mercoledì 13 giugno 2018

il manifesto 13.6.18
Umani in cerca di autore
Paleoantropologia. «Mio caro Neandertal. Trecentomila anni di storia dei nostri fratelli» di Silvana Condemi, paleoantropologa e direttrice di ricerca al Cnrs di Aix-Marseille, insieme al giornalista scientifico François Savatier, per Bollati Boringhieri. Un indizio: negli stessi anni in cui, nelle terre occupate dai Neandertal, arriviamo noi, Homo sapiens, i primi scompaiono
di Andrea Capocci


Secondo gli antropologi William Straus e Alexander Cave, se un uomo di Neandertal salisse in metropolitana sbarbato e ben vestito nessuno lo noterebbe tra gli altri passeggeri. Lo affermarono al simposio che nel 1957 festeggiava il centenario del primo ritrovamento, nella valle di Neander, del primo scheletro di una nuova specie umana. Da allora, diversi altri fossili di Homo neanderthalensis (il nome scientifico di Neandertal) hanno aiutato a capire qualcosa sulla prima popolazione umana che popolò l’Europa tra i trecentomila e i quarantamila anni fa. Tra gli autori delle principali scoperte sui Neandertal c’è Silvana Condemi, paleoantropologa e direttrice di ricerca al Cnrs di Aix-Marseille, che insieme al giornalista scientifico François Savatier ha da poco pubblicato Mio caro Neandertal. Trecentomila anni di storia dei nostri fratelli (Bollati Boringhieri, pp. 211, euro 24, traduzione di Susanna Bourlot).
GRAZIE ALLE RICERCHE di Condemi e dei suoi colleghi, ormai di Neandertal conosciamo molto: l’aspetto fisico, la dieta, persino il Dna. Sappiamo, ad esempio, che non è un progenitore dell’uomo moderno. Sapiens e Neandertal si sono sviluppati parallelamente, in Africa e in Europa, da un predecessore comune. Un fratello, dunque, non un antenato. Ma non riusciamo ancora a rispondere a una domanda: che fine ha fatto Neandertal? Il mistero riguarda un periodo molto breve, poche migliaia di anni in cui i Neandertal sparirono di circolazione. Un indizio c’è: sono gli stessi anni in cui, nelle terre occupate dai Neandertal, arriviamo noi, Homo sapiens. Allora fu tutta colpa nostra?
IN REALTÀ, TRACCE DI CONFLITTO diretto tra Homo sapiens e Neandertal non sono mai state trovate. La popolazione Neandertal era limitata: al massimo, 70mila individui, divisi in qualche migliaio di clan sul territorio europeo. Se ci fosse stata una guerra, la scomparsa sarebbe stata ancora più rapida. È probabile, però, che l’arrivo di Homo sapiens in Europa abbia cambiato parecchio gli equilibri ecologici. Le due specie umane occupavano la stessa nicchia ecologica e Homo sapiens potrebbe essersi rivelato semplicemente più bravo nello sfruttarne le risorse.
Ma in cosa, esattamente, Homo sapiens fosse più bravo di Neandertal non è chiaro. Dal punto di vista della prestanza fisica, anzi, Neandertal assomigliava un po’ a un super-eroe rispetto ai primi sapiens arrivati dai climi caldi dell’africa. Superare tre glaciazioni, com’è accaduto ai Neandertal e ai suoi progenitori europei, non era stato uno scherzo.
FISICAMENTE TARCHIATO, Neandertal era in grado di attaccare pachidermi grazie a muscoli possenti nutriti da una dieta iperproteica.
Anche dal punto di vista intellettivo, tra i Neandertal e i sapiens appena arrivati in Europa non c’era grande differenza. Il cervello neandertaliano era grande come il nostro. Molti ricercatori, però, pensano che dimensione cerebrale e intelligenza non siano così legate tra loro. Ci sono altri indizi dell’intelligenza dei Neandertal: il linguaggio, ad esempio.
Tra un clan e l’altro, composti ciascuno poche unità di individui, c’erano in media cento chilometri di distanza. Eppure, le stesse innovazioni tecnologiche sono state trovate in luoghi molto lontani tra loro. Neandertal aveva probabilmente sviluppato un linguaggio simbolico che gli permetteva di far circolare le informazioni su come realizzare utensili e ornamenti a grande distanza.
Anche sul piano dell’organizzazione sociale Neandertal aveva maturato una complessità analoga a quella sapiens. Lo testimoniano ritrovamenti come quello di un Neandertal messo malissimo: zoppo, monco, sordo, orbo da un occhio per colpa di ferite e malattie. Eppure, si stima che sia morto a un’età avanzata (per l’epoca) compresa tra i quaranta e i cinquant’anni. Altri fossili – anche quello primario della valle di Neander – mostrano caratteristiche simili. Il fatto che individui in gravi condizioni riuscissero a sopravvivere fino alla vecchiaia è la prova, secondo gli scienziati, che il clan neandertaliano garantiva solidarietà anche ai suoi membri più svantaggiati, una sorta di «stato sociale» preistorico.
Sapiens aveva però un alleato: il lupo addomesticato, o cane. Non ci sono prove dirette che questo facesse la differenza, ma gli studi sui cacciatori-raccoglitori odierni dimostra che un clan che caccia con l’assistenza di un cane riesce a rimediare un bottino del 40% più grande. Ma è una possibilità.
L’IPOTESI PIÙ SUGGESTIVA, invece, è quella secondo cui Neandertal sopravviva nascosto tra noi, annidato nel nostro Dna. Le popolazioni europee possiedono una frazione sensibile (circa il 4%) di geni provenienti dai Neandertal. Piuttosto che farsi la guerra, Neandertal e sapiens preferivano fare l’amore e dar vita a una progenie ibrida (noi). L’ipotesi che Homo sapiens abbia gradualmente assorbito la popolazione neandertaliana è rafforzata dai ritrovamenti di scheletri fossili delle due specie nelle stesse zone. In particolare, gli scavi in Siria e Israele mostrano che circa centomila anni fa Neandertal e sapiens si devono essere incontrati da quelle parti.
In poche migliaia di anni, una specie in equilibrio con il suo habitat per centinaia di migliaia di anni fu sostituita da un’altra con la perniciosa tendenza alla crescita indefinita. Ora che sul baratro ci siamo noi, è una lezione da studiare con attenzione.

La Stampa 13.6.18
Mille verità invisibili si nascondono in ogni immagine
di Marco Pivato

Demenze e malattia di Alzheimer potrebbero essere diagnosticate con più facilità e precisione grazie alla matematica. Esiste una relazione tra la calligrafia di un individuo e la sua patologia. La diagnosi è racchiusa nelle immagini che «ritraggono» i nostri manoscritti, come testimoni del declino cognitivo. Scovare questa relazione è intuitivo per il clinico solo quando è evidente, mentre impercettibili deviazioni dalla scrittura «sana» compaiono precocemente e a portarle alla luce potrebbero essere software che interpretano i segni che lasciamo con la penna.
Si è parlato anche di questo, e di molto altro, al meeting mondiale della Società internazionale di matematica applicata industriale (Siam), organizzato per la prima volta in una città europea, a Bologna. Presenti oltre 800 scienziati, tra matematici, fisici, ingegneri e informatici, per fare il punto sulla ricerca che riguarda gli aspetti matematici e computazionali dell’elaborazione delle immagini. Queste, in realtà, contengono un universo di informazioni invisibili all’occhio umano, ma preziosissime. Basta pensare, per esempio, alle fotografie dei super-telescopi. Noi possiamo apprezzarne la bellezza e, in una certa misura, trarre qualche dettaglio geografico. Ma è l’elaborazione informatica che si avvale degli algoritmi matematici, in ultima analisi, a ricostruire dai colori delle stelle dati essenziali come la composizione chimico-fisica e anche la loro età.
Caratteristiche ripetitive
E poi ci sono le immagini «analogiche», come quelle tipiche della pittura: «Le minuscole e uniche caratteristiche ripetitive che compaiono in un dipinto costituiscono la “firma” del suo autore. Individuandole, sappiamo stabilire con una ragionevole certezza l’autenticità delle opere controverse». A spiegarlo è Fiorella Sgallari, docente di analisi numerica al Dipartimento di matematica dell’Università di Bologna e vice-chair internazionale per il Siam. Il suo collega dell’Università di Hong Kong, Raymond Chan, ospite alla conferenza, ha elaborato un metodo infallibile per riconoscere i falsi Van Gogh. E, intanto, in Italia si è riusciti a smascherare molte false incisioni e tecniche miste di autori blasonati, come Mario Schifano, Andy Warhol e Renato Guttuso, grazie a software che «fotografano» parti dell’opera di dubbia attribuzione e le confrontano poi con altre opere certamente originali dello stesso autore.
Le immagini, dunque, parlano a un livello molto profondo e l’informatica fornisce gli strumenti per ascoltare e amplificare gli elementi che i sensi dell’uomo non possono apprezzare. «Il nostro dipartimento - continua la professoressa - collabora con alcuni ingegneri elettronici per realizzare ecografi in grado di distinguere piccole masse tumorali in tempo reale, per esempio per guidare il chirurgo durante un’operazione, quando non è possibile interrompere e sottoporre il paziente a Tac e ad altri esami». Gli stessi algoritmi che acuiscono la vista di queste macchine serviranno a progettare altri ecografi, di dimensioni sempre più piccole, che possano essere trasportati in zone disagiate, come in alcune regioni dell’Africa, per realizzare diagnosi accurate, sostituendo le apparecchiature tradizionali.
Predire le fratture
Altri software, come «Frafem», sviluppato nell’ambito di un progetto europeo con gli Istituti Ortopedici Rizzoli di Bologna, saranno in grado di predire nei pazienti anziani il rischio di fratture del collo del femore, basandosi su misure densitometriche e su una serie di parametri geometrici desunti dall’analisi di immagini dell’osso.
Sempre nell’ambito biomedicale «ci sono modelli matematici che guidano il processo delle nuove stampanti 4D - spiega l’esperta - e controllano il comportamento dei materiali intelligenti che cambiano forma nel tempo. Un oggetto così stampato, ad esempio uno stent coronarico, sarà capace di modificarsi per adattarsi ai vasi sanguigni dopo l’intervento, nel corso della convalescenza». Oggi le applicazioni più promettenti della stampa 4D sono tante e coinvolgono anche l’industria aerospaziale, così da trasportare nello spazio strutture compresse (per esempio antenne o robot per l’esplorazione), e l’elettronica (per esempio circuiti iper-flessibili).
Dalla teoria alle applicazioni
Dietro tutto questo ci sono sofisticati concetti teorici, che sfuggono a chi non è un addetto ai lavori. Ma sono loro a rendere possibili molti aspetti applicativi della ricerca. Non si possono interpretare le forme dell’Universo, e le sue manifestazioni, «se - scriveva Galileo ne “Il Saggiatore” - prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali [l’universo] è scritto».

il manifesto 13.6.18
Parigi: «Italia da vomito». Scontro totale sui migranti
Delitto d'asilo. Lezioni ipocrite»: palazzo Chigi valuta l’annullamento del vertice Conte-Macron di venerdì. Alza il tiro anche la Spagna. La ministra della giustizia Delgado ipotizza «responsabilità penali internazionali». Merkel: «Se la Ue non riesce a rispondere in modo unitario sull’immigrazione esplode»
di Andrea Colombo


La crisi dell’Aquarius diventa un incidente diplomatico di prima grandezza, tanto da far mettere addirittura in forse il vertice italo-francese tra Macron e Conte di venerdì a Parigi. La tensione è tanto alta da allarmare al massimo Angela Merkel: «Se la Ue non riesce a rispondere in modo unitario sull’immigrazione esplode». La voce su una possibile scelta deflagrante di Conte parte da palazzo Chigi, dopo lo scambio di accuse tra Parigi e Roma oltre i confini dell’insulto. Il 5S Toninelli ammette: «Io confermerei il vertice ma decide Conte». Alla fine, quasi certamente, il vertice ci sarà. Ma in un clima tesissimo, un incendio sul quale cerca di gettare acqua il ministro Savona: «Macron sta giocando un ruolo importante. Se troviamo un punto d’incontro rilanciamo l’Europa».
ALL’ORIGINE DELL’INCIDENTE due improvvidi attacchi partiti dalla Francia. Prima Gabriel Attal, portavoce di En Marche, il partito di Macron, definisce «vomitevole» il blocco dei porti deciso dall’Italia. Attal, almeno, è critico con la linea dura adottata anche dal suo Paese. Ma il secondo attacco parte direttamente dall’Eliseo: mette all’indice «il cinismo e l’irresponsabilità» del governo italiano. L’accusa non è infondata ma il pulpito non potrebbe essere peggiore. In materia la Francia è sempre stata infatti molto meno generosa dell’Italia.
E’ un fuoco incrociato. In contemporanea con l’affondo di Macron alza il tiro anche la Spagna, con la ministra della Giustizia Dolores Delgado che minaccia possibili «responsabilità penali internazionali» per l’Italia. Anche la Spagna negli anni scorsi si è distinta per la sua chiusura totale sul fronte immigrazione, ma a Madrid, a differenza che a Parigi, c’è almeno un nuovo governo che può scindere le proprie responsabilità da quelle del passato.
LA REAZIONE NON SOLO della maggioranza ma anche di Fi e FdI è immediata e durissima. Il Pd, dopo un attimo di esitazione, affida a Martina una critica severa per Macron: «Le scelte sbagliate del governo portano indietro l’Italia ma non accettiamo lezioni dalla Francia». Il livello dello scontro è troppo altro perché non si faccia sentire anche palazzo Chigi. Conte fa sapere di essere «fortemente irritato». Poi la presidenza del consiglio dirama un comunicato bellicoso: «Abbiamo accolto un inedito gesto di solidarietà della Spagna, che non è arrivato invece dalla Francia che ha più volte adottato politiche ben più rigide e ciniche in materia di accoglienza». Infine minaccia, sia pur informalmente, di annullare il vertice di venerdì.
LA SPARATA FRANCESE rafforza la posizione di Salvini. Da Di Battista a Di Maio l’intero M5S fa quadrato intorno al governo e alle sue scelte. Toninelli rivendica la «condivisione totale all’interno del governo» e replica a muso duro: «Nessuno deve permettersi di etichettare l’Italia e il governo come xenofobi e disumani». Il leader leghista può inoltre vantarsi di aver posto la questione al centro dell’agenda europea, provocando nell’Unione spaccature inedite. Se da un lato arrivano le bordate franco-spagnole, dall’altro il vicepremier tedesco Seehofer invita l’omologo italiano a Berlino, a conferma di quanto alto sia l’allarme tedesco. Se il leader dei socialisti europei Bullman definisce il leghista «un poveretto», il commissario Ue all’immigrazione Avramopoulos si dice invece ansioso di lavorare con lui. Oggi al Senato sarà Salvini e non Conte a informare l’aula sulla vicenda, sfruttando l’occasione per una nuova passerella.
In serata Salvini risponde di nuovo ai francesi, sfidando Macron ad accogliere i 9mila profughi che si era impegnato a ospitare, e agli spagnoli: «Loro hanno sparato alle frontiere, cosa che io non farei mai». Ma allo stesso tempo il leghista attenua i toni: «Non tutte le Ong potranno attraccare in Italia». Cosa diversa da «nessuna Ong».
LA REALTÀ È CHE SALVINI, a differenza dell’M5S, non punta a una modifica del trattato di Dublino: obiettivo poco realizzabile e che lo farebbe entrare in rotta di collisione con i suoi principali alleati in Europa, i Paesi di Visegrad. Punta su una strategia diversa, articolata da un lato sulle prove di forza in mare ma dall’altro su un potenziamento della strategia già adottata da Minniti: un accordo con i capibastone libici perché si occupino del lavoro sporco, e stavolta senza nemmeno prendere in considerazione quel pochissimo di diritti umani che ancora Minniti esigeva. Per questo entro la fine del mese sarà in Libia. Ma i costi dell’operazione, il saldo dovuto ai ras libici, vuole che vada tutto a carico della Ue.

Il Fatto 13.6.18
Macron attacca sui rifugiati pensando a banche e Libia
“Vomitevole”. Il portavoce del partito del presidente e poi quello dell’Eliseo stroncano le mosse del governo sul caso Ong per indebolire l’Italia in Ue
di Stefano Feltri


Ma cosa vuole Emmanuel Macron? Se lo chiedono tutti, nel governo Conte e non solo, quando capiscono che non di gaffe si è trattato ma di un attacco preciso all’Italia che usa come pretesto la scelta del ministro dell’Interno Matteo Salvini di bloccare la nave Aquarius carica di migranti. Prima c’è l’intervista tv di Gabriel Attal, , portavoce di En Marche!, il partito del presidente francese: la mossa di Salvini è “vomitevole”. Poi interviene però anche il portavoce dell’Eliseo a precisare i toni ma non la sostanza: “Una forma di cinismo e di irresponsabilità”. Il messaggio è chiaro e ufficiale, tanto che anche Palazzo Chigi deve rispondere in modo ufficiale, con una nota: “L’Italia non può accettare lezioni ipocrite da Paesi che in tema di immigrazione hanno sempre preferito voltare la testa dall’altra parte”.
Il caso diplomatico spiazza molti, nell’esecutivo. Soprattutto perché Marcon era stato il primo leader a dare una legittimazione a Giuseppe Conte, con una telefonata irrituale il 26 maggio, quando il professore aveva soltanto ricevuto l’incarico di formare il governo ma ancora non si era ancora insediato. Che Macron non fosse poi così amico si è capito pochi giorni dopo quando la Francia ha convocato a Parigi i protagonisti della politica libica – tra cui il premier Al Serraj (sostenuto dall’Italia) e il generale Kalifa Haftar (appoggiato dalla Francia) – per discutere dei nuovi equilibri nel Paese. Un vertice così segreto che l’Eliseo non aveva informato neppure l’inviato dell’Onu, Ghassan Salamè. Men che meno l’Italia.
Il tentativo di Macron è duplice: presentarsi a livello Ue come campione di europeismo e argine alle derive populiste della vicina Italia, così da favorire anche soluzioni comunitarie sui dossier a cui è interessato (tra questi la Difesa). Ma anche – e forse soprattutto – colpire l’Italia sulla gestione dei migranti per indebolirla sulle partite economiche che contano davvero. Un veterano come il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha visto questo schema molte volte nelle sue esperienze precedenti con i governi Letta e Monti: la Francia si professa amica dell’Italia e si offre come argine contro la Germania, i politici italiani si fidano per poi scoprire che invece Parigi persegue soltanto l’interesse nazionale. Per questo Moavero aveva raccomandato ai suoi colleghi neofiti meno entusiasmo nel leggere in quelle prime aperture di Macron la premessa di un’alleanza vera.
Dalla riunione di tre ore del premier Conte con i ministri economici – Giovanni Tria (Tesoro), Paolo Savona (Affari europei), Enzo Moavero (Esteri) – è filtrato lo slogan “la musica deve cambiare”. E questo significa suonare meno la Marsigliese e più Inno di Mameli su molte partite concrete, che con i migranti c’entrano ben poco. I dossier discussi e che sembrano essere la spiegazione degli improvvisi attacchi di Macron sul caso Aquarius sono i seguenti. Primo: le nuove regole sulla gestione delle sofferenze nei bilanci delle banche. La Francia tiene una linea in apparenza suicida, cioè appoggiare le richieste tedesche di maggiore severità. Verrebbero colpite anche le banche francesi, ma soprattutto quelle italiane. E poiché sembra alle viste una nuova stagione di fusioni bancarie, gli istituti francesi potrebbero comprare quelli italiani a prezzi ridotti. Il Financial Times ha appena rilanciato la voce che circola da tempo di un matrimonio tra Unicredit e Société Génerale.
La Francia, con l’assenso della Germania, sta poi spingendo per un nuovo fondo per il digitale aggiuntivo rispetto alle risorse comunitarie. L’Italia si troverebbe a essere il terzo contribuente (in base al Pil), ma poi le gare le vincerebbero le imprese francesi, più attrezzate. Un’Italia additata in Europa come dominata dal sovranista e xenofobo Salvini sarà più facile da piegare ai tavoli in cui si parla di altro.
Mentre Eliseo e Palazzo Chigi duellavano a colpi di dichiarazioni, infatti, il ministro del Tesoro Giovanni Tria annunciava due vertici bilaterali proprio con i suoi omologhi in Germania (Olaf Scholz) e proprio in Francia (Bruno Le Maire). E Salvini si prepara ad andare in Libia, per dare il segnale che non è solo Macron a decidere i destini del Paese cruciale per i flussi migratori che arrivano in Italia. Il duello con la Francia continua.

