venerdì 8 giugno 2018

internazionale 1.6.18
La nascita di una lingua tra i sordi in Nicaragua
Negli anni ottanta in una scuola di Managua, gli studenti sordi non potevano parlare a gesti. Ma nonostante il divieto crearono una loro lingua dei segni
Di Dan Rosenheck, 1843, Regno Unito


“Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Sembra che nel 1948 l’allora presidente degli stati uniti Franklin Roosevelt definì così Anastasio Somoza, il dittatore del Nicaragua sostenuto da Washington. I connazionali di Somoza avevano pochi motivi per ringraziare la dinastia di governanti corrotti da lui fondata. Ma Hope Portocarrero, la moglie statunitense del figlio di Somoza, Anastasio Jr., cercava nella beneficenza un rifugio dall’infelicità del suo matrimonio. Tra le varie iniziative nel 1977 aveva fondato a Managua, la capitale del Nicaragua, una scuola per studenti con disabilità che poi prese il nome di Melania Morales, un’insegnante morta in un incidente. Gli eventi politici presto frenarono lo sviluppo della scuola. Nel 1979 i guerriglieri sandinisti rovesciarono il regime dei Somoza, ma il costo umano fu altissimo: la loro rivoluzione uccise un nicaraguense su settanta e ne lasciò uno su cinque senza tetto. Anche i sandinisti si rivelarono a loro modo autoritari, però lanciarono una campagna per superare il grave analfabetismo del paese. Alla Fine della dittatura solo un quinto dei contadini nicaraguensi sapeva leggere e scrivere. I sandinisti puntavano a istituire quattro anni di scuola per tutti e svilupparono l’istruzione per bambini con bisogni speciali. Nel 1984 nella scuola Melania Morales c’erano già quattrocento studenti, e il più piccolo aveva sei anni. Il governo creò anche un istituto di formazione professionale dove gli adulti sordi potevano imparare un mestiere e studiare come falegnami o parrucchieri. Nonostante le buone intenzioni, la Melania Morales fu un fallimento per gli studenti sordi. In Europa le scuole per sordi avevano insegnato con successo la lingua dei segni in dal settecento, ma la pratica era quasi scomparsa dopo il 1880, quando una conferenza di educatori a Milano la vietò sostenendo che i sordi dovessero imparare la lingua parlata per realizzare appieno il loro potenziale. Al posto della lingua dei segni si scelse così un approccio “oralista”: gli studenti dovevano imparare a leggere le labbra e ad articolare suoni anche se non potevano sentirli. Negli anni sessanta nelle scuole degli stati uniti si cominciò a tornare a una combinazione di lingua dei segni e tecniche oraliste. Ma in Nicaragua i sandinisti, in guerra contro una rivolta di destra appoggiata da Washington, erano chiusi a ogni influenza della potenza egemone. Si attenevano alle indicazioni che arrivavano dall’unione sovietica e dalla Germania dell’Est, dove i vecchi dogmi continuavano a essere applicati con rigidità. Alla Melania Morales negli anni ottanta gli studenti sordi ascoltavano in cuffia dei suoni amplificati di tuoni e versi di animali per stimolare l’udito. Copiavano parole scritte dai loro insegnanti alla lavagna e cercavano d’indovinarne la pronuncia. Ma si limitavano a imparare a memoria: quando gli insegnanti li invitavano a formare delle frasi in spagnolo, rimanevano sconcertati. Nelle aule gli unici gesti consentiti erano i segni di un alfabeto manuale usato per indicare le singole lettere, per paura che, con la comunicazione visiva, gli studenti perdessero le tecniche oraliste. Se gli insegnanti vedevano un alunno muovere le mani in altri modi, gli ordinavano di metterle sul banco e di restare con gli occhi fissi sul professore. Anche se in classe si perdeva un mucchio di tempo, la scuola aveva un’influenza profonda sugli studenti. a differenza di tutte le generazioni precedenti di nicaraguensi sordi, gli alunni della Melania Morales erano circondati da altri bambini sordi di tutte le età. E ogni anno circa trenta alunni entravano in prima. Alla fine delle elementari, molti studenti passavano alla scuola professionale. Nei corridoi e negli scuolabus gli insegnanti non potevano impedire ai ragazzi di comunicare come volevano. a metà degli anni ottanta i professori della Melania Morales si accorsero che i bambini muovevano e contorcevano le mani appena suonava la campanella. Molti giovani docenti reclutati per il progetto di educazione speciale dei sandinisti non avevano mai avuto a che fare con ragazzi sordi e non conoscevano i sistemi d’insegnamento in vigore in altri paesi. Perfino chi sapeva che all’estero esistevano le lingue dei segni, liquidava quei gesti come se fossero una semplice mimica, dei movimenti esagerati da pagliaccio.
