Il Fatto 29.6.18
Un sacrificio piatto. Ridateci Kubrick e gli antichi Greci
di Federico Pontiggia
No,
ovviamente Yorgos Lanthimos non è Kubrick, né un epigono, un parente,
un seguace, un simulacro. Idem Christopher Nolan, che Stanley non è.
Sgombrato il campo da questa associazione criminale eppure criticamente
ancora a piede libero, e in attesa di vedere The Favourite con Emma
Stone e Rachel Weisz plausibilmente alla 75. Mostra di Venezia, ecco Il
sacrificio del cervo sacro, premiato ex aequo per la sceneggiatura –
vergata con l’abituale Efthymis Filippou – a Cannes 2017.
Carrelli
brachicardici in avanti, campi lunghi anodini, grandangoli estraniati
cristallizzano l’immagine-movimento di una commedia dark a progressivo
voltaggio horror, in cui una famiglia – padre cardiochirurgo Steven
(Colin Farrell) e madre oftalmologa Anna (Nicole Kidman), l’adolescente
Kim (Raffey Cassidy) e il piccolo Bob (Sunny Suljc) – viene trascinata
in una tragedia spiccia e malata dal giovane Martin (Barry Keoghan).
Incolpando Steven della morte del padre per sfruttarne i sensi di colpa e
facendo innamorare di sé Kim, il ragazzo perfeziona il proprio piano:
occhio per occhio, dente per dente, papà per figlio…
Una tragedia
piana, calmierata, meccanica e financo sorda, che complice la
nazionalità del regista riecheggia il suo attributo principe: “Ci sono
rimandi alla mitologia greca, ai simbolismi religiosi, a Ifigenia.
Secoli dopo siamo ancora alle prese con l’essenza della natura umana: la
colpa, il destino, la giustizia, il sacrificio quando incontri i
demoni. C’è una connessione con qualcosa di profondo, che va all’origine
della nostra cultura”.
Dopo il tremebondo The Lobster (2015),
Lanthimos non ritrova la forma, e poetica, migliore (Dogtooth, 2009;
Alps, 2011), però fa un deciso passetto in avanti, sopra tutto per la
compattezza drammaturgica e la solidità narrativa: movimenti rallentati,
mania di controllo, montaggio per asindeto e traiettorie come coltelli
vivisezionano l’umanità, o meglio la post-umanità, all’apogeo della sua
decadenza antropologica, sociale e morale.
Cinema crudo – anzi, a
media cottura – e nichilista, manierato e spurio, fascinoso e disturbato
più che disturbante, come se un Hitchcock in sedicesimi incontrasse un
Ferreri minore, laddove ogni cosa, eccetto l’eccesso di stile, è senza
speranza: bravi gli attori, Farrell ma anche la Kidman; più ristretto,
forse, l’accesso per il pubblico; più scoperto che sia epidermide, la
sua cifra, che non cuore, sebbene il muscolo venga piazzato in apertura a
mo’ di monolite carnale.
The Killing of a Sacred Deer è
calligrafico, snervato, nauseato: più participio passato, insomma, che
presente, e forse la tragedia greca non spiega per intero questa indole
compassata, questo disagio sedato. Chiaro, trovare in sala un film così
in estate è assai apprezzabile e dunque è un Sacrificio raccomandabile,
eppure il sospetto non se ne va: ma non l’avevamo già visto, per giunta,
fatto meglio?