Repubblica 13.6.18
Intervista a Attal (portavoce En Marche)
“Ho detto ‘linea vomitevole’ perché con le vite non si gioca”
di a.g.


PARIGI «Non ho nulla contro l’Italia, forse ho usato una parola sbagliata ma è stata una reazione a caldo, vedendo quello che stava succedendo». Gabriel Attal, 29 anni, è il portavoce del movimento La République En Marche. Ieri è stato lui a definire «vomitevole» il comportamento del governo italiano, con un termine che ha scatenato le ire di molti, a cominciare dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. «Al di là del termine usato, volevo esprimere il mio shock per una decisione che mette in gioco le vite di donne e uomini», spiega il deputato macroniano che parla italiano e ha vissuto due anni a Roma, lavorando a Villa Medici.
“Considero la linea del
governo italiano vomitevole”.
Rimpiange di averlo detto?
«Vorrei contestualizzare la frase che ho pronunciato durante un’intervista in diretta. Ho parlato innanzitutto pensando alle persone a bordo dell’Aquarius e sentendo che un ministro aveva gridato vittoria davanti una situazione umanitaria grave. Non penso ci siano vincitori in una situazione del genere».
Molti commentatori, anche sui giornali francesi, ricordano che l’Italia è stata lasciata sempre sola in questi anni davanti ai flussi migratori.
«Subito dopo i risultati delle elezioni italiane, sono stato tra i primi a dire che bisognava non solo rispettare la scelta del popolo, che è ovviamente sovrano, ma capirne anche le ragioni. È evidente che c’è in Italia un’esasperazione legata all’incapacità dell’Ue di rispondere ai problemi dei flussi migratori».
Perché allora la Francia, che appoggia l’idea di una solidarietà con l’Italia nelle istituzioni europee, poi chiude la frontiera con Ventimiglia?
«Ho passato una giornata alla frontiera tra Mentone e Ventimiglia e ho constatato quanto sia drammatica la situazione per entrambi i Paesi. Le autorità francesi spiegano che, se la frontiera fosse aperta, probabilmente ci sarebbero ancora più migranti che tentano la traversata per poi andare verso la Gran Bretagna. Chiudere la frontiera è anche un modo di lanciare un messaggio per evitare di aumentare gli sbarchi. Non voglio dire che sia una situazione soddisfacente. La soluzione si troverà solo a livello europeo».
Il portavoce del governo ha parlato di “cinismo” e “irresponsabilità” del governo italiano. Cosa voleva dire?
«È irresponsabile strumentalizzare politicamente il destino di una nave di migranti. Siamo in un momento di tensione forte. Il problema non si risolve in un giorno. Possiamo andare avanti per trovare una soluzione solo se resteremo uniti.
Macron ne è consapevole, ha fatto diverse proposte di riforme europee per aiutare l’Italia. La Francia è anche il Paese che fa di più nel Sahel con un dispositivo sul posto per esaminare le richieste di asilo. Sono convinto che sia questa sia una delle strade da percorrere, sempre nella massima collaborazione tra Stati membri».
Alcuni deputati di En Marche si sono smarcati, hanno espresso dissenso rispetto alla posizione del governo che non ha mai neppure ipotizzato di venire in aiuto all’Aquarius.
«Non è una novità. Abbiamo avuto un dibattito interno durante l’approvazione della nuova legge sull’immigrazione. Un gruppo di deputati aveva già espresso delle critiche allora, sono gli stessi che si sono manifestati in queste ore. Vi assicuro che sono posizioni marginali. La maggioranza dei deputati di En Marche sostiene la politica del governo nella consapevolezza che siamo di fronte a un problema epocale in cui serve umanità, ma anche senso di responsabilità».

La Stampa 13.66.18
Il sovranismo genera i conflitti
di Gian Enrico Rusconi

La vicenda dell’Aquarius ci offre un esempio concreto della natura e della intensità dei conflitti che solleva il «sovranismo» che ha preso il posto, con parole nuove, del nazionalismo tradizionale, presuntivamente scomparso nell’Unione europea. L’Italia si trova protagonista per lo spregiudicato comportamento del suo ministro degli interni.
La questione della «sovranità» ha due dimensioni. Una esterna riguarda la posizione dell’Italia come membro dell’ Unione europea, partecipe di quella che retoricamente si chiama «sovranità condivisa». Si tratta in realtà di una finzione, clamorosamente confermata nell’ormai annoso problema della migrazione incontrollata e incontrollabile. Il trattato di Dublino è diventato la foglia di fico che nasconde la volontà di molti membri dell’Unione di non condividere affatto la responsabilità della accoglienza e della gestione dei migranti. I passati governi italiani non sono mai riusciti a far prevalere le loro buone ragioni.
Adesso Salvini, rispondendo ad una logica di potere interno, ha preso la decisione di sfidare apertamente l’Europa. Ma la sua retorica («non siamo più schiavi» o « servi» ecc.) presuppone l’esistenza di un «sovrano» padrone che in realtà oggi si defila. Infatti è in ordine sparso che le varie agenzie e istituzioni europee si fanno vive ammonendo o raccomandando il principio umanitario di salvare esseri umani. Enunciano un sacrosanto dovere/diritto che tuttavia non surroga la necessità di un decisore politico.
Ma dov’è il «sovrano» europeo che ha la legittimità di decidere efficacemente e consensualmente? Non è il Parlamento di Strasburgo, non è la Commissione dell’Unione bensì il Consiglio europeo degli Stati europei, che non riesce a modificare e ad andare oltre il trattato di Dublino. Il virtuale decisore sovrano è paralizzato, impotente. Quello che non hanno potuto fare i contrasti sui problemi economico-finanziari, lo sta ottenendo il dramma della migrazione.
Intanto sono già scattate brutali reazioni verbali tra le capitali. Durissime sono le parole che avrebbe pronunciato il Presidente francese Macron denunciando «una forma di cinismo e di irresponsabilità» da parte dell’Italia nel caso della nave Aquarius. Palazzo Chigi ha risposto altrettanto duramente. «L’Italia non può accettare lezioni ipocrite da Paesi che in tema di immigrazione hanno sempre preferito voltare la testa dall’altra parte». E pensare che appena pochi giorni fa c’era stato un amichevole scambio di vedute tra il presidente Conte e Macron. Specularmente opposta è stata la reazione del primo ministro ungherese Viktor Orbàn che ha salutato la posizione italiana come «un grande momento che potrebbe davvero portare cambiamenti nella politica europea sulle migrazioni».
Ma a questo punto dobbiamo introdurre la seconda dimensione della rivendicazione della «sovranità»: quella interna, di «casa nostra». A nome di chi Salvini rivendica il suo modo di esercitare in esclusiva la «sovranità» nazionale dell’Italia? Il politico populista non ha dubbi: per lui sovrano è «il popolo» che egli stesso rappresenta. Ovvero la somma degli elettori che, nel caso italiano, combinando («con un contratto») due partiti, raggiunge la maggioranza.
Ma questo non risponde nè allo spirito nè alla lettera della nostra Costituzione che all’art.1 afferma: «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». La frase è estremamente concisa ma perentoria nel non identificare «il popolo» con una maggioranza elettorale che ritiene di poter fare quello che vuole e come vuole. Il riferimento alla Costituzione infatti poi si articola nel testo come l’insieme di regole costituzionali che riguardano i partiti, i diritti dei cittadini, delle minoranze ecc, diciamo pure l’intera società civile. Ci sono le prerogative del Presidente della Repubblica e le competenze insostituibili della magistratura e dei grandi apparati amministrativi. Soprattutto c’è un grande sottinteso che univa tutti i costituenti al di là del loro peso numerico e delle loro differenze politico-ideologiche: la solidarietà e l’intesa comune quando sono in gioco i grandi interessi della nazione.
Sta accadendo così in questi giorni? Salvini, seguendo il suo personale istinto politico, ha agito da solo. Non so se e come abbia preavvisato il presidente del consiglio Giuseppe Conte che in ogni caso ha dato l’impressione di seguire gli eventi, non di guidarli come capo del governo. Il Parlamento non ha avuto ancora modo e tempo di esprimersi.
Se questo è il «sovranismo» che ha in testa Salvini, c’è da essere inquieti. La sovranità di una nazione (democratica) è una cosa seria e impegnativa. Deve esprimersi anche attraverso l’attenzione e la lealtà reciproca tra le parti politiche, tra maggioranza e minoranze, pur nel mantenimento delle differenti posizioni. Ci attendono giorni e settimane di fermo confronto con i partner europei che non deve trasformarsi in scontro di sovranismi.

Corriere 13.6.18
La tela strappata
di Paolo Lepri


Tutti contro tutti, in questa Europa che vacilla. Ma lo scontro tra Italia e Francia ha un sapore ancora più amaro dei conflitti prodotti dalla non volontà di ammettere che l’emergenza è stata affrontata ignorando le difficoltà di chi è più esposto (come noi) all’ondata dei dannati della Terra. Forse sarebbe stato possibile, invece, trovare un linguaggio comune tra due Paesi non governati da quelle famiglie politiche che hanno garantito uno status quo messo a dura prova da nuove insofferenze. Erano giunti segnali in questa direzione dopo la nascita del governo Conte. Ma le parole di ieri sono una svolta. Sembrano passati secoli dai risolini di Sarkozy (e di Merkel) sull’affidabilità dell’Italia. La tela è più strappata.
Come ha detto il presidente del Parlamento europeo Tajani, «il problema dei migranti rischia di far esplodere contraddizioni che faranno un danno enorme». Sta accadendo così. È inutile dire che l’iniziativa del ministro Salvini di negare l’approdo alla Aquarius è stata un gigantesco sasso gettato in un Mediterraneo nel quale l’Italia non ha mai ricevuto la solidarietà necessaria. Quando le muraglie di acqua prodotte da questo tsunami si ritireranno, non sarà facile ricostruire. Dovremmo però avere le idee più chiare: questa battaglia non si può vincere da soli.
F orse sarebbe stato troppo «buonista» sperare che Salvini gettasse il suo macigno sul tavolo del Consiglio europeo invece che nel mare. Ma, qualsiasi siano gli obiettivi di un’azione, è necessario tessere una strategia delle alleanze. Anche perché le politiche dei «falchi» europei, i cui interessi sono opposti ai nostri, contribuiscono da sempre a creare il contesto in cui l’Italia «è stata lasciata sola».
In questo quadro si inserisce Emmanuel Macron e le sue accuse al governo italiano di «cinismo irresponsabile». Il punto debole del presidente francese, come molti fonti diplomatiche hanno osservato, è stato un ondeggiamento di posizioni spesso difficile da comprendere. Fatte salve alcune idee-forza, come un europeismo limpido nei principi, la sua tattica è stata spesso contrassegnata da svolte improvvise oppure è stata condizionata dagli alti e bassi del rapporto con la Germania, soprattutto nel cammino delle riforme sul funzionamento della zona euro.
Il rapporto con l’Italia ha subito le conseguenze di questa situazione. Non è un caso che mentre a Berlino compiva i primi passi la nuova «grande coalizione» tra cristiano-democratici e socialdemocratici, il leader francese e l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni mettevano le basi di quel Trattato del Quirinale che potrebbe avere il compito, se il lavoro preparatorio arriverà a risultati positivi, di rendere più forti le relazioni bilaterali «al servizio dell’intera Unione». L’idea era quella di una Europa più sovrana e più unita, in grado di diventare, nelle parole dell’Eliseo, «una potenza energetica, ambientale e digitale».
Il cambio di stagione seguito alle elezioni del 4 marzo ha complicato le cose. Ma, nonostante questo, un rapporto positivo con l’Italia a Parigi era stato giudicato indispensabile. Ecco la telefonata di Macron a Conte, ecco l’invito all’Eliseo. Che cosa è successo? Qual è la ragione dei furibondi interventi di ieri? L’impressione è che l’esigenza di inviare un messaggio politico all’opinione pubblica, anche italiana, sia prevalsa sul pragmatismo della ricerca di nuove geometrie diplomatiche. Non è un mistero che in vista delle prossime elezioni del Parlamento europeo Macron si stia muovendo per rompere da una parte l’egemonia popolare e socialista e per sconfiggere dall’altra il pericolo di un primato populista nell’assemblea di Strasburgo. Si spiegano così, probabilmente, le accuse di ministri e portavoce. Va aggiunto che, comunque si possa giudicare la mossa di Salvini, dalla Francia sono venute molte critiche ma poche proposte di soluzione.
Una parola molto usata in questi giorni è «ipocrisia». Certo, non si può negare che la Francia abbia avuto in questi anni una linea durissima nei confronti dei migranti che ha spesso violato i più elementari diritti: confini blindati, brutalità delle forze dell’ordine, intransigenza, mancanza di umanità. È ancora vivo il ricordo della donna incinta fatta scendere a forza da un treno proveniente da Ventimiglia. Nel marzo scorso, poi, cinque agenti delle dogane francesi, armati, fecero irruzione in una sala del centro migranti di Bardonecchia, in territorio italiano, per eseguire un controllo. «Altro che espellere i diplomatici russi, qui bisogna allontanare i diplomatici francesi», dichiarò Salvini, aggiungendo che l’Italia non avrebbe più preso «lezioni» da Macron e Merkel. Le polemiche di allora costituirono un primo segnale di allarme che non è stato raccolto. Ora si tratta di proseguire un confronto, lasciando da parte gli insulti. Perfino il generale De Gaulle riteneva che un Paese avesse bisogno di amici. E non di nemici, come sembrano credere Macron e Salvini.

Corriere 13.6.18
La polemica sui migranti ricompatta l’esecutivo
di Massimo Franco


La risacca politica europea sui migranti era prevedibile. E non è chiaro se preluda a un isolamento dell’Italia rispetto ai tradizionali alleati. Ma l’attacco della Francia e, in parte, della Spagna, ha una virulenza che può solo acuire la tensione e i riflessi nazionalistici. E permette al governo, soprattutto alla Lega, di rivendicare la linea dura. Definire «vomitevole» la scelta del ministro dell’Interno Matteo Salvini di rifiutare l’attracco della nave Aquarius nei nostri porti può placare l’indignazione di una parte dell’opinione pubblica francese. Ma non risolve il problema e esaspera quella italiana.
Le parole del portavoce del presidente Emmanuel Macron risuscitano i fantasmi delle barriere erette al confine con Ventimiglia per impedire il passaggio di migranti; o dei gendarmi francesi che sconfinano a Bardonecchia per controllare alcuni africani. E offrono altra materia polemica a M5S e Lega, che si fanno forti di un’Italia magari divisa sui migranti, eppure insofferente verso i rimproveri dall’estero, dopo anni di indifferenza. Semmai, è più insidiosa la segnalazione spagnola, secondo la quale il «no» di Italia e Malta potrebbe comportare misure penali.
Non è chiaro quanto sia fondata giuridicamente. Ma arriva dalla nazione che ha accettato di far sbarcare i 629 migranti di Aquarius. Il «proprio loro parlano!», col quale il vicepremier Luigi Di Maio commenta la presa di posizione dell’Eliseo è significativa. Il problema è che senza una via d’uscita, l’Italia potrebbe trovarsi in una tenaglia che la costringe a una guerra verbale infinita. Di certo, attacchi di questo tenore compattano la maggioranza.
E diplomatizzano i malumori dei Cinque Stelle su un protagonismo salviniano che tende a abbattere le competenze tra ministeri e rende il leader del Carroccio l’apparente capo del governo. In più, azzera la possibilità di un avvicinamento tra Di Maio e il partito di Macron, En Marche, in vista delle Europee del 2019. Perfino l’ex ministro Pd, Carlo Calenda invita la Francia a non darci lezioni, sebbene parli di «spot elettorale» del Carroccio: a due giorni dall’incontro tra il premier Giuseppe Conte e Macron.
Se non è uno spot elettorale, comunque la vicenda avvantaggia il governo. Salvini si sente incoraggiato a proseguire su una linea spregiudicata contro gli sbarchi. La più preoccupata sembra la Commissione europea. «L’Italia è stato un Paese molto impegnato e europeo» sui migranti. «La sosteniamo... Tutti gli Stati devono assumersi una parte di responsabilità», sostiene il commissario Dimitris Avramopoulos. Ma col dialogo spezzato si preparano altre tragedie in mare: col rischio che diventino bandiere opposte delle campagne elettorali.

Corriere 13.6.18
Lo scontro (perdente) tra la sovranità e l’umanità dell’Italia
di Donatella Di Cesare


Comunque andranno le cose, la nave Aquarius è già assurta a simbolo del nuovo volto dell’Italia, quello poliziesco e sovranista. Ecco, dunque, il «governo del cambiamento». D’altronde c’è nel paese una maggioranza, non solo quella legastellata, che già da tempo scalpitava per mostrare i muscoli e alzare la voce. Perché «questo paga!». Se lo meritava l’Europa che, come recita il mantra provincial-vittimistico, «ci ha lasciato soli». L’orgoglio identitario sussulta tronfio e canta vittoria. Già prima di constatare i possibili effetti che — si deve presumere — saranno ben pochi. Quel che conta è il gesto in sé, la chiusura. La penisola ha poche frontiere terrestri e molte coste; non è facile erigere muri come quelli di Orbán. Il mare si sottrae ai confini e alle rivendicazioni patriottistiche. L’hashtag #chiudiamoiporti, twittato dal neoministro degli Interni e rimbalzato nella Rete, è il Muro innalzato dall’Italia. Così è stato interpretato all’estero.
I porti si chiudono quando sta per arrivare un invasore, un nemico insidioso, di fronte al quale ci si sente indifesi. Ma l’Aquarius ha solo un carico di migranti fuggiti da fame, miseria, guerra, alcuni feriti e ustionati, molti esausti; tra questi 123 minori non accompagnati e parecchi bambini. Lo schiaffo del No è anche per loro, colpevoli di essere migranti, cioè di essersi mossi. I diritti dei cittadini, protetti dai confini, mal si conciliano con i diritti di quelli che stanno là fuori e sono semplicemente esseri umani. Forse con la chiusura dei porti l’Italia avrà acquistato ai propri occhi un po’ di sovranità. Qualche cittadino si sentirà sovrano e appagato, mentre molti altri avvertono quel senso del troppo-pieno che è la vergogna. Con quel gesto l’Italia ha perso ben più di quanto abbia guadagnato. Perché quel che l’ha contraddistinta nei secoli non è solo e non è tanto l’arte e l’ingegno, quanto piuttosto l’umanità.

Repubblica 13.6.18
Le reazioni di Parigi
La paura del contagio
Andrea Bonanni


Il muro eretto da Salvini all’ingresso dei porti italiani non ha fermato gli sbarchi. In compenso ha isolato l’Italia grillo-leghista nel Mediterraneo e in Europa. La Tunisia è stata insultata. Con Malta siamo ai ferri corti. La Spagna, che ha salvato i disperati dell’Aquarius, minaccia « conseguenze penali internazionali » contro Roma. La Francia è passata dalle critiche agli insulti.
Si potrà obiettare, con ragione, che anche quando i nostri porti erano aperti l’Italia di Renzi, Minniti e Gentiloni era isolata nell’affrontare l’emergenza migranti. I nostri partner mostravano molta comprensione, ma zero solidarietà. E sempre con ragione si potrà osservare come il governo francese, che ora vorrebbe darci lezioni, sia stato il meno solidale di tutti. Con i suoi gendarmi, da Bardonecchia a Ventimiglia, ha dato prova di una crudeltà disumana verso i migranti. E ha chiuso le sue coste anche ai naufraghi dell’Aquarius.
Ma il dato politico che si evince dalla vicenda della nave respinta è che il governo populista arrivato al potere in Italia, alla sua prima prova internazionale, non ha esitato a prendere in ostaggio più di seicento persone inermi e disperate, nella speranza di farsi sentire al tavolo europeo. Non è stato un bell’esordio.
Salvini considera che l’intervento della Spagna abbia segnato il successo della sua operazione politica. Si sbaglia di grosso. Il governo del socialista Pedro Sánchez non ha dato prova di solidarietà all’Italia, ma agli ostaggi che il governo italiano aveva gettato sul tavolo europeo. Ora che questi sono al sicuro, l’Europa intera chiederà conto a Salvini e compagni del loro comportamento, che Parigi definisce «vomitevole».
La reazione di Macron, che ci accusa di cinismo, non è un diniego che il problema migratorio esista e vada affrontato in modo congiunto. È una ripulsa molto dura del metodo ricattatorio scelto dal governo italiano per sollevare la questione sulla pelle di persone innocenti. Con Marine Le Pen, alleata della Lega, che lo incalza in patria e rialza la testa nei sondaggi, Macron non può permettersi di darla vinta al bullismo dell’Italia in salsa populista. E si fa portavoce dell’irritazione europea.
In fondo, a guardar bene, la strategia che il nostro ministro dell’Interno ha adottato sulla questione migranti, non è stata molto diversa da quella che l’ex candidato ministro dell’Economia, Paolo Savona, predicava di adottare sull’euro: prendere in ostaggio i conti e i risparmi di milioni di europei, minacciando l’uscita dell’Italia dalla moneta unica per negoziare concessioni sul debito italiano. Ma non è così che si negozia in Europa.
Intendiamoci, la necessità di concordare un approccio comune e condiviso al fenomeno migratorio esiste da tempo e deve trovare una soluzione. Ma, prendendo in ostaggio una manciata di migranti per dare l’esempio, il governo italiano non sta contribuendo a risolvere il problema. Ha gettato al vento il credito politico che l’Italia aveva accumulato negli anni di Mare Nostrum. Ha sporcato l’immagine del Paese. Si è inimicato i governi che avrebbero potuto sostenere la battaglia italiana per una ripartizione dei richiedenti asilo. Ha ottenuto come unico risultato la solidarietà dell’ungherese Orbán e del Gruppo di Visegrad, che non vuol sentir parlare di ripartizione dei migranti e chiede solo di bloccarne l’arrivo.
Ma se la soluzione che Orbán e Salvini hanno in mente, in spregio al codice marittimo e ai più elementari diritti umani, è quella di sigillare il Canale di Sicilia e lasciar naufragare i migranti nel Mediterraneo, l’Italia non riceverà nessuna solidarietà dall’Europa. Già ci hanno aiutato poco quando facevamo il lavoro pulito e meritorio di salvare i disperati in fuga dall’inferno. Non ci aiuteranno per nulla se ci trasformeremo nei nuovi aguzzini di questa umanità disperata.