Enigma irrisolto
Un giorno del 1990 Patricia gutiérrez, un’insegnante di 24 anni che non aveva mai frequentato l’università, vide una studente, Reyna Cruz, fare un gesto dall’aria violenta verso un gruppo di amiche. Reyna si era passata un dito sul collo e poi sull’avambraccio sinistro. Gutiérrez immaginò che la ragazza alludesse al sangue o a un taglio, ed ebbe paura che stesse minacciando le compagne. Poco dopo Cruz lasciò la scuola con due ore di anticipo. Il preside la convocò per farle una lavata di capo. Con grande sorpresa di Gutiérrez, quando si presentò al colloquio Cruz portò con sé tre adulti: un uomo sordo, Javier López, e le sue due sorelle udenti, María e Sandra. Le donne erano delle interpreti, anche se il preside non aveva idea di cosa dovessero interpretare. Ma quando Cruz cominciò a gesticolare, loro tradussero i suoi segni. spiegarono al preside che Cruz era andata via prima perché non aveva capito fino a quando doveva rimanere a scuola. Il gesto di portare il dito alla gola significava “sto dicendo la verità”, mentre il minaccioso movimento del braccio voleva dire “fratello”. I gesti di Cruz non significavano quello che sembravano rappresentare a livello visivo. Erano dei segni, e il loro rapporto con il contenuto era arbitrario proprio come il collegamento tra i suoni delle parole e il loro significato in spagnolo. “Ero stupita”, dice Gutiérrez. “Vedevamo i ragazzi muovere le mani fuori dall’aula, ma non sapevamo cosa facessero. Ora c’erano degli adulti udenti che muovevano le mani nello stesso modo. Era la prima volta che vedevo qualcuno parlare e contemporaneamente segnare”. Dopo la riunione con il preside Cruz non fu punita. Tutti gli insegnanti della scuola erano sconvolti. “Credevo semplicemente che i bambini gesticolassero molto”, dice Amy Ortiz, un’altra maestra di quegli anni. “Mi chiesi se muovevano le mani senza motivo o se stessero dicendo qualcosa. Poteva davvero essere una lingua?”.
Sogni ambiziosi
Di tutte le invenzioni umane, nessuna ha avuto più conseguenze della nascita del linguaggio. Prima del suo sviluppo la conoscenza di ogni individuo era limitata a quello che sperimentava in modo diretto. Dopo, grazie al linguaggio, chiunque poteva condividere con gli altri quello che imparava. tutte le forme di vita comunicano in qualche modo, ma solo l’Homo sapiens ha sviluppato un sistema di simboli abbastanza complesso e flessibile da permettere di accumulare e trasmettere le informazioni da persona a persona e di generazione in generazione. Eppure, malgrado i poteri straordinari che il linguaggio ci ha dato, non abbiamo risolto l’enigma della sua origine. Le lingue parlate non lasciano nessuna traccia materiale, perciò non ci sono prove per dimostrare o smentire le ipotesi che riguardano la loro genesi. Nel 1866 la società di linguistica di Parigi mise al bando ogni dibattito sull’argomento sostenendo che non era suscettibile di analisi scientifica. Perfino nel nostro secolo il titolo di un’antologia di ricerche sull’argomento si chiedeva se non fosse “il problema più difficile della scienza”. Oggi le teorie credibili sulle prime fasi della lingua sono quasi altrettanto numerose degli studiosi che lavorano in questo campo. In linea di massima i linguisti possono essere raggruppati in due schieramenti, che corrispondono grosso modo a natura e cultura. I nativisti o innatisti, associati soprattutto al linguista Noam Chomsky, credono che la capacità della lingua sia programmata nel dna umano. secondo loro le lingue umane, nonostante le differenze, condividono alcune caratteristiche strutturali di base, come la distinzione