La Stampa 24.6.17
Giacometti
Apre a Parigi il museo che riproduce il suo celebre atelier
di Leonardo Martinelli
Una
vita lì dentro, in quei 23 metri quadrati, tra il caos e la polvere, a
dipingere e scolpire. Per capire l’opera di Alberto Giacometti, artista
svizzero, che sino alla fine dei suoi giorni parlò francese con un forte
accento italiano, da ora in poi bisognerà venire qui, in un’elegante
dimora art-déco, che si affaccia sul cimitero di Montparnasse:
l’Istituto Giacometti, dove è stato ricostituito il leggendario e
minuscolo atelier di Alberto. Perché Annette, la moglie, quando lui morì
di cancro a 64 anni, l’11 gennaio 1966, conservò tutto di quello spazio
creativo, il suo universo.
L’ultimo modello
Ci sono i pochi
mobili, rudimentali. E i pennelli, le spazzole, le bottiglie di
trementina. I mozziconi di sigarette. Un’opera abbozzata, scultura in
terra cruda, che ritrae il volto del fotografo Eli Lotar, l’ultimo dei
numerosi modelli venuti a sottoporsi a estenuanti sessioni, mentre
Giacometti, ossessivo e perfezionista, creava e distruggeva, ci
riprovava, si arrabbiava. Nello studio ricostituito c’è anche la testa
scolpita di Diego, il fratello più piccolo, adorato, che poi lo
raggiungerà a Parigi e gli farà da assistente. Questa scultura Alberto
l’aveva fatta ad appena 11 anni, quando vivevano ancora a Stampa, nelle
montagne dei Grigioni, con la famiglia e il padre Giovanni, un pittore.
L’Istituto
Giacometti sarà inaugurato martedì, voluto dalla Fondazione omonima,
che gestisce l’enorme eredità di Annette. È una sorta di museo (ma per
visitarlo bisognerà prenotarsi online). Occupa quella che fu la casa di
un noto decoratore della Parigi anni Trenta, Paul Follot, con i suoi
caminetti e i mosaici dorati d’origine. L’atmosfera è molto diversa da
quella dell’atelier di Giacometti, che «al lusso e agli onori preferiva
l’ascesi e il rigore», osserva Catherine Grenier, direttrice della
Fondazione. Alberto arrivò a Parigi a 21 anni, nel 1922. E nel dicembre
1926 si installò nel suo antro, l’atelier, al 46 di rue
Hippolyte-Maindron, pochi minuti a piedi dalla casa art-déco
dell’Istituto. Accanto ai 23 metri quadrati d’origine, c’era un’umile
stanzetta, dove dormiva. A mangiare andava nei vicini ristoranti, dove
si ritrovavano gli altri artisti, come la Coupole, che ancora esiste,
intatta (in ogni caso Alberto non ingurgitava molto più di un uovo
sodo). Durante la Seconda guerra mondiale si trasferì a Ginevra, dove
conobbe Annette, di vent’anni più giovane, semplice e libera, che lo
raggiungerà a Parigi dopo il conflitto e lo sposerà nel 1949. «Accettò
di andare a vivere lì con lui nello studio, sempre con il sorriso, come
sottolineava ammirata Simone de Beauvoir: con Jean-Paul Sartre erano
amici della coppia e frequentavano l’atelier», ricorda la Grenier.
Le donne di Venezia
Annette,
dopo la scomparsa del marito, conservò addirittura i muri
scarabocchiati di quello studio, ora riutilizzati nella ricostituzione.
Nel resto dell’Istituto, sono esposte varie opere dell’artista, pure le
Donne di Venezia, da lui create per la Biennale del 1956. « Negli ultimi
anni aveva ormai le possibilità economiche di trasferirsi in spazi più
confortevoli – ricorda l’italiana Serena Bucalo-Mussely, specialista di
Giacometti -, ma non ce la faceva proprio ad abbandonare l’atelier».
I bordelli
Solo
concesse ad Annette di vivere in un piccolo appartamento a parte.
L’Istituto ospita anche una mostra su Jean Genet, che fu ritratto da
Alberto e proprio sul suo studio scrisse un libro nel 1956. Genet era
uno dei rari che poteva piombarvi a ogni ora, senza prevenire. Come
ricorda la Bucalo-Mussely, l’artista svizzero, nonostante la sua
immagine di tenebroso, «in realtà, uscito dall’atelier, era una persona
divertente e amava stare in compagnia». Lavorava di notte e la mattina
dormiva. Poi ancora a dipingere e scolpire nel pomeriggio. La sera, dopo
la cena, camminava per Parigi. E girava per i bordelli. Annette
accettava. E Alberto non cercava solo sesso, ma pure tanta umanità.
«Giacometti
era a suo agio con chiunque: i ricchi collezionisti, i grandi
intellettuali ma anche la gente semplice – ricorda la Grenier, che su di
lui ha scritto una biografia, pubblicata l’anno scorso da Flammarion -.
Era curioso e faceva domande a tutti. E gli piacevano i marginali.
Riservava le sue angosce e le sue insofferenze, a tratti violente, solo
al suo lavoro». Nell’atelier, tra polvere e caos.