Reupbblica 13.6.18
Dalla Francia un regalo per la Lega
di Stefano Folli

Se il presidente della Francia voleva colpire il nazionalismo italiano e togliere legittimità all’asse Cinque Stelle-Lega, bisogna ammettere che ha del tutto fallito l’obiettivo. Peggio, ha reso ancora più intricata una matassa già ingarbugliata. Dopo la giornata di ieri, Salvini ha motivo di essere più che compiaciuto: al netto delle considerazioni morali, la sua prima settimana al Viminale – ma di fatto a Palazzo Chigi – si stava rivelando un discreto successo agli occhi del mondo leghista. Il caso dell’Aquarius, che ha offeso tante coscienze, era servito a risvegliare una destra assopita e sparsa.
Ma ora, grazie all’intervento di Macron, il ministro dell’Interno può sentirsi a ragione il protagonista assoluto della politica italiana. Anche chi, nel centrodestra berlusconiano o in una parte dell’universo a Cinque Stelle, nutre dubbi e riserve sull’ascesa del lombardo, si è trovato ieri a sostenerlo e in qualche caso a battergli le mani.
La causa di tutto ciò è l’uscita maldestra del presidente francese, resa ancora più ruvida dagli epiteti rivolti al nostro governo dal portavoce di En marche, il suo partito personale. Il problema è che a Parigi nessuno sembra essere in regola quando si tratta di solidarietà fra europei. I fatti di Ventimiglia e di Bardonecchia sono troppo recenti per essere dimenticati, persino in un’epoca dalla memoria corta. E i porti francesi sono rigorosamente chiusi, come è facile verificare: scelta appena confermata in Corsica. Al di là di alcuni magnifici discorsi, il giovane presidente è – agli occhi degli italiani – uno scrupoloso guardiano degli interessi francesi. Uno che ama definirsi europeista e che certo ambirebbe a svolgere un ruolo propulsivo nell’Unione, ma che al dunque sa essere sciovinista come almeno uno dei suoi predecessori: Sarkozy, l’uomo che aveva suscitato grandi attese entrando all’Eliseo e che ne uscì dopo averle deluse tutte.
In breve, Salvini è più saldo in sella dopo gli attacchi francesi (e in misura minore anche spagnoli). Lui con Di Maio che gli regge il gioco. Qualcuno potrà dire che l’Italia “populista” è isolata rispetto al resto d’Europa, ma è un argomento fragile. I nostri “sovranisti” volevano ottenere esattamente questo risultato, almeno nel campo dell’immigrazione e della sicurezza. Semmai la contraddizione è di chi ha guardato a Macron come a un possibile modello per ricostruire il campo del centrosinistra allargato. Certo, si pensa non a una persona bensì a un modo di stare sulla scena pubblica e di aggregare il consenso, peraltro in un sistema politico ed elettorale diverso dal nostro. L’idea del giovanotto erudito e dinamico, con forte senso delle istituzioni, che emerge dalle grandi scuole e subito interpreta l’anima del paese, era ed è suggestiva.
Solo che Macron ha mostrato anche l’altra faccia della medaglia, l’arroganza di chi ritiene l’Italia un parente povero a cui insegnare le buone maniere.
La storia insegna che quasi mai queste iniziative ottengono gli esiti sperati, almeno non a breve. Nell’Italia della seconda metà degli anni Trenta – e non si vuole proporre un’analogia – la popolarità di Mussolini non fu mai così alta come nell’ora delle sanzioni imposte a causa della guerra di Etiopia. Isolati, sì, ma orgogliosamente arroccati. Se non sfocia in una nuova gestione europea dei migranti, l’asprezza di Macron avrà il solo effetto di complicare ancor di più la vita di chi si oppone al duopolio Salvini-Di Maio. Come ha detto un’alta figura morale, la senatrice a vita Liliana Segre, l’Italia è stata lasciata troppo sola dall’Europa.

Il Fatto 13.6.18
“Ma se salgono sulle nostri navi sono in Italia”
L’ammiraglio Vittorio Alessandro. “A norma del trattato di Dublino il nostro è il Paese di prima accoglienza”
di Stefano Caselli


“Per cambiare le regole ci sono i tavoli diplomatici. Intervenire su un’operazione di soccorso già avviata è assurdo e contrario a ogni prassi”. Vittorio Alessandro, Contrammiraglio in congedo, coordinatore nel 2011 della crisi di Lampedusa, così commenta la vicenda Aquarius.
Ammiraglio, cosa prevedono i trattati quando una nave raccoglie naufraghi?
La prassi è universale. Esiste l’obbligo di raccogliere e portare al sicuro, nel più breve tempo possibile, le persone. Nel caso specifico siamo di fronte a un numero consistente di persone a bordo di un’imbarcazione che ne poteva trasportare meno. Un evidente surplus di rischio che richiedeva risposte rapide.
Nel caso Aquarius la rapidità non sembra essere stata prioritaria…
No. Il problema non è dove la nave attraccherà, il problema sono i quattro giorni di navigazione in più. Il soccorso, per caratteristiche anche tecniche, deve ispirarsi a criteri di efficacia e prontezza. Con l’Aquarius, invece, si è scritta una pagina nuova, illogica. Alzare il tiro con un’operazione aperta è assurdo, in gioco c’è la vita delle persone.
Ci sono anche questioni giuridiche? Una nave militare italiana è suolo italiano.
Sì, chi fa il trasbordo si trova su suolo italiano.
E però sarà consegnato a un altro Paese…
L’incondizionato impegno del governo spagnolo dovrebbe essere scongiurare eventuali obiezioni, semmai qualcuno ne porrà. Però…
Però?
In base ai Trattati di Dublino qualcuno potrebbe far valere il principio del Paese di prima accoglienza sulla base del trasbordo. Anche se non è stato sbarcato in un porto.
Uno Stato può chiudere i porti?
No. Non può per le merci, figuriamoci per le persone, a patto che il porto sia in condizioni di assoluta sicurezza. Non vedo quale fosse l’ostacolo. Non c’erano problemi di ordine pubblico né di altro genere. C’era un problema di accoglienza, quello sì. Non stiamo parlando di un carico di patate, ma di persone.
Eppure la Convenzione Onu parla anche di “violazione delle leggi di immigrazione vigenti nello Stato”.
Vero, ma qui si parla di violazione di leggi, non di semplice immigrazione. Sarebbe interessante leggere le motivazioni del decreto interministeriale di chiusura dei porti, ma non se ne trova traccia…
Lei ha coordinato la crisi di Lampedusa del 2011. Cosa pensa quando sente dire “è finita la pacchia”?
La pacchia semmai è di chi organizza attività illecite intorno alle migrazioni, non certo di chi rischia la vita. Andare avanti a slogan è inutile prima che stupido.
Non tutti – si dice – fuggono da fame e guerre…
Distinzioni senza senso. Nel 2011 raccoglievamo naufraghi in fuga dalla Tunisia: ragazzi senza lavoro, sostanzialmente disperati. Si dice “aiutiamoli a casa loro”, ma prima dovremmo capire cosa sia “casa loro”. Il soccorso in mare non è che un tampone e sicuramente non basta. E le risposte, prima che i governi, le deve dare l’umanità.

Il Fatto 13.6.18
Spinelli: “Illegale negare il porto ma Roma è vittima di iniquità”


Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra unita europea/Sinistra verde nordica (Gue/Ngl) è intervenuta nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo dedicata alla preparazione del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2018. Qui di seguito il suo breve intervento;
“Premetto che concordo con Vincent Cochetel, inviato dell’Onu: la solidarietà europea non va discussa mentre arriva una nave di migranti sofferenti. La priorità è dar loro subito il porto più sicuro. Non farlo è illegale.
Al tempo stesso, dobbiamo riconoscere che l’Italia resta il Paese che per primo registra gli arrivi e ne è responsabile, e che nessuna riforma di questa regola iniqua è in vista.
Il blocco delle navi è frutto velenoso del blocco negoziale su Dublino IV, e usa i migranti come ostaggi. Se il Consiglio europeo cercherà l’unanimità su Dublino, come chiede Angela Merkel, sbatterà contro un muro e confermerà che c’è del marcio nell’Unione.
Al mio governo vorrei dire: fate vostra la riforma del Parlamento, ha difetti, vero, ma è la più avanzata possibile. Gran parte del Consiglio vuole ucciderla. Guardatevi da alleati come Orbán: non accetterà redistribuzioni automatiche di quote. Non è amico del governo italiano”.

Il Fatto 13.6.18
Non solo Aquarius, la tragedia continua è in territorio libico
di Peter Gomez


Da quasi un anno la stampa e la politica italiane fingono di non sapere cosa accade in Libia. Felici per i risultati raggiunti dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti che, accordandosi con Tripoli, ha fatto crollare gli sbarchi, molti osservatori ora in prima linea nelle proteste per la vicenda dei 600 migranti della nave Aquarius non dicono una parola sulle disumane condizioni dei centri di detenzione gestiti da autorità e milizie. A parte poche e lodevoli eccezioni, nessuno in Parlamento, sui social o sui giornali, si è lamentato per le donne sistematicamente stuprate nei campi; per l’abitudine di chiedere via telefono alle famiglie dei migranti detenuti soldi per far cessare le torture nei loro confronti o per i trafficanti di esseri umani promossi a membri effettivi, anche in posizioni di comando, della Guardia costiera finanziata con fondi dell’Unione europea. Tutte vicende più volte raccontate su queste pagine e che ora sono meglio e più puntualmente ricostruite da Francesco Viviano e Alessandra Ziniti nel loro bel libro Non lasciamoli soli. Nel volume, la storia degli orrori è lunga e particolareggiata: ci sono centinaia di ragazzi costretti a mangiare riso con i vermi, a bere urina quando non c’è acqua, a scavare fosse comuni. C’è l’Italia che ha delegato alla Guardia costiera libica, da noi addestrata e armata, i respingimenti dei barconi in mare spesso a colpi di mitra.
Per questo ora ci sentiamo vicini ai 600 migranti dell’Aquarius e siamo felici che i media e la politica vigilino sulle loro condizioni di salute e che si interroghino se sia il caso di tenere ancora per tre giorni in mare uomini, donne e bambini tanto sfortunati. Al tempo stesso però ci domandiamo dove erano i giornali, i politici, le televisioni e i commentatori, mentre in Libia i nuovi accordi di Minniti creavano e amplificavano questa tragedia? Se dobbiamo essere sinceri fino in fondo, dobbiamo dirci chiaramente che pur sapendo in Italia si è fatto poco o nulla. Che gli editoriali indignati si sono contati sulle dita di una mano (anche chi scrive, pur pubblicando sul sito del Fatto decine di articoli di cronaca, deve fare ammenda). Dobbiamo ricordare che quando l’Onu il 17 novembre dello scorso anno ha stigmatizzato il comportamento italiano, il vecchio governo e la vecchia maggioranza sono restati semplicemente in silenzio. Lasciando che parlassero solo le opposizioni di sinistra e qualche cinque stelle.
Così le agenzie dell’Onu sono fin qui riuscite a visitare solo 20 dei 34 centri di detenzione gestiti dal ministero dell’Interno di Tripoli, dove vengono portati i migranti respinti dalla Guardia costiera, e nulla si sa di ciò che accade in molte altre località. Certo, la situazione in Libia è quello che è. Il paese è diviso. Le difficoltà sono enormi. Noi crediamo però che se i media facessero e avessero fatto con forza il loro dovere sarebbe oggi più semplice arrivare a una soluzione coordinata a livello europeo, senza dover attendere gli esiti incerti di un braccio di ferro innescato sulla testa di 600 migranti. Nascondersi dietro il vecchio detto “occhio non vede, cuore non duole”, non è stata una grande idea. Soprattutto perché l’occhio della stampa vedeva, ma si chiudeva. Col risultato di far apparire le tante denunce di questi giorni contro la nuova e finora (fortunatamente) incruenta strategia del governo giallo-verde, non un semplice esercizio del diritto di critica, ma solo una scelta politica. Senza dubbio legittima. Ma anch’essa giocata sulla testa di migranti, lettori ed elettori.

Il Fatto 13.6.18
Lega e soldi dal Lussemburgo: i pm cercano a Bolzano i milioni del Carroccio rientrati in Italia
Caccia - Una segnalazione di Bankitalia innesca i pm di Genova: una rogatoria per capire se si tratta dei rimborsi per cui sono stati condannati Bossi e Belsito
di Valeria Pacelli e Ferruccio Sansa


Tre milioni di euro. Rientrati in Italia dal Lussemburgo e segnalati dalla Banca d’Italia dopo le elezioni politiche. L’indagine della Procura di Genova sui conti della Lega si riapre all’improvviso: i pm hanno avviato una rogatoria internazionale per capire se il denaro sia stato movimentato da persone riferibili alla Lega e se si tratti di una fetta del tesoro del Carroccio: 48 milioni mai ritrovati.
Tutto comincia pochi giorni dopo il 4 marzo quando la Banca d’Italia riceve un report da una fiduciaria del Lussemburgo. Viene segnalato un movimento di denaro giudicato sospetto dal Granducato all’Italia. Per la precisione, alla Sparkasse di Bolzano, uno degli snodi di questa vicenda. Negli ultimi tempi le autorità europee hanno compiuto un giro di vite sugli spostamenti di denaro di entità rilevante che passano per il Lussemburgo.
Il report della fiduciaria finisce sul tavolo dei funzionari di Bankitalia che, dopo averlo esaminato, lo trasmettono agli inquirenti genovesi. Quelli che stanno cercando di mettere le mani sul tesoro della Lega, i 48 milioni. Gli investigatori della Finanza e i pm Francesco Pinto e Paola Calleri presto si convincono che quei 3 milioni potrebbero essere “riferiti” ad attività di esponenti della Lega. Così l’inchiesta – finora non ci sono nomi sul registro degli indagati – che pareva destinata all’archiviazione riprende fiato. Certo, tengono a sottolineare qualificati ambienti investigativi, occorre assicurarsi che la segnalazione non sia una polpetta avvelenata: la Lega ha appena fatto il botto alle elezioni e qualcuno potrebbe cercare di bloccarla. Un’ipotesi che va comunque vagliata.
Tutto comincia il 26 luglio scorso quando il Tribunale di Genova condanna – in primo grado – Umberto Bossi (due anni e mezzo) e l’ex tesoriere Francesco Belsito (quattro anni e dieci mesi). L’accusa parla di truffa ai danni del Parlamento per i rimborsi elettorali. Ma i magistrati, cercando di recuperare il denaro, si rivolgono anche a Stefano Aldovisi, uno dei revisori contabili della Lega di Bossi. Aldovisi dovrebbe versare ben 40 milioni. Ma il commercialista, assistito dal legale milanese Stefano Goldstein, giura di aver lavorato gratuitamente e di non aver mai toccato quel denaro. Alla fine presenta un esposto, in cui fa riferimento ad alcuni articoli pubblicati nei mesi scorsi sul settimanale L’Espresso e che riguardavano proprio i conti della Lega. Il denaro in teoria dovrebbe essere versato dopo il terzo grado di giudizio, ma i pm chiedono di agire subito. E partono alla caccia. Soltanto 2 milioni vengono recuperati. Secondo i vertici della Lega il resto non ci sarebbe più: già speso per attività politiche.
Ma i pm Paola Calleri e Francesco Pinto decidono di ricostruire tutti i movimenti. Si imbattono in diversi conti correnti dove sarebbero stati depositati 19,8 milioni. Si tratta di Unicredit (la filiale vicentina) e Banca Aletti (la sede milanese). I denari da qui nel 2013 sarebbero stati trasferiti su due nuovi conti aperti presso la filiale milanese della bolzanina Sparkasse. A consigliare l’istituto altoatesino sarebbero stati Domenico Aiello, avvocato di fiducia di Roberto Maroni e allora presidente dell’Organismo di Vigilanza della banca, e il suo collega Gerhard Brandstatter, allora presidente della Fondazione Sparkasse, oggi presidente della banca (nessuno dei due, va sottolineato, risulta indagato).
Il conto, però, ha vita brevissima. Circostanza che ha indotto i pm ad approfondire. Secondo quanto ricostruì all’epoca Brandstatter, sarebbe stato aperto nel gennaio 2013 e avrebbe cessato l’operatività nel luglio successivo. Sette mesi. Aiello parlando con i cronisti spiegò: “Con Maroni segretario, il partito ha aperto un conto in Sparkasse che poi Salvini ha chiuso trasferendo il residuo in Banca Intesa nel 2014”.
Ma perché tenere un conto per così poco tempo? “Erano in realtà due conti: un normale easy-business e uno per deposito titoli. Gli interessi offerti dalla banca erano del 2,5, poi calati all’1,9%. Alla Lega non bastava”, , hanno raccontato nei mesi scorsi al Fatto fonti della banca. Insomma, il tesoro del Carroccio sembra essersi polverizzato. In attività politica, giurano i leghisti.
Qui l’indagine stava per fermarsi. Ma ecco che a marzo arriva la segnalazione che tre milioni dal Lussemburgo sono rientrati in Italia alla Sparkasse. Di per sé niente di illegale, sempre che dalle carte che i pm stanno acquisendo – anche con una rogatoria in Lussemburgo – non emerga che il denaro è quello del tesoretto oggetto dell’inchiesta sul sistema Belsito. E che, insomma, nella Lega qualcuno non abbia cercato di sottrarre alla giustizia il denaro che sarebbe provento di un reato. Di qui l’ipotesi di reato di riciclaggio (senza indagati finora).
C’è poi da capire se il denaro sia transitato in Lussemburgo per investimenti finanziari. E di quale natura. La legge del 2012 infatti prevede che i partiti possano investire le loro risorse soltanto in titoli di Stato dei Paesi Ue.