tra sostantivi e verbi. È davvero improbabile che tante lingue diverse con uno sviluppo autonomo abbiano sviluppato queste somiglianze, a meno che, come sostengono gli innatisti, non discendano dall’architettura del cervello umano. Un altro argomento a loro favore è il fatto che i bambini padroneggiano sempre tutte le sfumature della loro prima lingua, anche se sono esposti direttamente solo a una sua piccola parte. Poiché la loro conoscenza non può derivare solo dall’esperienza, dicono gli innatisti, tutto il resto dev’essere presente in loro fin dalla nascita. Il campo opposto è quello degli empiristi, secondo cui il linguaggio è solo un aspetto dello sviluppo più ampio di una cultura simbolica, privo di un imprinting biologico superiore, diciamo, a quello dell’andare in bicicletta. gli empiristi si divertono a fornire esempi che smentirebbero quella che Chomsky chiama “la grammatica universale”. Per esempio le lingue salish, parlate da alcune tribù indigene del Canada e degli Stati Uniti, fondono sostantivi e verbi in unità composite e flessibili. Il loro ruolo nella frase è determinato dalle parole circostanti. Gli empiristi osservano poi che i bambini apprendono la lingua in modo graduale nel corso di alcuni anni, rigurgitando frammenti a mano a mano che li ascoltano e facendo sempre meno errori di grammatica, una cosa molto diversa da un’abilità innata come camminare, che s’impara in un colpo solo. Quando ha cominciato a venire meno il divieto di studiare le origini della lingua, gli esperti di linguistica evolutiva hanno ideato nuovi metodi per trovare risposte parziali al mistero. Hanno individuato dei geni che sembrano necessari per produrre una vera lingua e hanno analizzato dna antichi per ricercarne la presenza. Poi hanno analizzato il numero di suoni diversi nelle lingue di varie regioni per stabilire dove e quando hanno cominciato a differenziarsi. L’ipotesi migliore è che sia stato nell’africa subsahariana qualche centinaia di migliaia di anni fa. Ma tutto il loro lavoro ha offerto solo sprazzi di comprensione per questa immensa questione. I sogni dei linguisti erano più ambiziosi. Nel 1976 lo studioso britannico
Derek Bickerton propose un esperimento per testare la sua teoria secondo cui il genoma umano contiene un “bioprogramma” linguistico così dettagliato da specificare l’ordine di soggetti, verbi e complementi in una frase. Dopo aver potenziato la sua creatività con della buona marijuana hawaiana, Bickerton propose di prendere sei famiglie che parlavano lingue diverse e metterle insieme su un’isola disabitata per tre anni. Se la sua teoria era giusta, i genitori avrebbero formato un “pidgin”, cioè un idioma basato sulla mescolanza delle diverse lingue originarie, con un vocabolario limitato e concordato ma senza una vera struttura o complessità. I bambini, invece, avrebbero prodotto un “creolo”, cioè una lingua completa con una vera grammatica, corrispondente alle caratteristiche del bioprogramma che lui aveva ipotizzato. L’università della Hawaii approvò l’idea. Ma la National science foundation statunitense annullò il progetto temendo che fosse impossibile assicurarsi il consenso informato delle persone che partecipavano all’esperimento. A meno che i ricercatori non trovassero un gruppo di bambini che non erano stati esposti a nessuna lingua prima di stare insieme, questo fondamentale interrogativo sulla natura umana sarebbe rimasto senza risposta. E visto che non sono mai state scoperte tribù o popolazioni mute, sembrava una fantasia irrealizzabile. Ma all’insaputa di Bickerton, il suo sogno stava diventando realtà in Nicaragua.
