domenica 24 giugno 2018

La Stampa 24.6.17
Giacometti
Apre a Parigi il museo che riproduce il suo celebre atelier
di Leonardo Martinelli


Una vita lì dentro, in quei 23 metri quadrati, tra il caos e la polvere, a dipingere e scolpire. Per capire l’opera di Alberto Giacometti, artista svizzero, che sino alla fine dei suoi giorni parlò francese con un forte accento italiano, da ora in poi bisognerà venire qui, in un’elegante dimora art-déco, che si affaccia sul cimitero di Montparnasse: l’Istituto Giacometti, dove è stato ricostituito il leggendario e minuscolo atelier di Alberto. Perché Annette, la moglie, quando lui morì di cancro a 64 anni, l’11 gennaio 1966, conservò tutto di quello spazio creativo, il suo universo.
L’ultimo modello
Ci sono i pochi mobili, rudimentali. E i pennelli, le spazzole, le bottiglie di trementina. I mozziconi di sigarette. Un’opera abbozzata, scultura in terra cruda, che ritrae il volto del fotografo Eli Lotar, l’ultimo dei numerosi modelli venuti a sottoporsi a estenuanti sessioni, mentre Giacometti, ossessivo e perfezionista, creava e distruggeva, ci riprovava, si arrabbiava. Nello studio ricostituito c’è anche la testa scolpita di Diego, il fratello più piccolo, adorato, che poi lo raggiungerà a Parigi e gli farà da assistente. Questa scultura Alberto l’aveva fatta ad appena 11 anni, quando vivevano ancora a Stampa, nelle montagne dei Grigioni, con la famiglia e il padre Giovanni, un pittore.
L’Istituto Giacometti sarà inaugurato martedì, voluto dalla Fondazione omonima, che gestisce l’enorme eredità di Annette. È una sorta di museo (ma per visitarlo bisognerà prenotarsi online). Occupa quella che fu la casa di un noto decoratore della Parigi anni Trenta, Paul Follot, con i suoi caminetti e i mosaici dorati d’origine. L’atmosfera è molto diversa da quella dell’atelier di Giacometti, che «al lusso e agli onori preferiva l’ascesi e il rigore», osserva Catherine Grenier, direttrice della Fondazione. Alberto arrivò a Parigi a 21 anni, nel 1922. E nel dicembre 1926 si installò nel suo antro, l’atelier, al 46 di rue Hippolyte-Maindron, pochi minuti a piedi dalla casa art-déco dell’Istituto. Accanto ai 23 metri quadrati d’origine, c’era un’umile stanzetta, dove dormiva. A mangiare andava nei vicini ristoranti, dove si ritrovavano gli altri artisti, come la Coupole, che ancora esiste, intatta (in ogni caso Alberto non ingurgitava molto più di un uovo sodo). Durante la Seconda guerra mondiale si trasferì a Ginevra, dove conobbe Annette, di vent’anni più giovane, semplice e libera, che lo raggiungerà a Parigi dopo il conflitto e lo sposerà nel 1949. «Accettò di andare a vivere lì con lui nello studio, sempre con il sorriso, come sottolineava ammirata Simone de Beauvoir: con Jean-Paul Sartre erano amici della coppia e frequentavano l’atelier», ricorda la Grenier.
Le donne di Venezia
Annette, dopo la scomparsa del marito, conservò addirittura i muri scarabocchiati di quello studio, ora riutilizzati nella ricostituzione. Nel resto dell’Istituto, sono esposte varie opere dell’artista, pure le Donne di Venezia, da lui create per la Biennale del 1956. « Negli ultimi anni aveva ormai le possibilità economiche di trasferirsi in spazi più confortevoli – ricorda l’italiana Serena Bucalo-Mussely, specialista di Giacometti -, ma non ce la faceva proprio ad abbandonare l’atelier».
I bordelli
Solo concesse ad Annette di vivere in un piccolo appartamento a parte. L’Istituto ospita anche una mostra su Jean Genet, che fu ritratto da Alberto e proprio sul suo studio scrisse un libro nel 1956. Genet era uno dei rari che poteva piombarvi a ogni ora, senza prevenire. Come ricorda la Bucalo-Mussely, l’artista svizzero, nonostante la sua immagine di tenebroso, «in realtà, uscito dall’atelier, era una persona divertente e amava stare in compagnia». Lavorava di notte e la mattina dormiva. Poi ancora a dipingere e scolpire nel pomeriggio. La sera, dopo la cena, camminava per Parigi. E girava per i bordelli. Annette accettava. E Alberto non cercava solo sesso, ma pure tanta umanità.
«Giacometti era a suo agio con chiunque: i ricchi collezionisti, i grandi intellettuali ma anche la gente semplice – ricorda la Grenier, che su di lui ha scritto una biografia, pubblicata l’anno scorso da Flammarion -. Era curioso e faceva domande a tutti. E gli piacevano i marginali. Riservava le sue angosce e le sue insofferenze, a tratti violente, solo al suo lavoro». Nell’atelier, tra polvere e caos.