La Stampa 13.6.18
Sospetti fondi della Lega dal Lusseburgo, blitz della Finanza alla Sparkasse di Bolzano
Gli inquirenti sono alla ricerca di prove. Nel mirino il presunto riciclaggio di parte dei rimborsi fuorilegge che il partito ha incassato dal Parlamento fino al 2013
di Matte Indice

qui
http://www.lastampa.it/2018/06/13/italia/sospetti-fondi-della-lega-dal-lusseburgo-blitz-della-finanza-alla-sparkasse-di-bolzano-JOnwYztY2Ipctl98FBSiNP/pagina.html

Il Fatto 13.6.18
Latina, il clan rom Di Silvio accusato di mafia faceva campagna elettorale per il candidato di Salvini
di Marco Pasciuti


Il trait-d'union tra il Carroccio e uno dei 25 arrestati dalla Polizia nel capoluogo pontino si chiama Agostino Riccardo, finito in carcere con l'accusa di associazione di tipo mafioso. Il 4 giugno 2016, si legge nell'ordinanza di custodia cautelare, venne trovato in compagnia di un pregiudicato nella cui auto gli agenti rinvennero manifesti elettorali di Francesco Zicchieri, candidato con la Lista Salvini al comune di Terracina e oggi vicepresidente del gruppo della Lega alla Camera

“Ruspa!!!!! Quando torneremo al governo, raderemo al suolo uno per uno tutti ‘sti maledetti campi Rom“. Era il 2015, Matteo Salvini non era ancora il capo del Viminale, ma la sua campagna l’aveva già intrapresa da un pezzo. Forse non sapeva che diversi esponenti del gruppo etnico che da anni ha eletto a bersaglio politico hanno dato una mano ai suoi candidati a procacciarsi voti in campagna elettorale, e non solo in qualità di obiettivo delle sue intemerate. Perché nell’ordinanza con le 25 misure di custodia cautelare che hanno decapitato il clan Di Silvio a Latina gli inquirenti scrivono che due degli arrestati facevano “attività di propaganda elettorale” per la lista di Salvini alle amministrative del 2016 a Terracina.
Il trait-d’union tra il Carroccio e la maxi operazione condotta dalla polizia nel capoluogo pontino si chiama Agostino Riccardo, detto Balò, finito in carcere con l’accusa di far parte di “un’associazione di tipo mafioso facente capo a Di Silvio Armando detto “Lallà“, ovvero colui il quale la Direzione distrettuale antimafia considera il capo del clan che spadroneggia da anni a Latina esercitando un controllo capillare del territorio (“strada per strada, quartiere per quartiere”, spiegava in conferenza stampa il procuratore aggiunto Michele Prestipino) tra traffico di droga, estorsioni e riciclaggio di denaro.
Il 4 giugno 2016 la polizia di Terracina trovava, all’interno del parcheggio del McDonald’s che sorge lungo la Pontina tra Latina e Terracina, Riccardo in compagnia di due pregiudicati locali: Gianluca D’amico, finito ai domiciliari nell’operazione di questa mattina, e Matteo Lombardi, “soggetto – si legge nell’ordinanza – sottoposto a misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno”. Nell’auto di quest’ultimo gli agenti rinvenivano “numerosi manifesti riguardanti i candidati  alle elezioni amministrative di Latina e Terracina, nonché materiale utilizzato per l’affissione”. Questi i nomi dei candidati annotati agli agenti quel giorno: “Per Latina: Elsa Calandrini Lungo, “Cuori Italiani“; e per la “Lista Salvini” il candidato Francesco Zicchieri“. Per Terracina invece Gianluca Corradini, Gina Cetrone, e Tramentozzi lista “Sì Cambia”.
Una circostanza imbarazzante per Salvini perché, dopo un passato in Alleanza Nazionale, Zicchieri è diventato un fedelissimo del segretario del Carroccio: già consigliere comunale a Terracina, a marzo è stato eletto alla Camera, dove ad aprile è stato eletto vicepresidente del gruppo della Lega.
Una circostanza che, sottolinea il giudice per le indagini preliminari Antonella Minunni, “determinava l’accertamento del reato di cui all’articolo 76, comma 8 del codice antimafia, avendo il sorvegliato speciale Lombardi svolto, con la complicità di Riccardo Agostino e D’Amico Gianluca, attività di propaganda elettorale”. Documentata, si legge ancora nell’ordinanza, da foto pubblicate su Facebook in cui Riccardo in compagnia di Samuele Di Silvio, anch’egli arrestato nella maxi operazione della Polizia, esponeva “manifesti dei candidati sopra citati“.
Un’attività della quale ha parlato anche il collaboratore di giustizia Renato Pugliese, che nel verbale del 26 gennaio 2017 racconta di una persona estranea all’indagine che “era con me nella campagna elettorale del 2016 a Terracina e a Latina, attaccava i manifesti elettorali di Salvini e Gina Cetrone per conto mio e di Agostino”.
“Fatti che, nella loro complessità – spiegava il procuratore aggiunto Prestipino questa mattina in conferenza stampa – sono indici importanti della mafiosità del gruppo, capace di stringere rapporti con la politica“.

il manifesto 13.6.18
La Spagna contro Salvini: «Quale buonismo, l’Italia rischia azioni penali»
Aquarius. La ministra della giustizia Dolores Delgado mette in guardia: violati i trattati internazionali
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA «Vogliamo passare dalla speranza a una politica completa in tema di immigrazione». Le parole della sindaca di Barcellona Ada Colau, ieri sera in conferenza stampa, riassumono la questione che ieri ha occupato il dibattito politico in Spagna. Poche le voci discordanti: il Pp, che avverte che il governo Sánchez sta dando il messaggio che la Spagna è un colabrodo, e il partito di destra Vox, che ha proposto un sondaggio su Twitter in cui sperava vincesse il No alle frontiere aperte, e invece è risultato un epic fail, con l’80% di quasi 58mila voti a favore di aprire le frontiere. Per il resto persino comunità come quella galiziana, roccaforte del Pp, si sono offerte di ospitare i migranti in arrivo a Valencia. Persino Albert Rivera, di Ciudadanos, ha detto che è «umano tentare di salvare vite», anche se ha chiesto una politica migratoria comune alla Ue per evitare quelle che ha definito come «improvvisazioni».
Barcellona, per bocca di Colau, si è unita a Madrid offrendosi di ospitare un centinaio di persone. Ma la sindaca ha messo sul tavolo due richieste politiche di più ampio respiro rivolte al nuovo governo: uno, affrontare il tema della casa, per i migranti e per tutti, uno dei pallini di questa amministrazione municipale e che senza una legge statale non può essere modificato; e secondo, la modifica delle politiche migratorie: «dobbiamo sederci a lavorare e mettere le risorse», ha detto rivolta a Sánchez. «Siamo grati per le parole di disponibilità e sensibilità dei governi di Sánchez e Torra», il presidente catalano che pure si è offerto di accogliere i migranti. «Però adesso abbiamo bisogno che queste parole si trasformino in risorse, pianificazione e politiche serie». Per esempio, ha proposto, l’istituzione di un permesso di lavoro temporaneo per permettere ai richiedenti asilo di lavorare. E ha chiesto che i 330 milioni di fondi europei che Rajoy destinava alle frontiere e ai Cie vengano invece investiti per le città che accolgono rifugiati in fuga «dalla guerra e dalla violenza», rivendicando che da sola Barcellona ha accolto 11.600 persone spendendo più di sei milioni all’anno.
La ministra di giustizia spagnola Dolores Delgado, ammonendo l’Italia «che rischia responsabilità penali per non aver rispettato accordi e trattati internazionali» ha ricordato che la decisione del governo Sánchez non è «buonismo», come ha detto Salvini, ma «il rispetto della legalità istituzionale».
La vicepresidente del governo Carmen Calvo ha sottolineato che il suo governo, obbedendo alle norme internazionali, ha trasmesso «un’immagine impeccabile del nostro paese», aggiungendo che davanti a una crisi umanitaria «non potevamo rimanere impassibili». Calvo sarà a Valencia per coordinare le operazioni all’arrivo della nave Aquarius e delle navi militari italiane, previsto per giovedì.

il manifesto 13.6.18
Vienna prepara una mega esercitazione anti-migranti
Isteria austriaca. Più di mille agenti e soldati mobilitati al confine con la Slovenia. Che non gradisce e protesta
di Angela Mayr


VIENNA Come difendere i confini dall’assalto dei migranti? Per impararlo c’è un appuntamento da non perdere, il 25 giugno a Spielfeld, in Austria, al confine con la Slovenia. Lì si potrà assistere a una gigantesca esercitazione messa in campo dal ministro degli interni austriaco, nonché ideologo della Fpoe Herbert Kickl. Per la prima volta si sperimenterà la nuova Grenzschutztruppe, truppa per la protezione del confine, battezzata «Puma». Sarà composta da un migliaio di persone tra poliziotti e militari che mostreranno come si può fermare un grande gruppo di rifugiati. Grazie anche alla struttura di recinzione molto vasta e flessibile già esistente sul posto. «Non si devono più ripetere scene come quelle del 2015» martellano ogni giorno i politici della Fpoe, evocando lo spettro di nuove rotte balcaniche. Allora, nella breve estate dell’accoglienza decine di migliaia di disperati entrarono in Austria senza alcun controllo. I confini blindati rappresentano il succo dell’imminente (dal primo luglio) presidenza austriaca dell’Unione europea. Solidarietà e azioni comuni tra gli Stati membri, ha chiarito Kickl, potranno esserci solo in funzione di uno stop ai migranti.
E proprio a questo mira l’operazione «Puma». «Saremo posizionati così vicini al confine sloveno che ogni richiesta d’asilo pronunciata alla frontiera ricadrà in territorio sloveno», ha spiegato Kickl. «In ogni regione austriaca si dovrà costituire un’unità Puma che in caso di emergenza possa unirsi entro 24 ore in uno hotspot». In realtà l’Austria è ben lontana da ogni emergenza e grandi afflussi di migranti, come ammette lo stesso capo della polizia federale, Franz Lang. Allo show del 25 giugno sono stati invitati rappresentanti di polizia di altri paesi, sia per dimostrare la fermezza austriaca nel non lasciare entrare nessuno, sia per poter impartire lezioni ad altri paesi. La vicina Slovenia però non gradisce lo spettacolo, a partire dalla polizia che ieri ha criticato il luogo, la data (in quel giorno è festa nazionale slovena) e l’idea stessa dell’ impresa perché «il numero dei migranti non è così alto da giustificare esercitazioni del genere». In effetti nel 2017 secondo dati ufficiali solo 13 persone sono state rimandate dall’Austria in Slovenia. «La situazione è sotto controllo e stabile , l’Austria non ha alcuna ragione di chiudere il confine» ha accusato la ministra degli interni slovena Vesna Gyorkos Znidar. «La statistica dimostra che la polizia slovena vigila molto bene sul confine di Schengen».
Per la ministra si tratta di «questioni di politica interna austriaca che non devono coinvolgere la Slovenia». Non paga, l’ossessione securitaria austriaca coinvolge anche la Croazia che dal canto suo ha respinto l’offerta di Vienna di rinforzi militari al confine. «Abbiamo detto all’Austria con chiarezza di calmarsi e di cercare di essere più costruttiva» ha detto Jutarnji List, del ministero degli interni croato. In ballo anche l’Albania che ha smentito quanto dichiarato dal cancelliere Kurz, circa l’esistenza di un accordo per l’invio di poliziotti austriaci nel paese balcanico.
Un malessere sul senso dell’esercitazione del 25 giugno serpeggia anche tra la polizia austriaca. Lunedì ha ricevuto la comunicazione di dover fare delle esercitazioni in funzione della grande esercitazione, con prova generale prevista il giorno precedente alla prima. «80mila migranti in marcia, la polizia si esercita a chiudere il confine», hanno titolato i tabloid.

Repubblica 13.6.18
Intervista a Felix Klein
“Così in Germania combatto l’antisemitismo sempre più esibito”
di Tonia Mastrobuoni


BERLINO Felix Klein, è il primo “Responsabile per la lotta all’antisemitismo” in Germania.
Che cosa significa questo incarico?
«Il governo ha riconosciuto che, nonostante i molteplici sforzi di combattere l’antisemitismo, è necessario prevedere un ruolo del genere. Ma io interpreto il mio compito anche così: i politici e i cittadini non devono sentirsi sollevati dal compito di combattere in modo deciso l’antisemitismo.
Sarebbe fatale. L’antisemitismo è ancora presente nella nostra società e tutti siamo chiamati a fare qualcosa per combatterlo, non solo i politici».
Ma l’istituzione del suo ufficio è un sintomo che l’antisemitismo si è aggravato?
«È sempre esistito in Germania, anche prima della grande ondata di profughi del 2015. Ma ora si esprime in modo più aperto e sfrontato. La soglia di allarme si è abbassata. Frasi che sarebbero state impensabili, anni fa, ora vengono pronunciate.
Penso che il web abbia contribuito molto a questa deriva. Non penso che l’antisemitismo sia aumentato, ma diventato più evidente».
La Grande crisi ha fatto riemergere fantasmi del passato come le teorie complottiste sul dominio della finanza ebraica.
Quanto la preoccupa il ritorno di queste fandonie?
«Sì, si pensi ad esempio alla campagna contro il finanziere ebreo George Soros che si è scatenata in alcuni Paesi. Il problema è molto grave. Anche perché l’antisemitismo è una forma molto particolare di discriminazione. I razzisti, di solito, umiliano l’oggetto del loro odio perché lo ritengono inferiore.
L’antisemita ritiene gli ebrei una minaccia, parte di un complotto mondiale, qualsiasi esso sia. Perciò è giusto aver creato un Responsabile specifico che si batta contro ogni forma di antisemitismo».
Una domanda stupida: come mai l’antisemitismo resiste in Germania, un Paese che si è reso colpevole di uno dei peggiori crimini della storia umana, il tentativo di sterminare tutti gli ebrei?
«Invece è un’ottima domanda. Non ce ne siamo liberati, è vero. E nonostante l’esperienza estrema del tentativo sistematico di sterminare gli ebrei. Il problema è che continuano a funzionare pregiudizi vecchi di secoli, ma anche che ci sono nuove sfide. Molti giovani tedeschi e molti migranti non sentono più la responsabilità della complicata storia tedesca.
Spesso pensano “cosa c’entriamo noi con l’Olocausto?”. E poi c’è il cosiddetto “antisemitismo importato” che trasferisce nelle piazze tedesche il conflitto israelo-palestinese».
Ma dov’è il confine tra una critica legittima alla politica israeliana, non sempre pacifica, e l’antisemitismo?
«Basta fare un semplice test.
Sostituisca “Israele” con un altro Paese. E quando si mette in discussione il diritto di Israele a difendersi, credo che la soglia dell’antisemitismo sia superata».
Trova giusto il suggerimento del presidente della Comunità ebraica in Germania, Josef Schuster, a non indossare la kippà nelle grandi città tedesche, dopo che un ragazzo era stato aggredito in pieno giorno a Berlino?
«Un’affermazione del genere ci deve preoccupare molto. E i casi di Prenzlauerberg o del rabbino picchiato nel Tiergarten, sempre a Berlino, 5 anni fa, dimostrano che la preoccupazione è fondata. Però vorrei anche ricordare che c’è un ritorno della vita ebraica in Germania. E sono contento che Schuster non consigli agli ebrei di emigrare in Israele».
Com’è possibile che nelle scuole tedesche “ebreo” sia diventata una parolaccia?
«Incredibile. Ai miei tempi era impensabile. È un altro segnale dell’imbarbarimento della società, di un calo generale della soglia del pudore. Si pensi alla famigerata canzone rap con il verso dei “corpi scolpiti come prigionieri di Auschwitz”. Una provocazione voluta, una linea rossa attraversata volutamente. Questo imbarbarimento non è solo nei cortili delle scuole, è un fenomeno più ampio. E va combattuto».
Nell’80esimo anniversario delle leggi razziali come dovremmo ricordare la persecuzione degli ebrei in Italia?
«Al momento l’Italia presiede l’”International Holocaust Remembrance Alliance”. Sono molto contento che si ricordino le Leggi razziali e che si torni a tematizzare la lotta all’antisemitismo anche in Italia».

La Stampa 13.6.18
Scontro su Copasir e Vigilanza
Il Pd potrebbe restare a secco
di Carlo Bertini

Ora il Pd rischia di restare fuori da tutto e minaccia fuoco e fiamme. Chiamando in causa i presidenti di Camera e Senato contro «il grave vulnus di lasciare il secondo partito più votato alle urne fuori dalle cariche istituzionali». Perfino le commissioni strategiche destinate da prassi alle opposizioni, Vigilanza Rai e Copasir, possono infatti essere precluse ai Dem, schiacciati dalla tenaglia Forza Italia-Fratelli d’Italia, in sponda con la Lega.
Per capire il clima che si sta creando attorno all’emittente pubblica, in vista di un ricambio dei membri del Cda nominati dal Parlamento, basta sentire cosa dice Salvini a Otto e mezzo contro «alcuni tg che sembrano quelli degli anni ’20 e ’30. In queste settimane sto vedendo un’opera di disinformazione a reti quasi unificate che non ha precedenti nella storia», protesta il leader del Carroccio. Con un’uscita che preannuncia tempesta («grave intimidazione!», tuona il dem Anzaldi), anche se il vicepremier assicura che sulle nomine «faremo scelte equilibrate e intelligenti ricercando merito e competenza».
La turbolenza investe anche l’organismo di controllo sui servizi segreti. Il partito della Meloni, questo il tam tam, potrebbe intestarsi la presidenza del Copasir, che verrà messa ai voti a fine mese, dopo quelle delle commissioni permanenti di Camera e Senato. «Potrebbe essere questa la merce di scambio con la Lega per un atteggiamento più morbido in Senato, dove la maggioranza ha numeri risicati», è il veleno sparso dai Dem. L’ipotesi agita non solo i 5Stelle, che dovrebbero avallare lo strappo col Pd, ma pure i berluscones, che ambiscono alla Commissione di Vigilanza Rai: dove sono in corsa Paolo Romani e Maurizio Gasparri. «Ma devono sperare che si voti prima la Vigilanza, perché se il Copasir andasse a Fdi, noi faremmo le barricate sulla commissione Rai», avvisa il Pd. Che chiede ai presidenti di Camera e Senato di giungere «ad un accordo tra le opposizioni senza ingerenze della maggioranza», dice Ettore Rosato. «Speriamo che non facciano follie, sarebbe una cosa di una gravità inaccettabile».
Sul Copasir il nome in ballo per il Pd è quello di Lorenzo Guerini, per Fdi girano quelli di Fabio Rampelli e Edmondo Cirielli, in predicato anche per la vicepresidenza della Camera, che verrà votata oggi in aula, insieme a quella di un questore. Per sostituire Lorenzo Fontana e Riccardo Fraccaro entrati al governo.