Un nuovo dizionario
Negli anni ottanta il Nicaragua, devastato da vent’anni di guerra e disastri naturali, era ben diverso dall’atollo idillico e isolato del Pacifico immaginato da Bickerton per il suo studio. Ma per alcuni versi l’esperimento naturale che stava nascendo nel paese era superiore alla sua proposta. Bickerton aveva immaginato di mettere insieme famiglie che parlavano lingue diverse per vedere se i figli ne avrebbero creata un’altra ancora. ampliando la scuola Melania Morales e fondando la scuola professionale per sordi, i sandinisti avevano fatto di meglio: avevano preso centinaia di sordi che non avevano nessuna lingua e li avevano esposti l’uno all’influenza dell’altro fino all’età adulta. La Melania Morales non era l’unica fonte di creatività linguistica per i sordi del Nicaragua. a Managua c’era anche una casa gialla di un solo piano dietro a un centro commerciale. La chiamavano “la casa dei sordi” ed era gestita da Javier, María e Sandra López, le persone che Reyna Cruz aveva portato alla riunione con il preside. Javier López era nato nel 1961. In famiglia comunicava con segni rudimentali che il padre lo aveva aiutato a sviluppare attraverso i disegni. A scuola gli insegnanti cercavano di fargli pronunciare i suoni spagnoli torcendogli il mento. Da giovane si era guadagnato da vivere montando sedie a rotelle, ma aveva dedicato la maggior parte del suo tempo a un’attività che non richiedeva molti discorsi: l’atletica. Era un buon velocista, correva i cento metri in appena undici secondi, solo un secondo in più del record mondiale. López vide per la prima volta una lingua dei segni nel 1977, in un programma tv statunitense. Durante un viaggio in Venezuela per partecipare a una gara, comprò una guida alla lingua dei segni usata nella Costa Rica e la portò in Nicaragua. Ma nell’istituto professionale l’oralismo era imposto ancora più severamente che alla Melania Morales: gli insegnanti picchiavano sulle mani gli studenti sorpresi a scambiarsi gesti. un giorno gli insegnanti di López gli confiscarono il dizionario. Lui però non si fece intimorire: entrò nella stanza dove i professori avevano lasciato il libro, lo nascose in un costume da ballo popolare e se ne andò. López e alcuni suoi amici sordi cominciarono a riunirsi regolarmente per guardare il dizionario. All’inizio si sforzarono d’imparare i segni della Costa Rica, ma cercare di comunicare usando un manuale straniero era innaturale, perché nessuno di loro aveva mai usato segni del genere con la famiglia o con gli amici. “Non mi riconoscevo in quei gesti”, spiega López. “sentivo che dovevo trovare dei segni che ci appartenessero”. Così cercarono di creare un loro vocabolario. a ogni incontro i partecipanti analizzavano un elenco di concetti, spesso aprendo un giornale e indicando le foto o i fumetti. Poi proponevano dei segni e votavano per quello che avrebbero usato. Infine López, che era diventato un abile disegnatore grazie agli sforzi fatti da bambino per comunicare con il padre, riportava su carta ogni segno uscito vittorioso dalla votazione in modo da creare un archivio delle loro decisioni. Del gruppo facevano parte studenti più grandi e ragazzi appena usciti dalla Melania Morales, quindi i bambini della scuola potevano includere quei segni nella loro lingua nascente. López cominciò a chiedere contributi finanziari ai donatori stranieri e nel 1988 una ricca associazione svedese che aiutava i sordi accettò di comprare la casa gialla. Il gruppo di López, l’associazione nazionale dei sordi del Nicaragua (ansnic), diventò l’ente dei sordi del paese. Dopo l’incontro della famiglia López e di Reyna Cruz con il preside della Morales, il gruppo avviò la formazione del corpo insegnanti della scuola, che abbandonò l’oralismo a favore di quella che oggi è nota come lingua dei segni del Nicaragua (Isn). Per i bambini sordi del paese fu la salvezza. Da piccolo Jordan Cienfuegos, un ragazzo di 25 anni pelle e ossa che si sta specializzando nell’insegnamento ai sordi all’università nazionale del Nicaragua, cominciò a frequentare una scuola per udenti. “Non volevo andarci”, ricorda, “mi sentivo solo”. Così rimase a casa, facendo il possibile per capire la madre leggendole le labbra. Quando aveva otto anni la mamma lo portò alla Melania Morales. “Avevo paura delle persone che facevano segni con le mani, ma mia madre mi spiegò che erano sordi”, dice. “Finalmente capii che non ero l’unico bambino sordo del mondo”. L’Isn è una lingua e anche una risorsa per la vita comunitaria. alla festa dell’ansnic a cui ho partecipato, Jefreey sadrac Mejía danzava davanti a una ragazza seduta che si copriva la bocca con i capelli per nascondere il sorriso. Ballare è la sua passione: non può sentire le vibrazioni della musica, ma osserva gli altri ballerini e “sente la musica nel corpo”. a scuola Sadrac Mejía aveva molti problemi e i genitori, entrambi lavoratori, erano troppo impegnati per aiutarlo. Così cominciò a frequentare la casa gialla: “Mi aiutavano a fare i compiti. Insieme a me c’erano tanti altri bambini sordi”, dice. “I miei voti migliorarono e io ero contento di aver trovato un posto così”.
