avere scoperto il bersaglio», ha detto il colonnello
Cunningham. Una battaglia senza quartiere, casa per casa: alla fine, tra
le macerie di Sirte sarebbero stati contati i cadaveri di 900 miliziani
del Califfato.
Prove di guerra futura
Quella campagna è
stata un momento di svolta nella storia bellica mondiale: per la prima
volta infatti i droni alati sono diventati i protagonisti assoluti dei
combattimenti. « Nuove tattiche e modalità di attacco sono state
sviluppate durante quest’operazione», ha raccontato il capitano Abrham,
un pilota del 432th Wing. I Reaper si sono mossi in coppia,
coordinandosi l’un l’altro in maniera semi- automatica, scagliando armi
diverse e alternandosi negli assalti contro un singolo obiettivo: Sirte è
stata il laboratorio degli sciami di guerrieri robotizzati destinati a
dominare i campi di battaglia del futuro. Il generale Mark Nowland, vice
capo di stato maggiore dell’aviazione Usa, ha descritto l’azione
sincronizzata di due Reaper contro i cecchini dell’Isis appostati in
diverse stanze di un edificio: è stata usata una testata termobarica,
che li ha uccisi provocando un’onda d’urto potentissima.
Il ruolo dell’Italia
Le
autorità Usa non hanno mai indicato da quale aeroporto provenissero i
droni. Il colonnello Cunningham ha sottolineato che gli attacchi
venivano guidati da equipaggi in Nevada, North Dakota e Tennessee. A
quanto risulta a Repubblica, la quasi totalità dei Reaper è decollata da
Sigonella. Ma gli accordi bilaterali tra Roma e Washington che regolano
le azioni dei droni dal nostro Paese sono segreti. La senatrice Roberta
Pinotti, ministra della Difesa dal 2014 allo scorso primo giugno, si è
limitata a precisare a Repubblica: « Come ho dichiarato in Parlamento,
il governo ha autorizzato di volta in volta le richieste americane di
usare la base di Sigonella per compiere attacchi con droni contro
obiettivi terroristici in Libia e per l’operazione del 2016 contro
l’Isis a Sirte. Non sono mai stati segnalati danni collaterali né
vittime civili » .
I vertici statunitensi dal 2011 in poi hanno
ribadito che lo schieramento di Predator e Reaper contribuiva a limitare
i “ danni collaterali”, perché i droni possono colpire con “precisione
chirurgica”. Non è mai stato provato che i raid americani abbiano
causato la morte di civili. Un dossier diffuso ieri dal centro di
monitoraggio inglese Airwars e dal think tank New America sostiene che i
bombardamenti in Libia dal 2012 abbiano provocato tra 244 e 398 vittime
civili ma questo studio prende in considerazione 2.180 attacchi aerei,
condotti dagli stormi Usa, francesi, egiziani, emiratini e dei due
governi libici. In merito alle incursioni americane, senza distinguere
tra droni e velivoli con pilota, lo studio ritiene che possano avere
ucciso da un minimo di dieci a un massimo di venti civili. Anche se una
serie di elementi raccolti durante la battaglia di Sirte porta a
sospettare che altri 54 “non combattenti” abbiano perso la vita sotto le
bombe. Tutte informazioni rimaste prive di riscontri.
L’ultima ondata
Dopo
la caduta di Sirte le missioni libiche dei droni sono proseguite. Nella
notte del 19 gennaio 2017, poche ore prima che Barack Obama lasciasse
la Casa Bianca, due giganteschi bombardieri stealth B-2 hanno devastato
un accampamento dell’Isis con 85 ordigni: chi cercava di fuggire è stato
eliminato da una coppia di Reaper. Con l’arrivo di Donald Trump la
strategia non è cambiata ma le attività sulla Libia sono diventate
ancora più misteriose. Per non urtare “le sensibilità diplomatiche”, il
Pentagono ha diffuso sempre meno notizie sulle incursioni. Un alto
ufficiale ha citato 18 attacchi, mentre Africom — il comando Usa per
l’Africa — ne ha riconosciuti solo 11 in cui però sono stati abbattuti
più obiettivi. Lo scorso 6 giugno è stata distrutta una camionetta con 4
persone a bordo. Secondo una fondazione libica, solo uno era un
miliziano: una ricostruzione smentita dagli americani. Infine il 13
giugno è stato ammazzato un capo di Al Qaeda.
Insomma, i raid non
si fermano. Ma come è accaduto in Yemen, in Pakistan o in Somalia, le
missioni dei droni non contribuiscono a stabilizzare la situazione, né a
sconfiggere il terrorismo: anche in Libia, nonostante 550 attacchi di
Predator e Reaper, il caos continua a crescere e nuove cellule
fondamentaliste prendono le armi.