Il Fatto 13.6.18
Terni, la parabola d’acciaio del fu Pd
di Daniela Ranieri


Proprio non si riesce a capire cosa sia preso ai cittadini di Terni, che hanno regalato il 49% al candidato della Lega, il 25 a quello del M5S e fatto perdere al Pd la città che amministrava da 9 anni (anzi: dal 2009 se contiamo il sindaco Raffaelli, dell’Ulivo), precipitandolo dal 30% di 4 anni fa al 12% di oggi. Ma come: Terni non era rossa? Non era la seconda Stalingrado d’Italia (dopo Sesto San Giovanni, espugnata dal centrodestra il 4 marzo), la città delle acciaierie, degli operai, dei metalmeccanici, della coscienza di classe trasmessa di padre in figlio?
Il fatto che l’Umbria non abbia coste, poi, porta a escludere che l’exploit della Lega, da sola scelta dal 29% dei votanti, possa dipendere dalla “invasione dei migranti” con cui Salvini prende voti pure al Sud. Deve esserci un’altra spiegazione per questo tracollo, che tuttavia il Pd, con la lungimiranza e l’acutezza propria dei suoi dirigenti e nella persona evanescente del reggente Martina, vede, insieme agli altri risultati disastrosi del suo partito, come un “segnale incoraggiante” (mah, contenti loro). Ne avanziamo qualcuna.
A febbraio, Salvini parlò ai cittadini da un hotel al centro di Terni: “Quello che non ha fatto il Pd e quello che faremo noi al governo è difendere il lavoro, le imprese e gli operai italiani, vietando che chi ha preso finanziamenti pubblici licenzi a Terni e assuma in Polonia, Romania e Pakistan”. Si riferiva alle multinazionali che possiedono le principali fabbriche siderurgiche della città, come la tedesca ThyssenKrupp S.p.A., che nel 2004 acquisì la Ast, Acciai Speciali Terni, praticando da allora una sanguinosa politica di tagli, riorganizzazioni, piani di rilancio (tutte formule dietro cui si nascondono licenziamenti in massa).
Il 4 marzo, la Lega è passata dallo 0,32% del 2013 al 18,7%. Il Pd cadde dal 33% al 22%. Il suo sindaco Leopoldo Di Girolamo si era appena dimesso dopo il dissesto finanziario dichiarato dal Consiglio comunale. Renzi si era limitato a registrare la “crisi” del Pd ternano e a rivendicare la candidatura dell’ex ministro Cesare Damiano, legato “al territorio” per il solo fatto di avervi tenuto una summer school nel 2015. È possibile, la buttiamo lì, che dopo 4 anni di governo prima di Renzi, poi di Gentiloni, con la successione di due ministri allo Sviluppo economico del calibro di Federica Guidi e Carlo Calenda, i ternani possano aver ceduto a chi prometteva loro la tutela del volgare lavoro, invece che, per dirne una, i matrimoni omosessuali? La Lega, che da tempo vince “nell’operoso Nord” e oggi sfonda anche a Pisa, è quella che durante le sferzate della crisi andava sui tetti a manifestare con gli operai mentre il Pd si rinchiudeva nei piccoli teatri off del centro di Roma per parlarsi addosso di quanto fossero folcloristici i barbari con le corna in testa, di quanto Berlusconi avesse rovinato l’Italia e di quanto loro fossero democratici (mentre preparavano il terreno a uno come Renzi).
Terni è l’allegoria finale di una parabola non solo elettorale, ma anche politica e antropologica del centrosinistra in Italia. Tuttora i suoi massimi dirigenti (col sostegno dei grandi giornali padronali) si mostrano incapaci di intraprendere qualunque analisi che vada oltre il “rosicamento” per i numerosi e schiaccianti successi dei toscani padri costituenti e l’ignoranza degli italiani suscettibili al fascino dei populisti. Si aggirano come zombie tra le Tv e i social network biascicando di pop-corn e prova del nove. Credono di impostare una opposizione efficace incentrandola su diadi di termini inconciliabili, quali “Ci copiano” e “Noi siamo #altracosa” (l’hashtag è renziano, ovviamente); oppure “Sfasceranno i conti pubblici” e “Non faranno niente di quel che hanno promesso”. Non gli passa nemmeno per la testa che, oltre al non sequitur logico, vantarsi di aver già fatto loro quel che Salvini e Di Maio hanno promesso nel contratto (flat tax per le imprese, respingimenti dei migranti, reddito di cittadinanza) non fa che confermare a chi ha smesso di votarli di aver fatto bene a scegliere gli originali, visti i risultati negativi della loro performance. Cosa più grave, dà ragione a chi pensa che il Pd sia diventato un partito di centrodestra, che manda al massacro il suo elettorato storico, straccia lo statuto dei lavoratori, aumenta la precarietà, erode il welfare e rovina la Scuola.
Sarà un caso, ma Salvini in campagna elettorale aveva parlato dell’Ast: “Il problema dell’acciaieria di Terni”, aveva detto, “è quello di Piombino, di Monfalcone e di Fabriano. Siamo stufi di incontrare operai che vengono sacrificati e massacrati per colpa di normative europee e incapacità italiane”. I lavoratori dell’Ast sono quelli che Alfano, ministro dell’Interno del governo Renzi, nel novembre 2014 fece caricare dalla polizia in piazza dell’Indipendenza a Roma, mentre manifestavano pacificamente contro 550 licenziamenti decisi dall’azienda tedesca. Proletariato populista e ingrato.

il manifesto 13.6.18
Balibar: «Ora il Mediterraneo prende la dimensione di genocidio»
Intervista a Etienne Balibar. «Sui migranti tutti i Paesi Ue adottano politiche ipocrite, ripugnanti e si fanno paravento con il gruppo di Visegrad». Per il filosofo, «La tecnocrazia europea, preferisce i populismi alle spinte democratiche di sinistra, li vede come un minor male di fronte alla crescita del risentimento popolare»
A bordo dell’Aquarius, sotto Etienne Balibar
di Anna Maria Merlo


PARIGI L’odissea dell’Aquarius rifiutato dai porti europei, con lo spagnolo Pedro Sanchez che salva l’onore della socialdemocrazia. Il disordine creato dal nuovo governo italiano e dai tanti nazionalismi in crescita. La sinistra lacerata nello scontro tra l’opposizione aperto-chiuso, con il rischio di una deriva tra liberismo e xenofobia, come ha messo in luce ultimamente lo scontro all’interno di Die Linke, mentre lo spazio europeista socialdemocratico si trova schiacciato e può diventare irrilevante. Discutiamo della nuova crisi europea con il filosofo Etienne Balibar, assieme a Vadim Kamenka dell’Humanité Dimanche.
Il governo italiano mette in difficoltà la Ue, la ricatta. Cosa sta facendo Bruxelles, se sta facendo qualche cosa, per reagire?
Una cosa mi ha colpito: la dichiarazione del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, di qualche giorno fa, che ha detto «non faremo con l’Italia l’errore fatto con la Grecia». Intanto, c’è il riconoscimento che con la Grecia è stato fatto un errore. Ma quale secondo la Commissione? Un errore di fondo, di contenuto, imporre come mezzo per risolvere il problema del debito una politica di austerità, di distruzione dell’economia nazionale, oppure solo un errore di forma, nell’interpretazione del commissario agli Affari economici Pierre Moscovici? L’idea sembra di non entrare con l’Italia in un conflitto duro come è stato fatto con la Grecia. La Ue non ne ha i mezzi. Ma va sottolineato che in Grecia c’era (e c’è) un governo di sinistra, mentre in Italia c’è un governo populista orientato all’estrema destra. Senza cadere nel cospirazionismo, possiamo però rilevare che la tecnocrazia europea, benché non strumentalizzi i populismi, li preferisce alle spinte democratiche di sinistra, li vede come un minor male di fronte alla crescita del risentimento popolare, anche se è la politica del peggio, una scelta negativa che aggrava l’ingovernabilità che si diffonde paese dopo paese. Poco per volta, cresce il malessere di fronte alla governance degli stati e dell’Europa e si cristallizza l’idea, con la Grecia, il Brexit o lo pseudo Brexit, ora l’Italia, che di fronte al fatto che non ci sono vantaggi per nessuno ad uscire dall’Unione europea, si va verso una marcescenza della situazione, una neutralizzazione reciproca. Mi spiace, ma sono di un pessimismo radicale.
Al Consiglio europeo di fine giugno ci sarà sul tavolo un piano franco-tedesco per la zona euro.
Ma di quale piano si parla? È una costruzione culturale, che in sé non è disprezzabile, ma cosa si vuole promuovere? Al centro del problema c’è la struttura finanziaria e il bilancio, cioè l’estensione della solidarietà. Ma i paesi del nord vedono profilarsi lo spettro dei trasferimenti finanziari verso il sud e l’ipotesi di un bilancio comune, che gli economisti post-keynesiani da anni considerano indispensabile con una moneta comune. Macron non fa cifre, Angela Merkel punta al più piccolo denominatore: si ritorna alla questione della differenza dei livelli di sviluppo, della divisione dell’Europa tra zone assegnate a differenti funzioni economiche, tra centri di attrazione per i capitali e zone di subappalto, zone di vacanza per la piccola borghesia ecc. Bisognerebbe far esplodere l’ipocrisia della propaganda che afferma che c’è chi paga e chi riceve, un discorso che ha successo nel nord, a cominciare dalla Germania, ma non solo.
Le ineguaglianze, tra stati e tra cittadini, devono essere poste al centro per uscire dalla crisi?
L’ineguaglianza dello sviluppo, la questione dell’ingovernabilità che ne deriva dappertutto, è incredibile che di questa crisi non venga discusso al Parlamento europeo. Ma come ho detto sono molto pessimista: un dibattito del genere rischierebbe di diventare cacofonia, con le forze populiste in crescita che utilizzano argomenti fascistizzanti. La crisi dell’Europa è anche quella della sua essenza democratica, più si impantana più viene evitato il dibattito intraeuropeo. Bisognerebbe che tutte le forze che cercano di ricostruire una prospettiva di sinistra a livello europeo imponessero questo dibattito. Ma non c’è più una sinistra coerente: se la sinistra deve ricostruirsi, però, deve concepirsi subito come sinistra europea, per aprire un dibattito politico attraverso le frontiere. C’è un effetto perverso della crescita in potenza della tecnocrazia di Bruxelles unita al monopolio della politica da parte degli stati nazionali: i cittadini si stanno ripiegando su se stessi, ogni paese discute di problemi propri, al punto che la cosa maggiormente condivisa è una concezione del nazionalismo, visto come degli interessi nazionali da difendere.
La drammatica vicenda dell’Aquarius ne è l’ultima illustrazione?
Francia, Gran Bretagna, Italia e tutti gli altri adottano politiche ipocrite, ripugnanti, facendosi paravento con il gruppo di Visegrad. La Francia blocca gli esiliati alle frontiere con l’Italia, ci sono violenze continue da Calais a Ventimiglia, in Gran Bretagna sono venuti alla luce gli obiettivi di respingimento, la creazione di un «ambiente ostile» per i migranti. Come si bilanciano i due aspetti del problema? Da un lato, c’è un aspetto razionale: se calcoliamo il numero di esiliati, anche nell’ipotesi più forte, il problema non è insolubile, ci sono le capacità di accoglienza in Europa, non si tratta di un’invasione, ma di un numero di arrivi pari all’incirca allo 0,2% della popolazione dell’Unione. Accoglienza significa inserzione, e qui torniamo alla questione territoriale e delle differenze di sviluppo. In secondo luogo, c’è l’aspetto morale: ormai, il problema del Mediterraneo prende dimensioni di genocidio. Come nominare altrimenti quello che succede, un processo di cui ci rendiamo complici di messa in atto di un sistema di eliminazione fisica violenta su basi razziali. Un genocidio che ha luogo alle frontiere. Abbiamo delle tradizioni a cui fare appello per lottare contro questo crollo morale, dal Cristianesimo all’internazionalismo. Dei giuristi propongono di inserire l’accoglienza dei migranti nel diritto internazionale. Vanno poi combattute le logiche economiche neocoloniali che adottiamo, lo sfruttamento, le guerre a cui partecipiamo, che spingono all’esilio.
Da dove ripartire?
Tre questioni devono essere poste al centro: 1) il ruolo della Ue nella mondializzazione, sfruttando al meglio il peso europeo per regolare le delocalizzazioni contro i dumping sociali e fiscali; 2) le politiche neo-liberiste devono cedere il posto a un’Europa sociale; 3) la democrazia delle istituzioni europee. La questione della democrazia rappresentativa non è marginale o liquidata per sempre. Ma ogni paese oggi è caratterizzato da patologie della rappresentanza politica, la cosiddetta post-democrazia, lo scarto tra poteri reali e poteri apparenti. Non bisogna dimenticare i movimenti sociali: anche se oggi, purtroppo, al meglio sono difensivi.

il manifesto 13.6.18
Contro lo straniero e contro le élite due populismi diversi
Sinistra / governo. Questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista. Difficile dire quanto stabile si rivelerà, ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo
di Antonio Floridia


«Del resto mia cara di che si stupisce/anche l’operaio vuole il figlio dottore/e pensi che ambiente che può venir fuori/non c’è più morale, Contessa». Torna in mente questa celebre canzone, a sentire certe reazioni di un’opinione pubblica colta e democratica, di fronte alla nascita del nuovo governo.
Un atteggiamento tra lo sconsolato e lo spocchioso, un sentimento di stupore e di estraneità: ma come si è potuti giungere fino a questo punto? E giù, poi, con le ironie sull’incompetenza di questi parvenu.
Alcuni settori politici, giornalistici e intellettuali, invece di chiedersi come mai il “popolo” non abbia dato loro minimamente retta, sembrano ritrarsi in una posizione di ripulsa, di denigrazione delle masse. Un vecchio riflesso condizionato, tipico dei conservatori del buon tempo antico, quando si pensava che il governo fosse una prerogativa naturale dei colti e delle èlites.
Ma appare assai dubbio che, in questo modo, si possa costruire un’opposizione efficace a questo governo e che si possa fare ricredere quei milioni di connazionali che hanno votato per queste forze “impresentabili”. Limitarsi a lanciare un grido allarmato sui “populisti al governo” non intacca il consenso di cui godono. Un’opposizione credibile presuppone un saldo “punto di vista” alternativo. Ed è questo che oggi manca del tutto: dire che “mancano le coperture” è un argomento assai fragile (e persino controproducente: un elettore che ha votato per questi partiti, può sempre pensare: “beh, allora gli obiettivi sono giusti, almeno ci stanno provando”).
Costruire una cornice politica e ideale che possa davvero insidiare l’egemonia populista presuppone, intanto, che si torni a praticare quella che un tempo si chiamava “analisi differenziata”.
E quindi, in primo luogo, occorre interrogarsi su che tipo di populismo abbiamo di fronte.
Possiamo assumere una definizione, minima ma essenziale, di populismo: il populismo è un modo di costruzione del discorso politico, un’operazione egemonica sugli schemi interpretativi della realtà sociale e del conflitto politico, fondata sulla creazione di una dicotomia che separa “noi” (il popolo”) da “loro” (gli “altri”). Possiamo dire allora che questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista: la prima identifica l’”altro” con lo “straniero”, la seconda con le “èlites”. Difficile dire quanto stabile si rivelerà questa convergenza: ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo.
Il primo passo per una controffensiva è quello di non “regalare” all’avversario anche il controllo sul linguaggio della politica, e su alcune parole, in particolare: “l’anti-elitismo” e la “sovranità popolare”. Le teorie elitistiche del potere sono sempre state un caposaldo del pensiero conservatore. Da Gaetano Mosca fino ad alcuni scienziati politici americani del Novecento, la critica alla democrazia di massa si è sempre fondata sull’idea che il “cittadino comune” è incompetente, incapace di avere una visione lungimirante dei propri stessi “veri” interessi: e sull’idea che, in fondo, l’apatia è un segno di consenso, o che un eccesso di “partecipazione” popolare è pericoloso. Ebbene, la sinistra, oggi, non dovrebbe recuperare una sana attitudine “anti-elitista”?
Ossia, individuare le vere oligarchie che dominano l’economia e la società e indicare le vie per contrastarne lo strapotere? E poi, la “sovranità popolare”: diamine, è un termine che appartiene alla storia del pensiero democratico e rivoluzionario! Possiamo ridurre tutto a “sovranismo” nazionalista? o non si dovrebbe ridare un senso all’idea di una sovranità democratica, a fronte del dominio cieco e impersonale di potenze economiche e finanziarie imperscrutabili e sfuggenti? Solo così, al M5S si potrà poi rivolgere un’obiezione cruciale: le “èlites” sono per voi sono solo le “caste” politiche? E come la mettete con la flat tax?
Se analizziamo la cultura politica del M5S troviamo un’idea ibrida di democrazia. Da una parte, più che di democrazia “diretta”, è giusto parlare di una sua visione immediata e “direttistica”: l’idea che la “volontà popolare”, univoca e indifferenziata, si possa tradurre senza filtri e mediazioni in una “volontà generale”; dall’altra, specie a livello locale, ci si appella invece ad un’idea di democrazia “partecipativa” che ha alimentato l’esperienza politica e associativa di molti attivisti (ad esempio, in molti programmi amministrativi del M5S, frequente è il richiamo al “bilancio partecipativo”). Una miscela contraddittoria: un’idea di democrazia “a binario unico”, che può condurre ad ignorare i principi cardine di un costituzionalismo democratico, ma che esprime anche, in forme distorte, un’idea di recupero della sovranità popolare, oggi comunemente sentita come svuotata, con un appello al protagonismo civico. Da qui anche la novità di un ministero alla “democrazia diretta” e l’inserimento nel “contratto” di alcune proposte di riforma dell’istituto referendario (su alcune delle quali si può discutere, mentre altre sono assai più problematiche). Ma anche in questo caso, è una sfida che può essere raccolta solo se la sinistra torna a proporre una visione ricca della democrazia rappresentativa, che sia fondata sulla partecipazione politica dei cittadini, e non su una mera selezione elettorale delle èlites.
Si può far leva su queste contraddizioni; ma come sarà possibile se, ad esempio, all’interno del Pd, ci sono ancora forze che pensano con nostalgia alla riforma costituzionale sconfitta al referendum, o a leggi elettorali simil-Italicum, che proprio ad una visione plebiscitaria della democrazia erano ispirate? Sembra oramai largamente condivisa l’idea che la crisi della sinistra sia nata dalla sua subalternità al neo-liberismo economico; meno frequente appare il richiamo ad un’altra, non meno grave, subalternità: quella ad una visione elitistico-competitiva della democrazia. Anche su questo terreno si dovrà misurare una possibile ricostruzione della sinistra.

il manifesto 13.6.18
Cartolina dal futuro nazionalpopulista
Trump-Salvini. Una nazione ostaggio dei propri governanti, nel segno della demagogia e del rancore. L’esperienza americana degli ultimi 18 mesi può essere letta come un triste pronostico per l’Italia
di Luca Celada


Prima di partire per il G7 della discordia e per il summit con Kim Jong Un (“non serve prepararsi in questi casi è l’atteggiamento che conta!”), Donald Trump ha festeggiato il 500mo giorno in carica litigando con la squadra campione del Superbowl, i Philapdephia Eagles, bannati dalla Casa Bianca per “mancato rispetto” al presidente. L’ultimo siparietto da líder maximo ha avuto eco puntuale nel contenzioso aperto da Matteo Salvini con Mario Balotelli. Piccoli aneddoti a sottolineare la specularità fra l’incipiente regime populista italiano e il caotico regno di Trump. Non è un caso che i due governi si siano affiancati durante il G7 canadese.
Sarà bene abituarcisi. Salvini che già nel 2016 era volato a Philadelphia per procurarsi un selfie con Trump, ricalca con dovizia che rasenta il plagio il copione nazionalpopulista cui gli Americani si sono dovuti abituare durante l’ultimo anno e mezzo: il tafferuglio mediatico come istituzione di governo e la polemica come strumento di un potere predicato sul litigio permanente.
Il governo nazionalpopulista dipende dalla divisione istituzionalizzata per cui è necessario innescare quotidianamente lo scontro “culturale” all’interno del corpo sociale – la strategia delle culture wars perseguita dalla Alt-right americana per consolidare un consenso costruito sul livore permanente della base. Sulle due sponde dell’Atlantico non c’è modo migliore modo di fomentarlo che con gli attacchi ai più deboli ed inermi: minoranze, famiglie arcobaleno, profughi e rifugiati passibili di deportazioni, rimpatri o separazioni esemplari dai figli piccoli. “Gender” e immigrazione insidiano dopotutto entrambi l’ordine genetico costituito. Se è utile si rincari la dose con attacchi a stati sovrani: Messico o Tunisia possono ugualmente fare al caso.
La lezione americana è che l’autorizzazione dell’intolleranza da parte dei vertici politici esplicita assai rapidamente gli istinti peggiori della collettività (vedi Charlottesville, San Calogero e dintorni). La correlazione con la retorica prevalente e l’epidemia di raptus razzisti “spontanei” di cittadini sugli autobus, nei bar e per strada non è casuale. Come e più delle deregulation, riforme fiscali e attacchi al welfare, il nazionalpopulismo reintroduce l’egoismo hobbesiano come legittima dinamica sociale, una ribellione catartica alla “correttezza politica” che esenta dall’onere insopportabile della solidarietà e dell’empatia sommariamente archiviate come “buonismo”.
Le geremiadi anti élite di Trump, come l’insofferenza contro i “sapientoni di sinistra”, sono componenti identiche del populismo come lo è l’idea vendicativa di giustizia venata di meritocrazia e “darwinismo sociale”. Ora che può anche lui infine vantare un corsivo critico del New York Times, Salvini replica ‘tanti nemici tanto onore ‘– con lo stesso compiaciuto sdegno con cui Trump denuncia il complotto del “deep state” e delle fake news. Entrambi usano la false flag della lotta alla globalizzazione economica per sdoganare la lotta alla globalizzazione degli esseri umani sul pianeta: culturale, etnica – inevitabile.
Entrambi i paesi sono ora di fatto entrati in regime post-verità e post-dialettica – in quella politica postmoderna in cui il discorso è sistematicamente degradato, infarcito di proclami, spacconerie e minacce e dove gli advisor assumono ben presto le sembianze di Dennis Rodman o Rocco Casalino. Come la TV-reality da cui provengono questi personaggi, il governo nazionalpopulista esprime la pantomima sforzata della demagogia rivolta al “cervello rettile” degli elettori. Un teatro nondimeno della crudeltà, con vittime reali, che siano sotto le macerie in Siria, nei centri di detenzione, nei campi profughi o semplicemente i vicini di casa.
Se l’esperienza americana degli ultimi 18 mesi insegna qualcosa è l’inevitabile logorio che questo reality politico esercita sulla collettività e sulle istituzioni, la graduale, insidiosa normalizzazione del linguaggio nazionalpopulista. Dietro il turbinio intanto i danni sono tangibili e reali. L’attuale realtà americana coi suoi raid del servizio immigrazione, la chiusura di parchi nazionali, abrogazione della sanità pubblica, furti di bambini, regali fiscali all’oligarchia, smantellamento delle protezioni ad ambiente e minoranze è un triste pronostico per l’Italia. Di più: preannuncia l’inesorabile, generale incattivimento di una nazione ostaggio dei propri governanti.
Indica la strada triste della criminalizzazione della solidarietà e l’avvento dello scontro rabbioso come postura esistenziale. Come se questa fosse una condizione sostenibile di convivenza politica e non preludio invece ad un inevitabile futuro di guerra e sofferenza.