L’uso dello spazio
La nascita dell’Isn ha dato ai linguisti un’opportunità senza precedenti per assistere al passaggio dall’assenza alla presenza della lingua, un processo simile a quello che dev’essere avvenuto quando il linguaggio verbale è emerso per la prima volta. Il confronto non è perfetto: mentre crescevano i nicaraguensi sordi erano circondati da gente che parlava una lingua, a differenza dei loro antenati nella savana preistorica. Eppure, come disse Noam Chomsky in un’intervista del 1996, “questa è l’analogia più vicina che la natura può fornirci al tipo di esperimento che avremmo fatto se avessimo dato mano libera a Josef Mengele”, medico e criminale nazista. La prima linguista a rendersi conto di quello che stava succedendo fu Judy Kegl, un’ex studente di Chomsky. Nel 1986 l’associazione statunitense Linguisti per il Nicaragua, che sosteneva la campagna di alfabetizzazione dei sandinisti, la mandò a Managua. Visto che Kegl aveva studiato la lingua dei segni americana (asl) al Massachusetts institute of technology (Mit), il ministero dell’istruzione nicaraguense le chiese di lavorare con i sordi. Il suo primo incarico fu all’istituto professionale, dove gli studenti più giovani avevano circa 18 anni. Tutti avevano sviluppato diversi segni per comunicare con le famiglie a casa, e si percepiva. In classe avevano concordato alcuni segni per indicare le parole più importanti del mestiere che stavano imparando. Erano in gran parte descrizioni semplici degli oggetti o delle attività a cui erano collegati. Ma questo vocabolario era limitato a un unico segno per ogni idea o avvenimento, e i segni non venivano combinati in frasi o paragrafi. Di solito i bambini più grandi hanno un linguaggio più elaborato. Ma quando Kegl visitò la Melania Morales scoprì che era vero il contrario. a differenza degli studenti dell’istituto professionale, tutti i bambini avevano un segno particolare per indicare se stessi. Non si conosce nessun sistema gestuale che assegni dei nomi ai suoi utenti. Inoltre, ogni studente dell’istituto professionale formava i segni concordati in modo leggermente diverso, e spesso dovevano provare molti movimenti per far capire all’interlocutore i loro messaggi. Gli alunni delle elementari, invece, si scambiavano gesti fulminei senza avere nessun problema d’incomprensione. Per cercare di decifrare questi segni, nei viaggi successivi Kegl portò con sé delle strisce a fumetti di Mr Koumal, un personaggio cecoslovacco le cui avventure si possono descrivere solo usando molti concetti e tempi verbali. Quando mostrò le strisce ai bambini chiedendogli di raccontare le storie con i segni, distinse nei loro gesti alcuni schemi chiaramente grammaticali che ricordavano da vicino le strutture di lingue dei segni straniere a cui i bambini non erano mai stati esposti. In particolare Kegl fu colpita dalla posizione delle loro mani quando segnavano. Per distinguere tra soggetto e oggetto l’inglese e lo spagnolo si basano soprattutto sull’ordine delle parole, insieme a qualche preposizione o pronome declinato. Il gruppo dell’istituto professionale aveva una tecnica simile e usava una rigida sequenza sostantivoverbosostantivoverbo (per esempio “lui dà, lei riceve”). Invece i bambini della Melania Morales facevano a meno di questa convenzione. Approfittavano di un espediente comunicativo fondamentale presente nel linguaggio manuale, ma assente dalla lingua parlata: l’uso dello spazio. Assegnavano un punto di fronte a sé all’uomo e un altro alla donna, e muovevano la mano da un punto all’altro facendo il segno del verbo “dare”, condensando così in un movimento solo i quattro segni che sarebbero stati necessari seguendo il metodo dell’ordine delle parole. “Nessuno si era ancora accorto che quei bambini sordi avevano una lingua”, racconta Kegl. “Ma con l’occhio della linguista, capii che era tutto lì. riuscivo a cogliere la grammatica, le ripetizioni e le espressioni facciali che avevano una funzione sintattica. a quel punto dissi: ‘aspettate un attimo, cosa sta succedendo?’”. Quando la notizia di quello che avveniva alla Melania Morales raggiunse i dipartimenti di linguistica di tutto il mondo, gli innatisti esultarono. Steven Pinker, uno dei maggiori esponenti di questa teoria, ne fece un caso di studio nel suo libro
L’istinto del linguaggio.
