il manifesto 13.6.18
Uno spartiacque nel potere costituito
Edgar Morin. «Maggio 68. La Breccia», del filosofo francese per Raffaello Cortina
di Alessandro Santagata
Come
era prevedibile, la ricorrenza del cinquantenario del Sessantotto ha
già riempito gli scaffali delle librerie. Molta memorialistica, numerose
ristampe, nuove edizioni; e qualche studio originale. È ancora presto
per tirare le somme, ma risulta già evidente la riproposizione di schemi
interpretativi ormai consolidati e spesso figli delle polemiche che
hanno scandito gli ultimi decennali. La memoria del Sessantotto rimane
un campo aperto e conflittuale, sebbene depotenziato dalla crisi
complessiva che ha investito l’eredità dei long sixties a tutti i
livelli.
IN UN BEL LIBRO del 2008 (Le Moment 68, Seuil) la storica
Michelle Zancarini-Fournel ha illustrato i passaggi di questa «storia
contestata», mettendo in luce la parabola del Sessantotto nella memoria
pubblica francese: dalla «vittoria culturale» della generazione delle
barricate alla demonizzazione, che ha assunto le sembianze di un
processo ai soixante-huitards. Si inseriscono nella primissima stagione,
quella delle razioni «a caldo», i due articoli di analisi pubblicati da
Edgar Morin su Le Monde tra maggio e giugno 1968 e successivamente
raccolti nel volume collettaneo Mai 68. La Brèche, nel quale comparivano
anche contributi di Cornelius Castoriadis e Claude Lefort.
Morin
sarebbe tornato a scrivere del Sessantotto in occasione del primo
decennale e nuovamente nel 1986 sulla rivista Pouvoirs. Entrambi i testi
sono stati integrati nelle successive edizioni e ora tradotti in
italiano da Raffaello Cortina Editore: Maggio 68. La Breccia, a cura di
Francesco Bellusci (pp. 124, euro 11).
Nella prefazione, datata
gennaio 2018, Morin ricorda i mesi trascorsi a Nanterre – dove era stato
chiamato a sostituire per un breve periodo Henri Lefebvre –, le visite a
Jussieu, alla Sorbona, nel cuore della protesta parigina. «Diversamente
dai trotzkisti, dai maoisti, ecc, che pensavano che stesse per
cominciare una rivoluzione – commenta – noi pensavamo che si trattasse
di una breccia. Qualcosa che stava per affermarsi come una breccia al di
sotto della linea di galleggiamento della civiltà borghese
occidentale».
LA TESI DI FONDO, rimasta invariata nel tempo, è che
l’anima del movimento fosse, in sostanza, «sovra e infra-politica». Il
taglio interpretativo generazionale – l’idea di una «lutte de classe
d’âge» di carattere internazionale – sarebbe stato avvalorato dagli
eventi degli anni Settanta, quando «l’ideologia che è stata
sovraimpressa sul maggio ’68 si è dissolta» sotto i colpi dei nouveaux
philosophes, della debolezza del comunismo globale, degli effetti della
crisi economica e delle sue conseguenze politiche. Del Sessantotto si
sarebbe conservato invece il suo spirito, a tal punto da considerarlo
una vera e propria svolta antropologica, una «liberazione dei costumi»
rimasta viva nel nuovo femminismo.
MORIN RIGETTA quindi la tesi
del ’68 come puro e semplice adattamento alla modernizzazione
neocapitalistica. Leggendo i testi nella loro successione storica è
possibile rintracciare alcune oscillazioni nell’analisi e ricostruire le
tappe della sua evoluzione. Nei primi due articoli, infatti, sembra
prevalere l’esigenza polemica nei confronti di due modelli
interpretativi: quello di Raymond Aron e di parte dell’establishment,
che riduce la protesta a un problema di anacronismo della struttura
universitaria, e quella dei «gruppuscoli» dell’estrema sinistra. Per
Morin, il ’68 sarebbe nato invece da un’elettrolisi, a partire da due
poli estremi: da una parte sì l’inadeguatezza dell’università rispetto
alla pressione demografica, ma dall’altra il rifiuto degli studenti
verso un sistema modellato sulle carriere tecnico-burocratiche.
Il
filosofo-osservatore descrive la lotta sulle barricate come un «gioco»,
anche se ad altro rischio, che avrebbe permesso a una generazione di
compiere un ingresso alternativo nella società adulta. I gruppi
rivoluzionari non rappresentano per lui che un’eccedenza, un di più, ma
strategico perché permette la fraternizzazione tra studenti e operai,
iscrivendo così il movimento nell’asse rivoluzionario della storia
francese. L’apporto dell’estrema sinistra diventa invece negativo nella
fase discendente del movimento, cioè quando «le parole “rivoluzione” e
“classe operaia” ridiventano parole mana» e la crisi viene (rapidamente)
riassorbita dal potere.
NEL SAGGIO del Settantotto Morin ha
approfondito il nodo dell’eredità di quel gauchisme che ha frantumato
definitivamente il modello del maschio bianco, adulto e borghese. A suo
giudizio, gli anni Settanti hanno visto l’emergere di una «dialettica
progressiva-regressiva della cultura di sinistra»: avanzamento sul piano
dei diritti, ma crisi della coscienza di classe. Come arriverà a
scrivere nel 1986, il ’68 sarebbe stato dunque il primo stadio di una
rottura che si è manifestata definitivamente solamente tra il 1973 e il
1978. Sia chiaro che Morin rigetta la tesi di chi imputa al Maggio di
essere la matrice dell’«individualismo edonistico» dell’età neoliberale;
una interpretazione, quest’ultima, diventata mainstream negli ultimi
vent’anni. Rimane aperto ancora oggi invece il problema del rapporto tra
protesta e modernizzazione. Come risulta anche dalla storiografia più
recente, è evidente che il Sessantotto non è riducibile solamente al
gauchisme e che il rapporto con la trasformazione sia stato complesso e
contraddittorio. Nello stesso tempo, però, è ormai chiaro che la
scissione tra la natura politica e quella socio-culturale del
Sessantotto è stata funzionale a chi intendeva spezzare il legame tra la
protesta e la storia del movimento operaio, operando così una forzatura
interpretativa e, soprattutto, politica.