il manifesto 13.6.18
Primarie aperte, scegliamo il candidato presidente
Primavera europea. La lista transnazionale lanciata con il movimento europeo DiEM25, nasce come sforzo di unione tra le forze progressiste. Pensiamo si debba arrivare alle elezioni europee del 2019 con una visione chiara, un programma e un candidato comune alla Presidenza della Commissione
di Janis Varoufakis


Da un lato un governo a trazione leghista che abbandona 600 migranti in mare e propone una flat tax a vantaggio dei più ricchi. Dall’altro l’opposizione screditata di Pd e Forza Italia. Un governo cattivo, un’opposizione pessima.La tenaglia in cui si trova la politica italiana è rappresentativa della falsa scelta più generale che ci troviamo ad affrontare in tutta Europa: Macron e Orbán, Merkel e Salvini. Da un lato un establishment in bancarotta morale e finanziaria e dall’altro una marea crescente di nazionalismi xenofobi la cui crescita è causata proprio del fallimento delle élite continentali e delle politiche di austerità.
Contro entrambi, abbiamo urgente bisogno di una nuova proposta politica capace di rappresentare un punto di riferimento italiano ed europeo. “Primavera Europea”, la lista transnazionale che abbiamo lanciato con il movimento europeo DiEM25, nasce come sforzo di unione tra le forze progressiste europee che si prefiggono questo compito storico.
Crediamo che questa unione sia possibile ed efficace se centrata su azioni comuni e su un’agenda politica credibile, coerente e aperta al contributo di tutti. È per questo che abbiamo appena approvato la versione beta di un programma politico rivoluzionario che sarà presentato a tutti i cittadini europei e a tutti i partiti e movimenti interessati attraverso una fase di consultazione che si estenderà fino ad agosto. Frutto della collaborazione di importanti intellettuali mondiali e di oltre 3.000 contributi fatti arrivare da singoli cittadini, il programma presenta una serie di politiche concrete attuabili già domani – a Trattati europei vigenti – in grado di cambiare radicalmente volto all’Unione europea. Fra queste un piano di investimenti ecologici e di riconversione industriale del tenore di cinquecento miliardi di euro annui, un piano europeo anti-povertà, il rafforzamento dell’autonomia municipale, un dividendo universale di base – coperto attraverso la tassazione delle multinazionali – e un’innovativa politica migratoria comune.
Lo sappiamo, i Trattati europei attuali sono i principali nemici dell’Europa che abbiamo in mente. Anche per questo proponiamo una strategia di disobbedienza costruttiva che disattenda le regole più inique – così come i sindaci italiani stanno disobbedendo alla politica xenofoba di chiusura dei porti italiani. Ma oltre a entrare nel merito di come i Trattati debbano essere modificati e la disobbedienza organizzata – cosa essenziale – dobbiamo saper presentare proposte di rottura attuabili fin da subito. Perché la crisi sociale non aspetta i tempi di una revisione costituzionale. Una lezione, questa, che Renzi avrebbe fatto bene ad imparare.
Pensiamo si debba arrivare alle elezioni europee del 2019 con una visione chiara, un programma e un candidato comune alla Presidenza della Commissione europea. Per combinare apertura, unità e coerenza, abbiamo deciso di rinnovare il nostro appello a livello europeo e nazionale a tutte le forze di sinistra, ecologiste, ai movimenti sociali e a tutte le forze progressiste per creare una lista comune paneuropea sulla base di un’Agenda politica condivisa. Come parte del nostro rinnovato appello, proponiamo che l’Agenda comune e le figure da candidare alla Presidenza della Commissione Europea vengano scelte attraverso un processo aperto e democratico – delle vere e proprie primarie continentali.
Proponiamo di fare votare tutti gli iscritti di tutti i movimenti che parteciperanno e che questa votazione sia aperta anche a tutti i cittadini che vorranno unirsi attraverso un meccanismo semplice, capace di combinare la partecipazione alle assemblee territoriali alla partecipazione online. In caso di disaccordo su aspetti specifici dell’Agenda, proponiamo che tutte le forze politiche partecipanti accettino di risolverli rimettendo le decisioni al voto dei cittadini. Oggi, da Milano, in un grande evento serale allo spazio Macao, dalle ore 21 lanceremo pubblicamente queste proposte insieme a tanti protagonisti della politica europea e italiana.
Pensiamo sia il momento di fidarci del nostro popolo e rimettere la scelta nelle mani di un grande processo di partecipazione. Un processo aperto che ci impegniamo a portare avanti indipendentemente da quali delle forze politiche decideranno di rispondere positivamente.
Abbiamo il dovere storico di accendere un faro in questi tempi oscuri. È il momento di farlo, insieme. E di farlo con coerenza, fermezza e credibilità.

il manifesto 13.6.18
Nuovo assetto, ci guadagna la Cina
Pax asiatica. A Pechino serve un’Asia che non sia turbolenta per il suo sviluppo economico, per la Nuova via della Seta, per la vendita anche all’estero di robotica e prodotti legati all’intelligenza artificiale
di Simone Pieranni


Lo storico summit tra Kim e Trump a Singapore potrebbe regalare un periodo di tranquillità all’Asia. E se lo stato delle cose reggerà questo strambo equilibrio paventato, a uscire come vincitrice strategica della recente girandola diplomatica sarà la Cina.
Il presidente sudcoreano Moon Jae-in rimarrà nella storia come il vero artefice di questo straordinario avvicinamento tra Usa e Corea del Nord, ma al momento sembra essere Pechino a guadagnarci di più dal nuovo assetto che pare definirsi.
Al di là degli aspetti mediatici e di quelli legati al «documento» firmato in modo solenne da Trump e Kim, un insieme di punti troppo vaghi per essere presi sul serio, la vera notizia del meeting di Singapore è quella rivelata da Trump durante la sua conferenza stampa prima di lasciare Singapore.
Il presidente degli Stati uniti ha specificato che a fronte delle promesse di Kim di distruggere un non meglio identificato «grande» sito di test missilistici, da parte loro gli Usa si impegnano a non effettuare più esercitazioni congiunte con la Corea del Sud. Il presidente americano ha giustificato questa scelta argomentando che costano troppo. Ma la rivelazione è potente: restano le sanzioni, restano le basi, a quanto detto, ma saltano le esercitazioni. Si va dunque verso la situazione ideale per Pechino: una Corea del Nord bloccata nella sua escandescenza e nel suo mettere a repentaglio in continuazione la pace nella regione e una Corea del Sud che – pur avendo le basi americane sul proprio territorio – comincia ad allontanarsi militarmente da Washington.
Ma la ragione della gioia di Xi Jinping di fronte a questo scenario, non risiede solo nelle strategie militari. La Cina sta rafforzando il proprio esercito, specie la marina, sta andando verso un corpo militare iper specializzato e composto da squadre d’élite, ma sa bene che la distanza dagli Usa in quel campo è ancora eccessiva.
Ma non è quello il punto che interessa a Pechino. Alla Cina ora come ora servono condizioni ideali per il suo sviluppo economico, per la Nuova via della Seta, per la vendita anche all’estero di robotica e prodotti legati all’intelligenza artificiale. Serve un’Asia che non sia turbolenta.
Con Seul i problemi ci sono da molto tempo, ci sono stati boicottaggi commerciali, perfino delle pop star sudcoreane, i rapporti tra i due paesi sono stati a lungo più che tesi. Con l’avvento di Moon e la sua politica di apertura anche nei confronti di Pechino, il clima è cambiato.
La Cina ha cominciato a riavviare rapporti commerciali e la Corea del Sud potrebbe fornire vantaggi non da poco alle aziende cinesi e agli scopi di Xi nella regione. Tanto più adesso che il Vietnam torna a contestare la presenza e l’influenza cinese sul proprio territorio – con il Giappone che «orfano» di un alleato forte come gli Usa sta espandendo il suo interesse proprio lì, come la Russia – la Cina ha bisogno di Seul.
La novità annunciata da Trump – dunque- potenzialmente rafforza la Cina in una regione i cui equilibri sono in via di ridefinizione.
E poi c’è la Corea del Nord. Con il regime di Kim al sicuro e militarmente tranquillo, il territorio sopra il trentottesimo parallelo diventa interessante. Per Seul, ovviamente. Per Pechino, per mille motivi. Ma anche per la Russia e per il Giappone.
Mosca si è già detta pronta a contribuire in infrastrutture: Lavrov, non a caso, pochi giorni fa era a Pyongyang. Il Giappone ha detto che se Kim restituirà i giapponesi rapiti è pronta a cooperare per una rinascita economica del paese.
La «pace» quindi potrebbe aprirebbe una nuova fase nella regione asiatica.

il manifesto 13.6.18
La via cinese al mondo contemporaneo
Saggi. «Il socialismo prospero» di Fabio Massimo Parenti, edito da Nova Europa
Sun Jiaxin, Skin change
di Mauro Trotta


La Cina è vicina, recitava il titolo di un film di circa mezzo secolo fa, nell’epoca in cui i libretti rossi sventolavano in tutte le piazze d’Europa mentre risuonavano slogan inneggianti al presidente
Mao. Eppure la Cina, forse, non è mai stata così vicina come negli ultimi decenni. Una vicinanza che si esprime nel commercio, nell’economia, nella geopolitica. Una vicinanza che spesso si accompagna a critiche, diffidenze, polemiche da parte occidentale. In tale contesto si situa l’ultimo libro di Fabio Massimo Parenti, intitolato Il socialismo prospero. Saggi sulla via cinese (Nova Europa, pp. 259, euro 18). Si tratta di una raccolta di testi dedicati alla complessa realtà del paese asiatico.
IL LIBRO È STRUTTURATO in cinque sezioni, dedicate rispettivamente a Il modello cinese, La geopolitica della Cina, La questione tibetana, La Cina e i vertici internazionali e La Cina nella finanza globale (quest’ultima sezione è composta solo da un saggio di Ann Lee, già uscito all’interno del precedente libro curato da Parenti, intitolato Geofinanza e geopolitica e recensito su il manifesto del 20 aprile 2017). Completano il volume il testo del discorso tenuto dal presidente cinese Xi Jinping al World Economic Forum di Davos il 17 gennaio 2017, una presentazione dell’ambasciatore cinese in Italia e una prefazione a Domenico Losurdo a cui è dedicata anche un’intervista nelle Appendici.
IL LIBRO È DI PARTE. Pur offrendo dati e approfondimenti interessanti, la posizione espressa dagli autori coincide, in pratica, con quella della dirigenza cinese sulle varie questioni affrontate. Le critiche sono riservate alla politica e soprattutto alla stampa occidentale che non sembra essere in grado di comprendere a fondo le posizioni della Repubblica popolare cinese. Non manca, da parte di Losurdo, anche una frecciata in proposito al manifesto definito comunque «un quotidiano pur indispensabile».
L’APPROCCIO prevalente nell’affrontare i vari argomenti è quello geoeconomico-politico e largo spazio è dedicato alla cosiddetta «nuova Via della Seta», progetto portato avanti negli ultimi tempi con grande determinazione e che nell’ottica cinese avrebbe non solo importanti ricadute economiche per i paesi coinvolti, ma anche effetti positivi e benefici sulle relazioni internazionali.
Così come si insiste molto sul carattere socialista della Cina, rifiutando ogni interpretazione volta ad affermare l’emergere di un neoliberismo in salsa cinese e propugnando, invece, la continuità marxiana del processo portato avanti fin dalla Lunga marcia. Un processo integrato dalla tradizione confuciana, ma che ha sempre mantenuto intatti i caratteri fondamentali del socialismo inteso non come astratta teoria da imporre sulla realtà ma come pratica che nasce dall’analisi della situazione reale.

Il Sole 13.6.18
Storico incontro tra Kim e Trump ma il vero vincitore è il cinese Xi
di Stefano Carrer

Il primo vertice tra un presidente americano in carica e un leader nordcoreano - storico e spettacolare dal punto di vista mediatico - si chiude con grandi dichiarazioni di intenti, ma senza indicazioni (demandate a trattative future) sui passi da compiere e sulla tabella di marcia verso la soluzione del più grave problema politico-diplomatico-militare che grava sull’Asia orientale: se Donald Trump canta vittoria, molti analisti sottolineano che ha concesso molto e che il vero vincitore è Kim Jong-un (e la Cina). Trump si è impegnato a «fornire garanzie di sicurezza» alla Corea del Nord e ha sospeso le manovre militari congiunte con i sudcoreani, mentre Kim ha «riaffermato il suo fermo e risoluto impegno a una completa denuclearizzazione della penisola coreana».
Promesse speculari e imprecisate che rappresentano il fulcro del comunicato congiunto firmato dai due leader, dopo 40 minuti di faccia a faccia (alla presenza dei soli interpreti) e qualche ora di negoziati assieme ai collaboratori. Nella successiva conferenza stampa, The Donald a sorpresa ha annunciato la sospensione delle esercitazioni militari congiunte tra forze armate americane e sudcoreane - definendole costosissime e anche «molto provocatorie» - e ha fatto intendere il suo desiderio di sganciare in futuro i 32mila militari statunitensi dalla penisola. Musica per le orecchie cinesi: da anni Pechino ha sempre sostenuto la proposta di «freeze for freeze», ossia un congelamento parallelo sia dei test militari nordcoreani (già promesso da Pyongyang qualche mese fa) sia delle manovre militari congiunte non distante dai propri confini. Soluzione sempre respinta, finora, da Washington e da Seul. Tra i massimi obiettivi geostrategici cinesi, inoltre, è il ritorno a casa loro dei soldati americani di stanza in Corea.
Il governo giapponese ha ieri fatto buon viso a cattivo gioco, ma dietro le quinte trapelano forti preoccupazioni per quello che è interpretabile come il principio di un possibile allentamento dell’impegno americano per la sicurezza regionale. Inoltre nel comunicato non si fa menzione di missili (Tokyo avrebbe desiderato l’inclusione anche di quelli a medio raggio in un negoziato), né di una denuclearizzazione «irreversibile» e «verificabile» oltre che completa. Lo stesso concetto di denuclearizzazione non viene precisato: si sa che Pyongyang l’ha sempre interpretato non come disarmo unilaterale, ma semmai come eliminazione dell’ombrello nucleare americano su Seul e Tokyo. È esattamente il rischio che un acuto osservatore giapponese come Yoichi Funabashi (oggi presidente dell’Asia-Pacific Initiative) paventa: un vertice che certifica una pericolosa ambiguità sulla denuclearizzazione e finisce per riconoscere di fatto alla Corea del Nord uno status di potenza nucleare a tempo indeterminato. Decine di osservatori veterani hanno criticato Trump accusandolo di aver fatto concessioni senza concrete contropartite, al di là della stessa accettazione di un summit che legittima e rafforza il dittatore all’interno e all’estero (Trump l’ha coperto ieri di elogi). Se pure il presidente ha affermato che per ora le sanzioni restano in vigore (fino a che il problema nucleare sarà un fattore), diventerà difficile respingere le richieste che arriveranno da Pyongyang dopo qualche nuova iniziativa, come l’eliminazione di un sito per test di motori per missili preannunciata ieri da Trump. La Cina ha già chiesto che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu consideri un allentamento delle penalità internazionali su Pyongyang.
Trump ha respinto ogni rilievo, definendo il summit come un momento molto importante nella storia del mondo e biasimando «odiatori e perdenti». A suo dire anche i prigionieri nei gulag nordcoreani trarranno benefici da un vertice in cui si è impegnato a dare assicurazioni di sopravvivenza al regime di Kim: il «matto» e «Little Rocket Man» dell’anno scorso è diventato il «talented man» che è un «onore» incontrare, tutto da ammirare per come, tanto giovane, abbia saputo prendere in mano le redini del suo Paese. Il leader nordcoreano, dopo 12 secondi di stretta di mano sullo sfondo di una selva di bandiere delle due nazioni, si è permesso una battura che entrerà nella storia, dicendo a Trump che molti penseranno alla scena del loro incontro come uscita «da un film di fantascienza». Probabilmente ricordava un film nordcoreano del 2012 in cui il presidente Clinton andava a Pyongyang dopo il successo del programma nucleare del regime. Una fiction che potrebbe anticipare la realtà: Trump ha già detto che inviterà Kim alla Casa Bianca «in tempi appropriati» e non è più fuori dalla realtà un suo futuro viaggio nella capitale nordcoreana.

il manifesto 13.6.18
Dopo Singapore, nel mirino di Trump c’è l’Iran
Washington/Tehran. Chiuso per ora il dossier nordcoreano, adesso l'Amministrazione Usa può dirigere tutta la sua aggressività in politica estera contro l'Iran, con il pieno sostegno di Israele e Arabia saudita.
Il presidente ira
di Michele Giorgio


Non fidarti, Trump ti tradirà come ha tradito noi. L’Iran, ferito dal ritiro degli Stati ‎uniti dall’accordo internazionale sul suo programma nucleare (Jcpoa) e di nuovo ‎bersaglio di pesanti sanzioni americane, ha provato per due giorni a mettere in ‎guardia Kim Jong Un. Lunedì era stato Bahram Qassemi, portavoce del ministero ‎degli esteri di Tehran, ad invitare la Corea del nord a ‎‎«stare molto attenta‎». Ieri è ‎stata la volta del portavoce del governo di Teheran, Mohammad Baqer ‎Nobakht. ‎«Siamo davanti a una persona (Trump) che, anche su un aereo, fa marcia ‎indietro rispetto alla sua stessa firma. Non so con chi stia negoziando il leader ‎nordcoreano. Ma questa persona non è un buon rappresentante per gli Stati Uniti‎», ‎ha avvertito Nobakht riferendosi al passo indietro americano dall’accordo firmato ‎nel 2015 dai cinque membri con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ‎‎(più la Germania), con il pieno appoggio del precedente presidente americano ‎Barack Obama. A Tehran la preoccupazione è che, chiuso per il momento il dossier ‎nordcoreano, l’Amministrazione Trump concentri ora tutta la sua aggressività in ‎politica estera sul “nemico” iraniano, sotto la spinta anche delle pressioni del ‎governo israeliano. Con il rischio concreto che lo scontro diplomatico ed ‎economico si trasformi presto o tardi in un conflitto militare.‎
 I timori degli iraniani sono ben fondati, d’altronde le parole di Trump non ‎lasciano dubbi. ‎«Spero che al momento giusto, dopo le sanzioni che sono davvero ‎brutali, l’Iran torni a sedere al tavolo dei negoziati; ora è troppo presto», ha detto il ‎presidente Usa dopo il summit di Singapore. I negoziati che ha in mente l’inquilino ‎della Casa Bianca hanno un unico obiettivo: riscrivere il contenuto del Jcpoa del ‎‎2015, per inserirvi forti restrizioni non solo alle attività nucleari ma anche allo ‎sviluppo di missili balistici da parte degli iraniani in modo da ridurre le capacità ‎difensive ed offensive di Tehran, a vantaggio di Israele che, forte anche del possesso ‎‎(segreto) di armi nucleari, rafforzerebbe ulteriormente la sua supremazia strategica ‎nella regione mediorientale. ‎«C’è un’amministrazione diversa, c’è un presidente ‎diverso, un Segretario di stato diverso…Per loro non era una priorità, per noi lo è‎», ‎ha detto Trump marcando la differenza in politica estera con l’Amministrazione ‎Obama.‎
 La difesa europea del Jcpoa è un muro di argilla. Tehran lo sa e non si accontenta ‎delle rassicurazioni dell’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica ‎Mogherini, che pure si è esposta a sostegno delle intese con l’Iran. Dietro le quinte ‎alcuni leader europei, a cominciare dal francese Macron, discutono di una revisione ‎dell’accordo in modo da accontentare almeno in parte Washington e Tel Aviv, ‎nonostante l’Iran abbia più volte ribadito che le intese del 2015 non si toccano. ‎
 Riferendosi all’Iran, ieri il ministro della difesa israeliano Lieberman ha detto di ‎augurarsi che l’accordo tra Trump e il leader nordcoreano ‎«possa essere un buon ‎esempio per altre nazioni e popoli‎». Per Israele quell’intesa avrà riflessi immediati ‎sulla linea dell’Amministrazione nei confronti dell’Iran, tenendo conto anche del ‎ruolo che giocheranno sostenitori del pugno di ferro come il Segretario di stato ‎Mike Pompeo e il Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Si ‎indebolisce di pari passo la posizione del presidente iraniano Rohani, il maggior ‎sostenitore in patria del Jcpoa. I conservatori sostengono più che mai che ‎‎”negoziare” con l’Occidente sia stato un errore che l’Iran debba riprendere con il ‎massimo della forza il programma nucleare e lo sviluppo dei missili. Keyhan, ‎principale quotidiano oppositore della linea di Rohani, ieri un editoriale esortava a ‎fare come la Corea del nord che non è scesa a patti ma ha sviluppato la bomba ‎nucleare e i missili a lungo raggio ottenendo un riconoscimento di fatto da Donald ‎Trump, a differenza dell’Iran che pur avendo firmato un accordo deve fare i conti ‎con minacce degli Usa, di Arabia Saudita e Israele. A conti fatti, dice Keyhan, usare ‎‎”le buone” con l’Occidente è controproducente mentre con “le cattive” si ‎raggiungono risultati concreti.‎