Negli anni successivi nacque una piccola industria specializzata nella ricerca sulla lingua dei segni del Nicaragua. I lavori più rigorosi pubblicati negli ultimi anni non abbracciano l’interpretazione innatista più estrema, secondo cui la lingua è apparsa perfettamente formata dalla sera alla mattina, come Atena dalla testa di Zeus. Però sostengono gli innatisti lasciando intendere che i bambini hanno una facoltà linguistica congenita separata e distinta dall’intelligenza generale degli esseri umani.
Schema ricorrente
Ann Senghas, una professoressa del Barnard college di New York, studia l’Isn dal 1989, concentrandosi soprattutto su come ogni gruppo successivo di studenti cambia il suo modo di comunicare. In uno studio Senghas ha misurato la “modulazione spaziale”, cioè se chi segna attribuisce una posizione coerente e diversa nello spazio a ogni persona o cosa di cui sta parlando in base al suo ruolo in una frase. Senghas ha scoperto che mettere insieme dei bambini piccoli non bastava a produrre questa caratteristica distintiva di una lingua dei segni matura: molte persone del primo gruppo di madrelingua, entrate alla Melania Morales tra il 1977 e il 1983, si affidavano all’ordine delle parole per collegare sostantivi e verbi oppure cambiavano le posizioni da una frase all’altra. Nel secondo gruppo, però, quasi tutti usavano la stessa regola spaziale. Inoltre le persone del secondo gruppo che non usavano la regola spaziale avevano in comune un dato molto significativo. Molti linguisti credono che gli esseri umani imparino come madrelingua solo la lingua a cui sono esposti da piccoli, molto prima dell’inizio della pubertà. Gli innatisti sottolineano questo “periodo critico” a dimostrazione di un istinto biologico: se i bambini sono molto più bravi degli adulti a imparare le lingue, ma meno bravi ad apprendere quasi ogni altra cosa, quest’abilità linguistica dipenderà dal genoma. E in effetti mentre gli abili gesticolatori del secondo gruppo avevano in comune di essere entrati alla Melania Morales prima di compiere sei anni, quelli che non avevano il controllo totale di tutte le sottigliezze della lingua l’avevano imparata da più grandi.
Questo schema – gli esseri umani possono creare una lingua completa solo se sono circondati fin da piccoli da persone più grandi che producono simboli linguistici come suoni o gesti – suggerisce un solo meccanismo plausibile per l’origine della lingua. I primi a usare il precursore dell’Isn, tra cui López e le persone più anziane dell’ansnic, avevano creato un vocabolario limitato senza sviluppare una grammatica per collegare una parola all’altra. Il primo gruppo di madrelingua cominciò a essere esposto a questa serie di segni non collegati tra loro all’età di cinque anni. È il periodo in cui gli esseri umani hanno una predisposizione congenita a individuare e a riprodurre le regolarità linguistiche, una caratteristica emersa forse da una mutazione genetica favorevole in qualche fase della preistoria. “Quando i bambini osservavano qualcosa che sembrava uno schema ricorrente, pensavano sbagliando che fosse una regola”, scrive il marito di Kegl, James, che ha fondato una scuola per sordi sulla costa atlantica del Nicaragua. Le regole appena inventate si diffondevano con rapidità tra i compagni di gioco e di classe. Quando il secondo gruppo cominciò a frequentare la scuola, le regole erano diventate abbastanza comuni da far sì che ogni persona giovane della generazione successiva le riproducesse alla perfezione. “La mente dei bambini trova schemi ovunque”, dice Senghas. “Qualunque cosa diventa grammatica”. Anche tra gli innatisti rimane molta incertezza su quali abilità linguistiche possano essere acquisite a pieno solo dai bambini. Individuare queste abilità sarebbe forse il modo migliore per identificare quali aspetti della lingua hanno una base nella biologia e quali nella cultura. un altro studio di Senghas si è avvicinato come mai in passato a questo difficile obiettivo. La studiosa ha preso dieci persone