Corriere 27.6.18
L’opposizione alla ricerca di un progetto che manca
La politica è la capacità di trovare interlocutori anche lontano dalle proprie mura pericolanti
Altrimenti la sinistra rischia sempre più una dissiluzione
di Paolo Franchi
Nell’Italia
governata dall’alleanza (si vedrà quanto stabile) tra due populismi non
c’è niente che somigli, magari a grandi linee, a un’opposizione. La
cosa non sembra interessare troppo analisti e commentatori. Ma, tra le
tante, clamorose novità introdotte dal voto popolare, questa non è né la
meno significativa né la meno inquietante.
E’ vero, il Pd ha
subito una sconfitta di dimensioni inaudite, che meriterebbe prima di
tutto una riflessione storico politica di cui non si intravede la minima
traccia: e c’è poco da sorprendersene, la botte dà il vino che ha. La
durezza estrema della sconfitta — anzi, delle ormai ricorrenti
sconfitte, vista la caduta, domenica, di alcune di quelle che, per
pigrizia giornalistica, continuiamo a chiamare, chissà perché,
«roccaforti rosse» — non basta, però, a spiegare perché il Pd se ne stia
sulla scena politica come un pugile così suonato da far quasi
tenerezza. Forse ormai lo ricordano solo gli anziani. Ma
nell’armamentario dei partiti, soprattutto di quelli in difficoltà
grave, c’erano una volta lo spariglio, la mossa del cavallo o, più
semplicemente, l’iniziativa politica. Cui ci si affidava per tentare
intanto di aprirsi dei varchi utili a rompere l’assedio, allargare i
contrasti in atto o potenziali nel campo avversario, e cercare (si
diceva così) di rimettere la situazione in movimento.
Storie
vecchie? Sì, ma fino a un certo punto. Specie in un’Italia che si è
fatta di nuovo, seppure in forme vagamente surreali, proporzionale e
proporzionalista, e nella quale dunque all’opposizione non si chiede più
soltanto, come al tempo del maggioritario, del bipolarismo e
dell’alternanza, di controllare l’operato del governo e farsi le ossa
per vincere le elezioni successive, ma di stare in campo come chi sa
che, fino al fischio finale, tutto può succedere. Concretamente. Chi
scrive non era affatto convinto, quando Luigi Di Maio si dichiarò
disponibile a stipulare un «contratto di governo» tanto con la Lega
quanto con il Pd, che quest’ ultimo dovesse abboccare, e predisporsi a
buttar giù con i Cinque Stelle un compitino da portare dal notaio. Ma
pensava, e a maggior ragione continua a pensare oggi, che un partito
(sconfitto e stremato, sì: ma un partito) degno di questo nome avrebbe
dovuto rilanciare e prendere, appunto, un’iniziativa politica. Chiamando
il vincitore (o quello che all’epoca sembrava, numeri elettorali alla
mano, il principale vincitore) a un confronto aperto, pubblico, su pochi
punti programmatici fondamentali, per verificare non necessariamente in
streaming, ma comunque in faccia al Paese, se ci fossero sì o (più
verosimilmente) no le condizioni minime per governare insieme.
Una
simile proposta, però, non è mai stata avanzata. I motivi, arcinoti,
sono tutti o quasi riconducibili allo stato comatoso in cui versa un
partito-non-partito come il Pd, che, chiamato a prendere dolorosamente
atto del fallimento della politica seguita in questi anni, e trarne
qualche conseguenza, non può farlo, perché chi la ha incarnata, ancorché
dimissionario, ne è tuttora il dominus, nemmeno tanto occulto. E nulla,
o quasi, lascia presagire che questo (desolante) stato delle cose sia
superabile rapidamente. Il fatto è, però, che l’intesa, o, se preferite,
l’attuazione del contratto di governo stipulato tra Cinque Stelle e
Lega, si sta già rilevando più difficile di quanto i suoi protagonisti
vogliano, nelle loro dichiarazioni, far intendere. Magari esagera chi
pensa che Matteo Salvini stia mettendo legna in cascina sulla scorta di
un piano preciso e preordinato per andare a nuove elezioni di qui a non
moltissimo. Ma è altrettanto certo che il ministro degli Interni,
cavalcando senza concedersi un attimo di tregua i suoi temi «a costo
zero», a cominciare dall’immigrazione, e tirando ogni giorno un po’ di
più la corda, mette la sua personale impronta su tutta l’azione di
governo; crea difficoltà crescenti ai Cinque Stelle, dei quali non
fatica a mettere in evidenza la pochezza politica; e soprattutto
impingua clamorosamente i consensi alla Lega, stimata ormai da tutti i
sondaggi come il primo partito.
Il Pd e quel po’ di sinistra che
c’è fuori dal Pd possono, naturalmente, disinteressarsi della cosa, o
rimarcare con dichiarazioni sarcastiche, tweet al vetriolo e comparsate
televisive di aver sempre pensato che sarebbe andata a finire così.
Questa, però, è solo (maldestra) propaganda. La politica è un’altra
cosa. Anche nel Terzo millennio richiede, o forse sarebbe meglio dire:
richiederebbe, progetto, programma, e prima ancora (chi avesse dubbi in
materia farebbe bene a guardare con preoccupazione anche maggiore, ma
meno spocchia moralistica, proprio a Salvini) identità e valori
condivisi. Ma pure (ci risiamo) iniziativa. Movimento. Capacità di
individuare interlocutori anche lontano dalle proprie mura, peraltro
periclitanti. Non ci dovrebbe voler molto a capire che, altrimenti,
rischierebbero di dissolversi, consegnando (senza nemmeno combattere) il
Paese, e per chissà quanto tempo, a una destra assai diversa e assai
più inquietante di quelle che abbiamo sin qui conosciuto, almeno nella
storia repubblicana. Forse potrebbe bastare l’istinto di sopravvivenza.
Non è affatto detto, però, che a sinistra ci sia ancora.