La Stampa 13.6.18
Pechino ora ha paura di restare ai margini
“Bisogna rivedere le sanzioni americane”
di Carlo Pizzati


E’ un summit senza perdenti, quello di Singapore. Vince Trump, vince Kim, ma vincono anche Cina, Corea del Sud e Giappone. Tutti contenti. Confusi e felici.
Soddisfatto il ministro degli Esteri cinese, il potente e azzimato Wang Yi, che si congratula pubblicamente, ma ricorda il ruolo cinese nello spingere colui che fino a poco fa veniva chiamato “Little Rocket-Man” dall’inquilino della Casa Bianca, ad arrivare al tavolo della trattativa. «Speriamo che i due leader realizzino davvero questo accordo. Si deve senz’altro trovare un meccanismo di sicurezza per la penisola coreana. E nessuno dunque può mettere in dubbio il ruolo svolto dalla Cina per arrivare fino a questo punto - ha dichiarato il capo della diplomazia di Pechino -. Oggi, il fatto che i leader di questi due paesi possano sedersi uno accanto all’altro a chiacchierare da uguali ha un significato importante e positivo che sta creando una nuova storia. E la Cina sostiene questo nuovo corso storico perché è esattamente ciò a cui abbiamo lavorato a lungo». Come dire: le cose sono andate come volevamo noi e grazie a noi.
«Ci auguriamo che Trump e Kim superino difficoltà e interferenze», ha fatto notare Wang Yi ricordando che la partita non è chiusa «e che trovino un consenso sulla denuclearizzazione della Corea del Sud».
Le risoluzioni dell’Onu
Parole importanti, precedute da quelle del suo portavoce, Geng Shuang, che ha chiarito il ruolo della Cina nell’ambito del rispetto delle risoluzioni Onu. «Le sanzioni possono essere riviste, sospese o anche rimosse» ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese. «La Cina ha insistentemente spiegato che le sanzioni non sono un obiettivo in sé. Le azioni del Consiglio di Sicurezza devono essere mirate al dialogo diplomatico per denuclearizzare la penisola coreana». Ovvero: ora che la pace è fatta, togliamo le sanzioni e iniziamo il business.
Insomma, la Cina vuol ricordare al mondo che se c’è stato un summit, è grazie al lavoro calmo e lungimirante di Pechino. Ma, dopotutto, chi è più avvantaggiato dalla pace in Corea del Nord, a parte i suoi cittadini affamati?
Ovviamente la Corea del Sud, il cui presidente Moon Jae-in si è detto felice del «coraggio e la determinazione dei due leader» al summit. Più perplessi i suoi generali, che alla dichiarazione di Trump sulla fine delle esercitazioni militari con la Corea del Sud hanno reagito dicendo: «Dobbiamo capire il significato esatto o le intenzioni dietro ai commenti».
Avvantaggiato anche il Giappone, stanco di vedersi volare sopra la testa i missili di Kim. Difatti il premier Shinzo Abe, congratulandosi, si è detto pronto a risolvere bilateralmente il tema dei rapimenti di cittadini giapponesi da parte di spie nordcoreane durante la Guerra Fredda.
Il commercio estero
Ma ad avere più vantaggi economici dalla pace sarà, da subito, di nuovo la Cina. A parte recenti lievi dissapori, la Cina resta l’alleato più antico e saprà trarre vantaggio dall’accordo visto che rappresenta il 90 per cento del commercio estero nord coreano, e che ha sventato il rischio di una costosa accoglienza per migliaia di profughi nord coreani in caso ci fosse stato uno scontro nucleare.
«Stabilità tramite la prosperità», sono queste le parole d’ordine di Pechino. Naturalmente senza democrazia, concetto sempre più fuori moda nel mondo, di questi tempi.
E chi è previsto otterrà i più lucrativi appalti per costruire la nuova, moderna e non democratica Corea del Nord, con i soldi americani? Con tutta probabilità toccherà sempre al grande vicino cinese, con le sue aziende, il suo potere economico, le sue autostrade pronte a portare materiali e competenze per ricostruire un paese che molti descrivono come il set posticcio e decadente di un Truman Show che ha fatto il suo tempo.

il manifesto 13.6.18
Uno spartiacque nel potere costituito
Edgar Morin. «Maggio 68. La Breccia», del filosofo francese per Raffaello Cortina
di Alessandro Santagata


Come era prevedibile, la ricorrenza del cinquantenario del Sessantotto ha già riempito gli scaffali delle librerie. Molta memorialistica, numerose ristampe, nuove edizioni; e qualche studio originale. È ancora presto per tirare le somme, ma risulta già evidente la riproposizione di schemi interpretativi ormai consolidati e spesso figli delle polemiche che hanno scandito gli ultimi decennali. La memoria del Sessantotto rimane un campo aperto e conflittuale, sebbene depotenziato dalla crisi complessiva che ha investito l’eredità dei long sixties a tutti i livelli.
IN UN BEL LIBRO del 2008 (Le Moment 68, Seuil) la storica Michelle Zancarini-Fournel ha illustrato i passaggi di questa «storia contestata», mettendo in luce la parabola del Sessantotto nella memoria pubblica francese: dalla «vittoria culturale» della generazione delle barricate alla demonizzazione, che ha assunto le sembianze di un processo ai soixante-huitards. Si inseriscono nella primissima stagione, quella delle razioni «a caldo», i due articoli di analisi pubblicati da Edgar Morin su Le Monde tra maggio e giugno 1968 e successivamente raccolti nel volume collettaneo Mai 68. La Brèche, nel quale comparivano anche contributi di Cornelius Castoriadis e Claude Lefort.
Morin sarebbe tornato a scrivere del Sessantotto in occasione del primo decennale e nuovamente nel 1986 sulla rivista Pouvoirs. Entrambi i testi sono stati integrati nelle successive edizioni e ora tradotti in italiano da Raffaello Cortina Editore: Maggio 68. La Breccia, a cura di Francesco Bellusci (pp. 124, euro 11).
Nella prefazione, datata gennaio 2018, Morin ricorda i mesi trascorsi a Nanterre – dove era stato chiamato a sostituire per un breve periodo Henri Lefebvre –, le visite a Jussieu, alla Sorbona, nel cuore della protesta parigina. «Diversamente dai trotzkisti, dai maoisti, ecc, che pensavano che stesse per cominciare una rivoluzione – commenta – noi pensavamo che si trattasse di una breccia. Qualcosa che stava per affermarsi come una breccia al di sotto della linea di galleggiamento della civiltà borghese occidentale».
LA TESI DI FONDO, rimasta invariata nel tempo, è che l’anima del movimento fosse, in sostanza, «sovra e infra-politica». Il taglio interpretativo generazionale – l’idea di una «lutte de classe d’âge» di carattere internazionale – sarebbe stato avvalorato dagli eventi degli anni Settanta, quando «l’ideologia che è stata sovraimpressa sul maggio ’68 si è dissolta» sotto i colpi dei nouveaux philosophes, della debolezza del comunismo globale, degli effetti della crisi economica e delle sue conseguenze politiche. Del Sessantotto si sarebbe conservato invece il suo spirito, a tal punto da considerarlo una vera e propria svolta antropologica, una «liberazione dei costumi» rimasta viva nel nuovo femminismo.
MORIN RIGETTA quindi la tesi del ’68 come puro e semplice adattamento alla modernizzazione neocapitalistica. Leggendo i testi nella loro successione storica è possibile rintracciare alcune oscillazioni nell’analisi e ricostruire le tappe della sua evoluzione. Nei primi due articoli, infatti, sembra prevalere l’esigenza polemica nei confronti di due modelli interpretativi: quello di Raymond Aron e di parte dell’establishment, che riduce la protesta a un problema di anacronismo della struttura universitaria, e quella dei «gruppuscoli» dell’estrema sinistra. Per Morin, il ’68 sarebbe nato invece da un’elettrolisi, a partire da due poli estremi: da una parte sì l’inadeguatezza dell’università rispetto alla pressione demografica, ma dall’altra il rifiuto degli studenti verso un sistema modellato sulle carriere tecnico-burocratiche.
Il filosofo-osservatore descrive la lotta sulle barricate come un «gioco», anche se ad altro rischio, che avrebbe permesso a una generazione di compiere un ingresso alternativo nella società adulta. I gruppi rivoluzionari non rappresentano per lui che un’eccedenza, un di più, ma strategico perché permette la fraternizzazione tra studenti e operai, iscrivendo così il movimento nell’asse rivoluzionario della storia francese. L’apporto dell’estrema sinistra diventa invece negativo nella fase discendente del movimento, cioè quando «le parole “rivoluzione” e “classe operaia” ridiventano parole mana» e la crisi viene (rapidamente) riassorbita dal potere.
NEL SAGGIO del Settantotto Morin ha approfondito il nodo dell’eredità di quel gauchisme che ha frantumato definitivamente il modello del maschio bianco, adulto e borghese. A suo giudizio, gli anni Settanti hanno visto l’emergere di una «dialettica progressiva-regressiva della cultura di sinistra»: avanzamento sul piano dei diritti, ma crisi della coscienza di classe. Come arriverà a scrivere nel 1986, il ’68 sarebbe stato dunque il primo stadio di una rottura che si è manifestata definitivamente solamente tra il 1973 e il 1978. Sia chiaro che Morin rigetta la tesi di chi imputa al Maggio di essere la matrice dell’«individualismo edonistico» dell’età neoliberale; una interpretazione, quest’ultima, diventata mainstream negli ultimi vent’anni. Rimane aperto ancora oggi invece il problema del rapporto tra protesta e modernizzazione. Come risulta anche dalla storiografia più recente, è evidente che il Sessantotto non è riducibile solamente al gauchisme e che il rapporto con la trasformazione sia stato complesso e contraddittorio. Nello stesso tempo, però, è ormai chiaro che la scissione tra la natura politica e quella socio-culturale del Sessantotto è stata funzionale a chi intendeva spezzare il legame tra la protesta e la storia del movimento operaio, operando così una forzatura interpretativa e, soprattutto, politica.

il manifesto 13.6.18
Uno spartiacque nel potere costituito
Edgar Morin. «Maggio 68. La Breccia», del filosofo francese per Raffaello Cortina
di Alessandro Santagata


Come era prevedibile, la ricorrenza del cinquantenario del Sessantotto ha già riempito gli scaffali delle librerie. Molta memorialistica, numerose ristampe, nuove edizioni; e qualche studio originale. È ancora presto per tirare le somme, ma risulta già evidente la riproposizione di schemi interpretativi ormai consolidati e spesso figli delle polemiche che hanno scandito gli ultimi decennali. La memoria del Sessantotto rimane un campo aperto e conflittuale, sebbene depotenziato dalla crisi complessiva che ha investito l’eredità dei long sixties a tutti i livelli.
IN UN BEL LIBRO del 2008 (Le Moment 68, Seuil) la storica Michelle Zancarini-Fournel ha illustrato i passaggi di questa «storia contestata», mettendo in luce la parabola del Sessantotto nella memoria pubblica francese: dalla «vittoria culturale» della generazione delle barricate alla demonizzazione, che ha assunto le sembianze di un processo ai soixante-huitards. Si inseriscono nella primissima stagione, quella delle razioni «a caldo», i due articoli di analisi pubblicati da Edgar Morin su Le Monde tra maggio e giugno 1968 e successivamente raccolti nel volume collettaneo Mai 68. La Brèche, nel quale comparivano anche contributi di Cornelius Castoriadis e Claude Lefort.
Morin sarebbe tornato a scrivere del Sessantotto in occasione del primo decennale e nuovamente nel 1986 sulla rivista Pouvoirs. Entrambi i testi sono stati integrati nelle successive edizioni e ora tradotti in italiano da Raffaello Cortina Editore: Maggio 68. La Breccia, a cura di Francesco Bellusci (pp. 124, euro 11).
Nella prefazione, datata gennaio 2018, Morin ricorda i mesi trascorsi a Nanterre – dove era stato chiamato a sostituire per un breve periodo Henri Lefebvre –, le visite a Jussieu, alla Sorbona, nel cuore della protesta parigina. «Diversamente dai trotzkisti, dai maoisti, ecc, che pensavano che stesse per cominciare una rivoluzione – commenta – noi pensavamo che si trattasse di una breccia. Qualcosa che stava per affermarsi come una breccia al di sotto della linea di galleggiamento della civiltà borghese occidentale».
LA TESI DI FONDO, rimasta invariata nel tempo, è che l’anima del movimento fosse, in sostanza, «sovra e infra-politica». Il taglio interpretativo generazionale – l’idea di una «lutte de classe d’âge» di carattere internazionale – sarebbe stato avvalorato dagli eventi degli anni Settanta, quando «l’ideologia che è stata sovraimpressa sul maggio ’68 si è dissolta» sotto i colpi dei nouveaux philosophes, della debolezza del comunismo globale, degli effetti della crisi economica e delle sue conseguenze politiche. Del Sessantotto si sarebbe conservato invece il suo spirito, a tal punto da considerarlo una vera e propria svolta antropologica, una «liberazione dei costumi» rimasta viva nel nuovo femminismo.
MORIN RIGETTA quindi la tesi del ’68 come puro e semplice adattamento alla modernizzazione neocapitalistica. Leggendo i testi nella loro successione storica è possibile rintracciare alcune oscillazioni nell’analisi e ricostruire le tappe della sua evoluzione. Nei primi due articoli, infatti, sembra prevalere l’esigenza polemica nei confronti di due modelli interpretativi: quello di Raymond Aron e di parte dell’establishment, che riduce la protesta a un problema di anacronismo della struttura universitaria, e quella dei «gruppuscoli» dell’estrema sinistra. Per Morin, il ’68 sarebbe nato invece da un’elettrolisi, a partire da due poli estremi: da una parte sì l’inadeguatezza dell’università rispetto alla pressione demografica, ma dall’altra il rifiuto degli studenti verso un sistema modellato sulle carriere tecnico-burocratiche.
Il filosofo-osservatore descrive la lotta sulle barricate come un «gioco», anche se ad altro rischio, che avrebbe permesso a una generazione di compiere un ingresso alternativo nella società adulta. I gruppi rivoluzionari non rappresentano per lui che un’eccedenza, un di più, ma strategico perché permette la fraternizzazione tra studenti e operai, iscrivendo così il movimento nell’asse rivoluzionario della storia francese. L’apporto dell’estrema sinistra diventa invece negativo nella fase discendente del movimento, cioè quando «le parole “rivoluzione” e “classe operaia” ridiventano parole mana» e la crisi viene (rapidamente) riassorbita dal potere.
NEL SAGGIO del Settantotto Morin ha approfondito il nodo dell’eredità di quel gauchisme che ha frantumato definitivamente il modello del maschio bianco, adulto e borghese. A suo giudizio, gli anni Settanti hanno visto l’emergere di una «dialettica progressiva-regressiva della cultura di sinistra»: avanzamento sul piano dei diritti, ma crisi della coscienza di classe. Come arriverà a scrivere nel 1986, il ’68 sarebbe stato dunque il primo stadio di una rottura che si è manifestata definitivamente solamente tra il 1973 e il 1978. Sia chiaro che Morin rigetta la tesi di chi imputa al Maggio di essere la matrice dell’«individualismo edonistico» dell’età neoliberale; una interpretazione, quest’ultima, diventata mainstream negli ultimi vent’anni. Rimane aperto ancora oggi invece il problema del rapporto tra protesta e modernizzazione. Come risulta anche dalla storiografia più recente, è evidente che il Sessantotto non è riducibile solamente al gauchisme e che il rapporto con la trasformazione sia stato complesso e contraddittorio. Nello stesso tempo, però, è ormai chiaro che la scissione tra la natura politica e quella socio-culturale del Sessantotto è stata funzionale a chi intendeva spezzare il legame tra la protesta e la storia del movimento operaio, operando così una forzatura interpretativa e, soprattutto, politica.

Corriere 13.6.18
Il debutto di «Conversazione su Tiresia»
Camilleri: di nuovo in scena perché voglio capire l’eternità
di Emilia Costantini


Siracusa Al centro del palcoscenico una poltroncina, una piantana illuminata, un tavolino. Intorno, massi di pietra su cui sono poggiati una vecchia macchina da scrivere, una valigia che trabocca libri, bauli che sembrano contenere un sapere antico. Emerge il suono di un flauto, poi un’allegra masnada di scugnizzi invade la ribalta improvvisando una danza siciliana. Infine entra lui, Tiresia, Andrea Camilleri: coppola in testa e occhiali scuri, tenuto per mano da un giovinetto.
Il Teatro greco di Siracusa, l’altra sera, era gremito fino agli ultimi spalti, per assistere al ritorno in palcoscenico da attore, a settant’anni dal suo primo debutto, dello scrittore siciliano. «Chiamatemi Tiresia, oppure, “Tiresia sono”, per dirla alla maniera di qualcun altro», esordisce Camilleri, e scroscia l’applauso degli spettatori, tra i quali siede anche la sua amata creatura Montalbano-Luca Zingaretti.
Accomodato in poltrona, e seduto per terra accanto a lui il giovinetto, il «vecchio saggio» inizia il racconto di un’ora e mezza, un flusso di peripezie letterarie che ricostruisce attraverso i secoli la storia del celebre indovino. «Qualcuno di voi avrà visto il mio personaggio su questo palco negli anni trascorsi, ma si trattava di attori che mi interpretavano. Oggi sono qui di persona, per mettere un punto fermo nella mia trasposizione da persona a personaggio». L’uomo Camilleri, cieco ma con un’invidiabile memoria di ferro, si identifica con il cieco Tiresia. Si parte dalla nascita a Tebe, poi la prima trasformazione da maschio a femmina per colpa del vendicativo Zeus: «Diventare donna non significa solo perdere gli attributi maschili, ma anche ricevere un cervello affollatissimo. Un inferno!». Si prosegue attraverso le infinite interpretazioni del personaggio mitologico da parte di poeti, storici, filosofi drammaturghi: da Esiodo a Sofocle, da Omero a Dante, Apollinaire, Pasolini, Pound, Primo Levi...
Non mancano siparietti sull’attualità: «Distinguere tra maschio e femmina? È come riuscire a distinguere oggi in Italia un politico di sinistra da uno di destra». Cieco, preveggente e condannato a vivere: una disgrazia. Ma aggiunge: «Da quando non vedo più, vedo con più chiarezza». Nel saluto finale spiega: «A settembre compio 93 anni. Ho scritto più di cento libri, un mio personaggio percorre il mondo. Poteva bastarmi? No. Voglio capire cosa sia l’eternità che ormai sento vicina e solo venendo tra queste pietre eterne posso intuirla. Forse ci rivediamo qui tra cent’anni».

il manifesto 13.6.18
I sette remi e le stelle dei naviganti
Arte pubblica. A Piazza Copernico, nel quartiere Pigneto di Roma, fino al prossimo 30 giugno si può vedere il Monumento di Davide Dormino, un invito a superare i muri e le barriere e un omaggio ai migranti
di Nicolas Martino


Che l’Europa, per esistere come spazio politico, debba reinventarsi è un assunto difficilmente contestabile, se non a partire da un’idea mortifera che l’ha condannata a essere un territorio sempre più diviso e povero, assediato e strangolato dalle politiche monetarie delle banche internazionali. Che questa reinvenzione debba passare attraverso uno sforzo di grande immaginazione, estetica e politica, è altrettanto evidente. E qui l’opera d’arte può giocare un ruolo sociale decisivo, al di là dello stesso sistema dell’arte.
ATTRAVERSANDO con attenzione le piazze delle nostre città ci accorgeremo che queste sono zeppe di monumenti ai caduti e ai patrioti, orribili sepolcri sacrificali che celebrano le politiche di morte promosse dal capitale «nazionale» e dalle sue guerre gestite dalle classi dirigenti, ovvero dal «lavoro intellettuale» contro il «lavoro manuale», dal «lavoro morto» contro il «lavoro vivo». Che i partiti socialisti abbiano votato i crediti di guerra durante il primo conflitto mondiale continua a essere una macchia vergognosa che testimonia tutta la psicopatologia tragica del secolo passato. Ecco, quelle opere sarebbe bene abbatterle una per una e sostituirle con dei monumenti all’immaginazione e alla forza creativa.
E QUESTO FA DAVIDE DORMINO con il suo ultimo lavoro intitolato Naviganti – Monumento all’immaginazione, installato a Piazza Copernico, nel quartiere Pigneto di Roma, fino al prossimo 30 giugno. Sette grandi remi sono poggiati su un muro e si levano verso il cielo, ossia verso l’azzurro infinito del mare, dalla murata di una nave che fende le acque. Un’opera che capovolge la realtà visiva, come quella sociale, dove il diritto di fuga e la libertà di movimento vengono negati dall’innalzamento continuo di muri e reti, confini fisici e immateriali, che trattengono i corpi e le menti di chi vuole attraversare liberamente l’Europa, e di chi, dall’altra parte e al contrario, pensa di farne un baluardo identitario e sovrano da difendere con le politiche della paura.
SETTE REMI, come sette sono le stelle dei naviganti, e sette le virtù e i peccati, un numero «magico» per eccellenza, dove la magia altro non è che riattivazione dell’immaginazione critica contro il finto realismo che nega quel «possibile» che solo non ci fa soffocare. Tutto è possibile, afferma invece quest’opera, che attraversa quella potenza che da Frankenhausen arriva fino a Non una di meno e ai movimenti migranti, passando per il Maggio parigino e il ’77 italiano. Tutto, e quindi anche disertare, come ci invita a fare sempre Dormino in una plaquette ispirata alla famosa canzone antimilitarista di Boris Vian, appena pubblicata da Vacuum Editions–Edizioni Sottovuoto, e stampata dall’Opificio della Rosa in 100 copie numerate.
DISERTARE LE POLITICHE securitarie e le ossessioni identitarie che vanno a braccetto con le tanatopolitiche neoliberiste, ma disertare anche da sé stessi e dalla malsana e disgraziata idea di autenticità attorno alla quale tanto insisteva il nazi della Foresta Nera. Disertare dai ruoli, come già fece negli anni ’70 quella forza lavoro giovanile che fuggì dalle fabbriche e come fecero gli operai americani che a metà ’800 scelsero la frontiera e una nuova vita. Infine, ci ricorda Dormino, disertare è necessario per imparare a navigare, e quindi a cospirare, ovvero a respirare insieme.