da tre diversi gruppi che usavano l’Isn e dieci nicaraguensi che parlavano lo spagnolo. Poi gli ha mostrato lo stesso fumetto di un gatto che, dopo aver ingoiato una palla da bowling, rotola giù da una collina. Infine li ha registrati mentre raccontavano quello che avevano visto. tutto quello che dicevano le persone udenti era irrilevante, l’unica cosa importante erano i gesti che accompagnavano le loro parole. Senghas ha concentrato l’attenzione su un aspetto, cioè se i soggetti dell’esperimento spezzavano la “modalità” del movimento (rotolare) e la “direzione” (verso il basso) in gesti diversi, oppure se li lasciavano uniti in un’unica ricostruzione del movimento. Per la comunicazione semplice di quello che è successo, il movimento combinato dà maggiori informazioni: dimostra che il rotolamento e il movimento verso il basso sono avvenuti simultaneamente invece che, per esempio, con un rotolamento orizzontale seguito da una caduta. Però i movimenti separati sono più flessibili: possono essere riadattati per descrivere ogni tipo di rotolamento o qualsiasi movimento verso il basso. I risultati di questo esperimento hanno segnato una linea di demarcazione netta tra le forme più avanzate di comunicazione non linguistica, usate da molte altre specie, e i tipi più rudimentali di linguaggio, che hanno solo gli esseri umani. tutti gli udenti e gran parte delle persone sorde del primo gruppo mimavano il movimento in un unico gesto. La maggioranza delle persone sorde del secondo e terzo gruppo, invece, riproduceva modalità e direzione con segni diversi, e molte ripetevano il primo segno – cioè “rotolarescendererotolare” – per chiarire che i movimenti erano simultanei. Era questa l’essenza di ciò che rende una lingua tale. Solo la comunicazione linguistica, scrive Senghas, è “discreta e combinatoria”: scomponendo le cose in pezzi (parole) e rimontandole in modi nuovi consente a chi parla di produrre “una serie infinita di espressioni con una serie infita di elementi”. “La modalità e la direzione del movimento non sono mai separati nel mondo reale”, dice la studiosa. “Ma noi le smontiamo e le associamo a cose separate in una frase. Un gatto osserva un evento, ma non lo distingue in soggetto dell’azione, azione e oggetto dell’azione. Cosa fa la parte linguistica del cervello? Smonta le cose in pezzi che poi vengono modellati in blocchi di linguaggio”.
Una questione politica
Dalla sua comparsa all’inizio degli anni ottanta fino a oggi l’Isn ha continuato a crescere. In seguito a una vivace campagna di protesta all’inizio degli anni duemila per permettere ai sordi di proseguire gli studi dopo le elementari, due istituti secondari pubblici di Managua hanno cominciato a usare gli interpreti. In una di queste scuole, nel quartiere di Bello Horizonte, tre studenti su cinque nelle classi miste dell’istituto sono sordi. Molti alunni udenti hanno imparato la lingua dei segni per fare amicizia con i compagni e per frequentare le ragazze sorde. L’università pubblica sta formando una nuova generazione di interpreti che per la prima volta offriranno ai sordi l’opportunità di studiare con docenti madrelingua Isn. Nel 2009 il governo ha dichiarato l’Isn una lingua ufficiale. Perciò ora i discorsi ufficiali sono tradotti e i giudici, i sacerdoti e i medici studiano la lingua. Ma se da una parte l’Isn ha contribuito a integrare i sordi nella società nicaraguense, la lingua ha dovuto evolversi per tenere il passo. Negli anni ottanta il vocabolario dell’Isn è cresciuto in modo organico, con nuovi segni che apparivano quando ai sordi mancava una parola per un’idea che volevano comunicare. Ora che la lingua viene usata per insegnare discipline come scienza, storia e matematica, il processo si è rovesciato: affinché gli studenti sordi possano capire un concetto accademico preciso, occorre prima inventare un segno. Anche l’avvento degli smartphone e dei social network ha prodotto un rapido cambiamento. anche se per l’alfabetizzazione non serve l’udito, i sordi hanno