Corriere 24.6.17
Evasione e condoni, e sul fisco tutti amici come prima
di Ferruccio de Bortoli
In
attesa di vivere una giornata senza dichiarazioni a effetto e proclami
estemporanei, proviamo a riflettere sulla promessa fiscale di questo
governo. Non tanto sulla sempre più incerta flat tax , quanto sulla
cosiddetta pace fiscale. Ovvero il condono tombale per le cartelle
esattoriali inferiori ai centomila euro. Nella sua bulimica narrazione
quotidiana, il leader di fatto del governo legastellato Matteo Salvini
promette un salutare, a suo giudizio, colpo di spugna per «liberare
milioni di italiani incolpevoli ostaggi e farli tornare a lavorare,
sorridere e pagare le tasse». In sintesi: versate una frazione del
tributo, scordatevi sanzioni e interessi (quelli scontati dalle due
rottamazioni in corso) e «amici come prima». Nulla di nuovo sotto il
sole della Penisola, si potrebbe dire. Si ripete un copione già
ampiamente recitato nella Prima e nella Seconda Repubblica. Sotto varie
forme di raffinata fantasia. Il tutto per non chiamare il condono con il
suo vero nome: Concordato di massa, scudo fiscale, voluntary disclosure
e via di seguito.
Sulle questioni tributarie si esercita il
massimo dell’ipocrisia nazionale. Non c’è scampo. Ma in questo caso si
registrerebbe uno scatto in più. Un gradino disceso lungo la scala
invisibile che porta alla rottura del rapporto fra cittadino e Stato,
fra individuo e comunità. La dichiarazione di Salvini suona come
un’assoluzione generale, un condono morale per tutti i ritardatari delle
tasse.
Vittime di un sistema spietato e disumano che li ha
portati sull’orlo del fallimento. Oggi finalmente liberati dal giogo
crudele di uno Stato oppressivo. Non stentiamo a credere che non siano
pochi i contribuenti nell’impossibilità reale di far fronte ai propri
obblighi, in particolare quelli che non sono stati pagati, o pagati in
forte ritardo, dallo stesso Stato. Siamo convinti da anni che la
tassazione sul lavoro sia eccessiva e ingiusta; il groviglio degli
adempimenti infernale. L’effetto della doppia recessione è stato
devastante per tanti contribuenti. La necessità di affrontare ed
eliminare le scorie, in qualche caso le macerie della crisi,
improrogabile. Una stagione di comprensione, e persino di indulgenza,
nei confronti di molti contribuenti, benvenuta. Ma che tutti, proprio
tutti, siano degli angioletti innocenti e che l’evasione riguardi
soltanto i grandi patrimoni, le multinazionali e quel coacervo
indistinto di poteri forti, è una interpretazione un po’ esagerata. Chi
può muovere con facilità i capitali e spostare residenze paga molto
poco. Uno scandalo. Ma se è davvero così, perché il governo non pensa a
una patrimoniale? Sarebbe, tanto per essere chiari, un errore, ma
certamente in linea con il sentimento dell’esecutivo, specie la parte
grillina.
Il caso ha voluto che nello stesso giorno in cui Salvini
prometteva la pace fiscale al grido di «amici come prima», il ministro
dell’Economia si esprimesse con argomenti e toni del tutto diversi. «I
recenti dati Istat — spiegava Giovanni Tria ospite di una cerimonia
della Guardia di Finanza — testimoniano che l’Italia è in ripresa, ma la
pressione fiscale resta elevata ed è pari al 42,5 per cento rispetto al
Pil (il Prodotto interno lordo n.d.r) nel 2017 mentre l’evasione
fiscale e contributiva risultava pari a 110 miliardi nel 2015». Il
ministro si riferiva al cosiddetto tax gap, ovvero la differenza tra
imposte e contributi teorici e quelli effettivamente versati. Secondo il
rapporto della commissione Giovannini, l’Iva è l’imposta più evasa.
Sono 35 miliardi che sfuggono ogni anno all’Erario. Con un effetto
trascinamento su altre imposte. L’evasione annuale su Irap, Ires e Irpef
per lavoro autonomo e impresa è stimata in 48,8 miliardi. La
propensione a evadere è in media del 23,5 per cento. Ma se si escludono i
lavoratori dipendenti, per i quali c’è la trattenuta alla fonte, si
arriva alla stima di trentacinque euro evasi ogni cento dovuti. Per le
sole imprese che pagano l’Ires l’evasione è pari a 9 miliardi (25,6 per
cento). Se teniamo però conto dell’articolazione del tessuto economico
italiano, ovvero piccole aziende, artigiani, commercianti che pagano
l’Irpef sul reddito d’impresa o sul reddito da lavoro autonomo,
arriviamo a un’evasione presunta del 68,5 per cento. Con le cifre può
bastare.
È dunque assai difficile pensare che non vi siano tra i
responsabili di questo mancato gettito — con il quale si farebbe
comodamente sia il reddito di cittadinanza sia la flat tax — anche molti
degli «amici come prima, incolpevoli ostaggi» della tenaglia fiscale.
L’amara realtà è che evadere paga. E si è pure ringraziati. Non solo
condonati, ma innalzati ad esempio. Fine. Ora non resta che rivolgere un
pensiero riconoscente a tutti coloro, sconosciuti eroi civili — e per
fortuna non sono pochi — che continuano a pagare regolarmente tasse e
imposte, a rispettare le scadenze, ossessionati dal dubbio di non avere
fatto fino in fondo il proprio dovere. Ligi alle regole anche quando
ritengono di essere ingiustamente tartassati. Scrupolosi persino nel
momento in cui si sentono vittime di norme farraginose e
incomprensibili. Quegli italiani disciplinati che pagano le multe per le
infrazioni al codice della strada. Multe che verranno gettate nel
cestino del condono fiscale. Connazionali convinti che pagare le tasse
sia l’altra faccia della medaglia di una cittadinanza responsabile. Il
modo di condividere le spese pubbliche, che vanno dalla sanità alla
sicurezza. Interpreti autentici dell’articolo 2 della Costituzione nel
quale è scritto che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Quello che
forse non sopporteranno è di fare la figura dei fessi in un Paese di
furbi.