Repubblica 13.6.18
Internet e diritti
Eravamo persone ora siamo solo dati
Il valore umano viene stabilito da algoritmi che studiano le abitudini in Rete E questo ha dei riflessi anche sulla nostra identità, sul nostro senso di precarietà, sulla nostra psiche
di Michele Ainis


I neri d’America ridotti in schiavitù – diceva Tocqueville – non s’accorgevano della loro disgrazia: avevano assimilato i pensieri d’uno schiavo, e in genere ammiravano i propri tiranni più di quanto li odiassero.
La nostra condizione non è troppo dissimile. Guardiamo alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico. Siamo grati ai giganti della Rete per le opportunità sempre più allettanti che ci offrono. Usiamo ogni nuova diavoleria come un giocattolo, e guai a chi ce lo toglie dalle mani.
Infine tutto questo Bengodi è gratis, non costa nulla.
Ma non è affatto un regalo, casomai uno scippo. Lo scippatore ci svuota le tasche sia quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca, sia quando rimaniamo inerti: basta possedere un dispositivo mobile perché ci arrivi un consiglio non richiesto, la réclame d’un ristorante che si trova proprio sul nostro itinerario, il titolo del film proiettato nel cinema che stiamo oltrepassando.
E dalle nostre tasche lo scippatore estrae di tutto, non soltanto i gusti di consumo: dati sanitari, opinioni politiche, predisposizione al rischio, inclinazioni sessuali, convinzioni religiose. Qualche esempio. A febbraio si è saputo che Facebook aveva costruito un algoritmo per dedurre dall’enorme quantità di dati in suo possesso il livello economico e sociale dei suoi 2 miliardi di utenti. Il risultato si ottiene combinando altri parametri: per esempio dove vai in vacanza, se hai una laurea oppure no, di quali apparecchi elettronici è composta la tua dotazione personale, se vivi in affitto o a casa tua. Da qui una classificazione degli utenti che riesce a suddividerli fra poveri, ceto medio, ricchi. Da qui, di conseguenza, la pubblicità di un viaggio in business class oppure in treno merci. D’altronde la stessa Facebook, un paio di mesi prima, tenne una riunione con gli inserzionisti che avrebbe dovuto restare riservata; e in quella riunione comunicò di possedere la capacità d’individuare i teenager più vulnerabili, perché tristi, stressati, insicuri, depressi. Anche in questo caso, il valore economico dell’informazione consiste in una pubblicità mirata, come un fucile di precisione.
E il fucile spara sulla preda colpendoci in ogni istante della nostra giornata, non solo quando posiamo gli occhi sullo schermo d’un computer. Giacché loro, gli algoritmi, possono stimare la probabilità di malattie attraverso l’iscrizione alle liste elettorali: difatti quanti si curano della comunità, partecipando al voto, probabilmente si prenderanno cura anche del loro corpo (su tale presupposto opera LexisNexis).
Possono misurare la nostra emotività dal modo con cui usiamo la tastiera del computer.
Possono tutto, mentre noi non possiamo quasi nulla. La Magna Carta per l’era digitale – invocata da Anthony Giddens su questo giornale – rimane sulla carta.
In questo tempo nuovo si materializza così il fantasma di Michel Foucault. «È il fatto di essere visto incessantemente, di poter sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo disciplinare», scriveva nel 1975 il filosofo francese. Del resto, come potremmo ribellarci?
Se lo facessimo, se negassimo il consenso alla radiografia che ci somministrano i Big Data, perderemmo l’accesso a Google, la principale fonte d’informazioni nella società contemporanea. Non potremmo usare i social network, ossia gli strumenti che ormai nutrono la nuova forma della cittadinanza, la cittadinanza digitale. Sarebbe come venire ricacciati fuori dalle mura della città, espulsi, stranieri, derelitti.
Come imbarcarci nella Nave dei folli immaginata – di nuovo – da Foucault, senza mai il permesso di ormeggiare, di mischiarci alla folla urbana. Sicché rimaniamo in città, però come merci, non come persone. Merci di valore, dal momento che secondo una stima di International Data Corporation il business in questione valeva, già nel 2017, oltre 150 miliardi di dollari. Tuttavia la mercificazione della nostra identità ha un effetto sull’identità medesima, la plasma, la conforma. Al culmine del trattamento che profila i singoli individui, diventiamo un unico individuo, amorfo, senz’anima né pelle. E quest’individuo unico e plurimo soffre una pressione psicologica che ne comprime l’autostima, la considerazione di se stesso. Per forza, se il tuo valore non dipende più da ciò che sei, né da ciò che sai. Dipende piuttosto dalle informazioni che trasmetti, dal loro valore commerciale. Eri una persona, adesso sei un informant. E ciò che resta di te come persona subisce un senso di precarietà, di smarrimento.
D’altronde in Rete tutto è cangiante e provvisorio. Tutto, salvo la vacuità dell’esperienza digitale, che l’accompagna come un’ombra. Da qui un degrado interiore, che si riflette sulla stessa psiche degli utenti: secondo l’American Journal of Epidemiology, a un aumento dell’1 per cento dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti, corrisponde un peggioramento dal 5 all’8 per cento della salute mentale. Un danno, ma altresì una beffa: perché il profilo elettronico catturato dai mille filtri che agiscono sul web è sempre parziale, approssimativo. Chi lo compra a scopi commerciali s’accontenta di un’identificazione precisa magari all’80 per cento. E il restante 20? Un falso digitale, che tuttavia si sovrappone alla nostra vera identità. Ammesso che ne rimanga qualche scampolo.

il manifesto 13.6.18
L’Oms sdoganerà la cannabis medica?
Fuoriluogo. Oggi, dato il diffuso uso medico della sostanza e dei suoi derivati, l’inclusione nella tabella IV risulta ancor meno giustificabile di 57 anni fa
di Marco Perduca


Non è chiaro quale Stato membro dell’Onu l’abbia richiesta con la necessaria fermezza, fatto sta che a giugno 2018, a 70 anni dalla sua fondazione, l’Organizzazione Mondiale della Salute ha lanciato una pre-revisione dello status internazionale della cannabis. Se il Comitato di esperti sulle droghe dell’Oms troverà elementi sufficienti per arrivare a una vera e propria revisione critica della pianta lo scopriremo nelle prossime settimane, per il momento va preso atto che un altro tabù anti-cannabis è stato infranto.
Da almeno due decenni la prescrizione di cannabinoidi aumenta costantemente in molti paesi ricchi, anche grazie all’immissione sul mercato di nuovi preparati a base di cannabis, a partire da quelli a base di Cannabidiolo, Cbd, mentre sempre più governi alleggeriscono le sanzioni per l’uso personale di marijuana. Anche per questi motivi gli esperti dell’Oms hanno deciso di raccogliere studi scientifici e stimoli politici da Stati membri e organizzazioni non governative per raccomandare alla Commissione sulle droghe dell’Onu una vera e propria ’revisione critica’ dello status legale della pianta.
Attualmente, la cannabis è inserita nella Tabella I (altamente additiva e soggetta ad abuso) e nella Tabella IV (sostanze incluse nella Tabella I raramente utilizzate nella pratica medica) della Convenzione Unica sugli stupefacenti del 1961. Il principale composto psicoattivo della cannabis, delta-9-THC o dronabinol, è anche inserito nella Tabella II della Convenzione del 1971, e molti dei suoi isomeri anche nell’Allegato I.
Questo incrocio di collocazioni complica, e di fatto impedisce, la ricerca sui componenti attivi della pianta a causa delle difficoltà amministrative che gli scienziati incontrano per avere accesso alle sostanze.
Come abbiamo avuto modo di denunciare più volte anche da qui, l’assegnazione della cannabis nelle Tabelle I e IV della Convenzione del 1961 non avvenne e seguito di una valutazione scientifica da parte dell’Oms; oggi, dato il diffuso uso medico della sostanza e dei suoi derivati, l’inclusione nella tabella IV risulta ancor meno giustificabile di 57 anni fa. Le definizioni ambigue delle sostanze legate alla cannabis e poste sotto controllo internazionale, oltre che la classificazione delle sue infiorescenza, resine ed estratti come “stupefacenti” e i suoi composti attivi come “sostanze psicotrope” sono state stigmatizzate in passato tanto dal Comitato di esperti dell’Oms quanto la giunta internazionale sugli stupefacenti.
Per arrivare a una raccomandazione finale il percorso resta lungo, dovranno essere studiati gli aspetti chimici, farmacologici, tossicologici, epidemiologici nonché gli usi terapeutici della pianta. Si prevedono anche contributi della società civile e l’Associazione Luca Coscioni, Forum Droghe e la Società della Ragione hanno presentato un documento sui progressi italiani sostenendo la revisione denunciando violazioni del “diritto alla scienza” perché si impedisce la ricerca su una pianta il cui ultimo studio internazionale risale al 1935.
Nei prossimi mesi l’Onu sarà messa di fronte alla necessità di bilanciare il “principio di precauzione” proibizionista con le innovazioni tecno-scientifiche occorse in tutto il mondo recentemente. Sebbene lo avessimo suggerito proprio da queste pagine l’autunno scorso, l’Italia non ha partecipato alla fase di pre-revisione, eppure da 10 anni aggiorna continuamente il proprio quadro normativo sulla “cannabis terapeutica”; vedremo se il sedicente ’Governo del Cambiamento” saprà cogliere questa occasione storica.
Tutte le notizie sulla cannabis terapeutica nello speciale mensile La cannabis che cura della newsletter di Fuoriluogo. Iscriviti su fuoriluogo.it.

Repubblica 13.6.18
Nuovi business
La cannabis light dilaga nelle città ( e ora diventa doc)
Oltre 500 punti vendita già aperti Ecco perché non è considerata una droga
di Michele Bocci


Come fosse un vino, oppure un formaggio tipico. La cannabis light avrà presto la sua “doc”, un disciplinare di produzione. Si decreta così definitivamente il successo commerciale di un prodotto che in Italia è disponibile da appena un anno, ma che sta segnando un boom di vendite inatteso. Nei prossimi giorni i rappresentanti delle aziende agricole, come Cia, Confagricoltura e Federcanapa (ma si sta cercando di coinvolgere anche Coldiretti) approveranno le regole per la coltivazione. È un po’ quello che avvenne anni fa per il biologico: ci si dà una disciplina per certificare al consumatore la qualità e sicurezza del prodotto. Nel testo, redatto dall’avvocato Giacomo Bulleri di Livorno, sono indicate le modalità di coltivazione e di semina, ma anche quelle di essiccazione. C’è poi il divieto di usare pesticidi e altri prodotti che potrebbero essere dannosi.
L’Italia ha scoperto nel maggio del 2017 la cannabis “light”. Oggi la producono 250 aziende e il prossimo autunno, con il nuovo raccolto, ce ne saranno 800 in più. Gli ettari coltivati saliranno probabilmente a 5.000 e il dato sul giro d’affari, basato su una stima di 44 milioni per il 2017, appare già vecchio e troppo basso. Nel nostro Paese ci sono 500 “growshop” specializzati che la commercializzano ma la cannabis “light” è disponibile anche in tabaccherie, erboristerie e parafarmacie. Sbarcherà pure nelle edicole, visto che la rivista “The Botanist” allegherà un grammo al prossimo numero in 20 città italiane (tra le altre Palermo, Napoli, Brescia, Parma, Milano, Bologna, Torino, Udine).
A inventarsi il prodotto è stata la società Easyjoint di Parma, che lo ha presentato l’anno scorso alla fiera “Indica sativa trade” di Casalecchio di Reno (Bologna).
Dopo avere per anni venduto semi e sistemi per la coltivazione, i soci, Luca Marola e Leonardo Brunzini, hanno avuto l’intuizione. All’inizio in magazzino aveva 30 chili di prodotto, oggi si stima che in Italia ne siano state lavorate 25 tonnellate. La svolta è arrivata grazie alla legge quadro sulla canapa, in vigore dal gennaio 2017. Ha semplificato le regole per la coltivazione di questa pianta per la produzione di tessuti, cosmetici, alimenti, bioplastiche. I fiori non erano citati e quindi inizialmente gli agricoltori li buttavano. Easyjoint ha chiesto di comprarli per poi commercializzarli. I tipi di canapa utilizzati in questo campo sono a basso contenuto di thc (tetraidrocannabinolo), cioè la sostanza psicotropa della marijuana. Il principio attivo rappresenta infatti lo 0,2% del peso e per la legge ci si trova di fronte a una droga quando il dato supera lo 0,6% (e nelle piazze gli spacciatori vendono marijuana con il 10 o anche il 30% di thc).
Nella cannabis “light” c’è però un’altra sostanza, non considerata dalla legge uno stupefacente, cioè il cannabidiolo (cbd). È questo principio attivo dagli effetti rilassanti ad aver decretato il successo della “maria” che non sballa. «Al limite i danni alla salute li può provocare la combustione — dice Roberta Pacifici, responsabile dell’osservatorio droge dell’Istituto superiore di sanità — ma gli effetti stupefacenti non ci sono assolutamente. Però preoccupa un po’ il cbd. In alcuni campioni sequestrati ai negozi ne abbiamo trovato il 40%. È un rilassante, bisogna ad esempio fare attenzione a mettersi alla guida dopo averlo assunto».
Easyjoint e le tante aziende ora sul mercato di solito non indicano la combustione come sistema di consumo, anche se molti fumano la marijuana che non sballa con il tabacco, preparandosi una simil-canna.
Altri la assumono con tisane e decotti, oppure usando vaporizzatori che funzionano come le sigarette elettroniche. I clienti tipici spesso vengono dalla marijuana illegale, che magari assumevano saltuariamente.
Sono passati alla “light” e chi la produce sta preparando una “doc” tutta per loro.

il manifesto 13.6.18
Termini, le stazioni del capitale
Esempio di spazio assediato dalle merci, non esistono pareti, solo vetrine. Ci si può ancora sedere su una panchina, ma solo se si è fortunati. Anche i bagni sono a pagamento
di Piero Bevilacqua


ROMA Ci sono luoghi e spazi della vita organizzata dalle origini millenarie, che hanno conservato per secoli, rinnovandole, le funzioni per cui erano sorte. Funzioni che nel giro di pochi anni sono state svuotate del loro antico scopo e simbolicamente annichilite. È il caso delle nostre stazioni ferroviarie. L’etimo latino di stazione rimanda allo stare, fermarsi in un luogo, una pausa nel cammino. Del resto, nell’antica Roma il termine statio indicava la tappa del servizio postale, così come sarà per la posta a cavallo nel corso del medio evo e per buona parte dell’età moderna.
Sino a pochi anni fa le stazioni ferroviarie, pur continuando a essere terminali di linee che conducono nelle varie città del Paese, hanno conservato questa funzione della tradizione, che faceva dei luoghi di partenza e di arrivo degli spazi pubblici di sosta, di riposo, di attesa e anche di incontro, di conversazioni occasionali. Sotto i nostri occhi, laddove è arrivata la modernizzazione del capitalismo neoliberista, tutto è silenziosamente cambiato. Pensiamo a Stazione Termini, il terminale della capitale, che insieme alla Stazione Centrale di Milano, è stata radicalmente ristrutturata. Era un luogo per viaggiatori che sostavano, in uno spazio comune organizzato per l’attesa e per il riposo, e oggi è diventato un emporio caotico dove lo spazio circostante è letteralmente sotto assedio.
Negli androni del pian terreno e in quelli del sotterraneo, non c’è spazio che per le merci. Non esistono pareti, ma vetrine di magazzini che si rincorrono per sale e corridoi senza soluzioni di continuità. Come se non fosse già abbastanza ricca l’offerta, si aggiungono giganteschi box prefabbricati, piazzati in mezzo agli androni, negozi, vetrine, luci. In alto, dove rimane ancora spazio superstite, numerosi schermi e display, armonie sonore per le glorie dei prodotti, per l’illimitata felicità dei consumatori.
La stazione non è più una stazione. Non c’è un angolo, una panchina su cui sedersi. Solo nei sotterranei, per un’errore originario degli architetti, che hanno costruito un paio di panchine in pietra (non asportabili) attorno a delle finte fontane, ci si può sedere, ma dopo avere atteso il proprio turno, perché sono continuamente occupate e tenute d’occhio da folle di stazionanti che attendono il loro turno.
Nel primo piano, un tempo esistevano dei sedili in plastica che ora sono stati smantellati. C’è tutta la società capitalistica della nostra epoca in una sola foto. Nei corridoi di passaggio tra una sala e l’altra, i senza casa seduti su sedie pieghevoli, con accanto qualche coperta per la notte, sotto valigie che devono camuffare il bivacco regolare con finte attese di partenze. Dovunque torme di giovani seduti per terra , con i loro pesanti zaini portati in giro per il mondo, anziane signore che si appoggiano come possono sul bordo metallico che circonda la vetrina della libreria. Altri passeggeri di varia età, il popolo plurietnico delle stazioni dei giorni nostri, vagano come anime del Purgatorio in attesa del loro treno.
Non ci si può sedere nella Stazione. Lo si può fare umiliandosi, distesi su un pavimento o nei bar, nei punti di ristorazione: solo se ci si spoglia dell’abito di cittadino e si indossa quello del consumatore. Solo se si paga si ha diritto alla stazione. Il viaggiatore deve camminare, perché altrimenti si isola in uno spazio proprio e non osserva, non acquista qualcosa di cui non ha bisogno, sfugge al messaggio pubblicitario. E deve pagare anche per soddisfare le sue necessità più elementari e improrogabili. A Stazione Termini, come ormai in tanti altri luoghi un tempo pubblici, non esistono toilet, se non a pagamento. Chi vi si reca può osservare la mirabilia elettronica che si deve affrontare solo per fare la pipi. Un cancello a vetri che dà accesso al bagno solo se inserisce in apposita feritoia una moneta da 1 euro: ben 1936 lire della nostra vecchia moneta. Di sicuro, visto l’asettico nitore del luogo, il servizio viene gestito da qualche società specializzata, probabilmente quotata in borsa. Ma questo non è necessario per stabilire che il capitale oggi cerca profitti anche nelle nostre deiezioni organiche.
Dunque, Stazione Termini offre oggi l’immagine esemplare del modello di società verso cui ci trascina il capitalismo dei nostri giorni. Un spazio sociale decomposto in una miriade di presidi privati dove è impedita anche una comunità provvisoria, dove tutti devono svolgere compiti utili, quelli di consumatori, anche nei momenti di pausa e di attesa. Un frammento di vita in cui il dominio dell’economia mostra il suo volto ormai assillante ed ostile. Un microcosmo della città che muore.