difficoltà con la comunicazione scritta, perché non riescono a mettere bene in relazione una lettera con il suono corrispondente. Con gli emoji è diverso, e oggi le persone sorde inviano messaggi pieni di simboli pittografici. un’opzione ancora migliore sono le videochiamate: gli adolescenti sordi del Nicaragua sono bravissimi a segnare con una mano sola mentre tengono il telefono nell’altra. Come per tanti altri aspetti della vita del paese centroamericano, la questione di come cambia l’Isn e di chi ne influenza lo sviluppo ha assunto una forte connotazione politica. Per chi simpatizza con la rivoluzione sandinista, il solo fatto che sia nata la lingua dei segni è un trionfo dell’autodeterminazione nicaraguense. Per decenni i difensori dei sordi negli stati uniti hanno cercato d’incoraggiare la comunità internazionale dei sordi diffondendo la lingua dei segni americana in tutto l’emisfero. Ma nel Nicaragua dei sandinisti gli “imperialisti linguistici” non hanno fatto presa, dando alla lingua dei segni locale la possibilità di mettere radici. Da quando Javier López decise d’ignorare il suo prezioso dizionario dei segni della Costa Rica, lui e l’ansnic hanno lottato per scongiurare ogni “contaminazione” straniera. Il governo si rifà all’associazione sia per produrre il dizionario usato nelle scuole sia per formare e accreditare gli interpreti. “altri paesi centroamericani copiano il dizionario dei segni americano, gli cambiano il nome e lo chiamano per esempio lingua dei segni dell’Honduras”, dice Maria López. “Noi diciamo: ‘Questo è un segno dei gringos e non vogliamo usarlo. Nessuno può inquinare la lingua qui’”. È un atteggiamento molto apprezzato dai linguisti che studiano l’Isn – quasi tutti statunitensi – perché ha contribuito a conservare intatto quest’esperimento naturale per quarant’anni. Ma resta da vedere se tutta questa sorveglianza risponda davvero agli interessi dei sordi del Nicaragua. Nonostante la rapida crescita dell’Isn, in tutto il mondo ci sono forse solo 2.500 persone che parlano la lingua e qualche decina d’interpreti che sono in grado di tradurlo. Invece solo negli stati uniti ci sono almeno 500mila persone che usano perfettamente la lingua dei segni americana, la lingua franca dei sordi in tutta l’America Latina. Proprio come imparare l’inglese può migliorare le prospettive di chi parla spagnolo, la lingua dei segni americana può aprire molte porte alle persone sorde. Secondo Cynthia Fornos, che è sorda perché sua madre aveva contratto la rosolia durante la gravidanza, il protezionismo linguistico dell’ansnic sta rallentando lo sviluppo dell’Isn. “Secondo l’associazione ogni persona sorda deve parlare la versione della lingua dell’ansnic”, dice. Ma il dizionario dell’ansnic contiene solo 1.200 parole e non viene aggiornato da vent’anni. “Quando una parola manca, viene presa in prestito da un’altra lingua”, spiega. “La mia lingua dei segni si è fusa con lo spagnolo e con le lingue dei segni di altri paesi. L’ansnic sostiene di rispettare i nostri segni, ma non è così. Quando parliamo con loro, ripetono sempre: ‘aderite all’associazione, cambiate il vostro modo di parlare’”. Javier López non rinuncerà mai ai suoi sforzi per mantenere puro l’Isn. Ma il suo vero progetto di vita è l’adozione di massa della lingua. I suoi sforzi hanno avuto tanto successo che ora l’Isn ha troppi utenti perché l’ansnic riesca a controllarla. Raggiungendo un numero sempre maggiore di persone, l’Isn continuerà a crescere e ad assimilare prestiti dall’estero. Questo lo renderà meno prezioso per i ricercatori, ma sempre più funzionale per chi lo usa. Al di là del suo valore per i linguisti, l’Isn ha aiutato soprattutto i nicaraguensi sordi, che sono passati dall’isolamento all’inclusione nell’arco di una generazione. “Imparare i segni mi ha aiutato a capire e a conoscere tante cose”, dice Jordan Cienfuegos. “Ora non mi vergogno più di essere sordo, di andare per strada, perché posso usare i segni. Finalmente mi sento una persona come le altre”.