La Stampa 21.6.18
Il rischioso ritorno ai passaporti
di Marco Zatterin
Quando
la Convenzione di Schengen sarà archiviata nello scaffale dei «bei
ricordi», e i cittadini europei avranno perso il dono prezioso della
libertà di circolazione, sarà difficile convincere l’opinione pubblica
attenta e solidale che tutto questo era inevitabile. Il rischio di
tornare a sventolare il passaporto a ogni valico di frontiera
continentale si fa più concreto a mano a mano che si allontana una
soluzione corale per il problema delle migrazioni, questione che quasi
nessuna capitale dell’Ue vuole considerare come «condivisa». Gli Stati
dovrebbero giocare insieme per affrontare un fenomeno globale che non si
esaurirà presto, per salvare vite e tutelare le conquiste comuni del
Dopoguerra. Invece la prospettiva è che nessuno di questi obiettivi
possa essere raggiunto a stretto giro.
Le «battaglia sui migranti»
in corso fra le cancellerie in vista del vertice europeo del 28-29
giugno non è stata alimentata dalle minacce dell’Italia che «alza la
voce perché urlare paga». Il fuoco bruciava da tempo, per motivi
differenti, soprattutto nazionali. Germania e Francia hanno occhi solo
per le tensioni generate dai «passaggi secondari»: vogliono che chi
sbarca in Sicilia non venga lasciato passare oltralpe, vizietto che in
Italia s’è coltivato per anni e almeno sino al 2011. La determinazione
di Merkel e Macron basta a cancellare l’ipotesi di riforma del
Regolamento di Dublino: il principio dell’accoglienza e della gestione
degli sbarchi attribuite al Paese di primo sbarco non sarà riscritto.
Roma potrà ottenere spicchi di solidarietà, un po’ di fondi e aiuti. Ma
nessun premier o presidente giudica venuto il tempo di liberarla dagli
oneri della prima linea. Tantomeno quelli che il ministro degli Interni
si ostina a definire come «amici».
Solo i francesi, nel 2017, ci
hanno riaccompagnato a Ventimiglia 45 mila viaggiatori non autorizzati
che erano riusciti a infiltrarsi nell’Esagono. Frau Merkel ha urgenza di
arrestare il flusso dei clandestini per salvare il governo federale,
così persegue con foga un’intesa sui respingimenti di chi arriva senza
permesso. La esige subito. Mentre Macron rinforzerà i pattugliamenti sul
fonte alpino, i tedeschi spingeranno verso l’Austria che cercherà di
rifarsi con l’Italia, se necessario anche blindando il Brennero.
Alla
vigilia del vertice europeo del 28-29 giugno, le fonti diplomatiche
prevedono che il dossier Dublino verrà congelato con una formula
attendista e che la partita primaria sarà sulla sicurezza
franco-tedesca, con ricadute analoghe sull’Austria e i quattro di
Visegrad - campioni di muri e solidarietà perduta. Solo in seconda
battuta emergerà l’attenzione all’Italia che invoca più attività
congiunta nei mari davanti ai porti che, a parole, vorrebbe chiudere. Se
va bene, si deciderà di usare subito i denari stanziati dalla
Commissione Ue per stringere la vigilanza sulle frontiere esterne e dare
più lena a Frontex, l’agenzia che vigila sui confini. Ma la
responsabilità di facciata resterà nostra.
Il punto di equilibrio
possibile sta nel soddisfare il Nord senza lasciare ancora sola
l’Italia. Se non lo si trovasse, gli effetti sui rapporti politici
nazionali e bilaterali saranno pesanti. Potrebbero rivoluzionare gli
assetti europei e infliggere un colpo mortale alla Convenzione di
Schengen, già debole, sospesa da Parigi nel 2015, e da Germania,
Austria, Danimarca, Norvegia e Svezia nel 2016. «Temporaneamente», si
diceva, ma ormai sempre più «a tempo indeterminato». L’addio a Schengen
marcherebbe la fine della libertà di circolazione. Sarebbe un dramma
provocato da una classe dirigente afflitta da amnesie storiche, che alza
barriere e riporta nel passato gli europei, perché, distratta dal suo
ombelico, ha perso la bussola dei valori comuni.