Corriere 23.6.18
Il dominio leghista
La debole resistenza dei 5 stelle
di Antonio Polito
I
leghisti vengono da Marte, i Cinque Stelle da Venere. Per comprendere
il dominio di Salvini, quasi un premier ombra se non ce ne fosse già
uno, e per spiegare la debole resistenza di Di Maio, si può forse usare
la metafora che Robert Kagan applicò agli americani e agli europei dopo
l’11 settembre: i primi sono i discendenti del dio della guerra, i
secondi della dea dell’amore.
La Lega vive in un mondo hobbesiano
basato sulla forza. Conosce il potere per averlo già praticato. Dispone
dunque di un ceto di professionisti capaci di maneggiarlo, nei governi
locali e a Roma. Gente come Giorgetti e Calderoli si muovono tra leggi,
regolamenti e burocrati come a casa propria. Soprattutto sanno che
farsene del potere: lo mettono al servizio di una lista di obiettivi da
raggiungere. La Lega è nata come un one-issue-party, e per molti aspetti
lo è ancora. Si preoccupa solo di consegnare ai suoi elettori ciò che
essi chiedono, è un «deliveroo» della politica. Tutto il resto viene
dopo, e conta poco. Se servisse a ridurre gli immigrati, Salvini non
esiterebbe a far saltare l’Unione Europea. La Lega ha una visione del
mondo e un’ideologia, il sovranismo; dispone dunque di una rete di
collegamenti internazionali, da Putin a Le Pen. La Lega ha un «capo»,
anzi un «capitano», si muove come una falange macedone e rade al suolo
le correnti. Tutta la strumentazione della vituperata politica, che
dicevano morta e sepolta, nella Lega è messa al servizio di una
politica. E si vede.
I Cinque Stelle vivono invece in un mondo
rousseauiano, che immaginano governato dalla volontà generale. Non sono
abituati né a convivere né a competere con un alleato, perché credono di
rappresentare il 99% del popolo: rimossa la casta del restante 1%, il
popolo si autogovernerà. Non formano dunque un personale politico, ma
solo portavoce della volontà generale; e così finiscono nelle mani dei
Marra e dei Lanzalone. Hanno una visione utopica del potere: per loro
non serve a fare, ma a disfare, va usato per dissolverlo. Sono i
discendenti della «fantasia al potere», o del «fate l’amore non la
guerra». La democrazia diretta, cuore della loro straordinaria ascesa
elettorale, si propone di consegnare un giorno lo scettro all’agorà,
togliendolo a governo e Parlamento. Nel frattempo, visto che il potere
non ammette vuoti, provano a trasferirlo su una piattaforma on line.
Così
i Cinque Stelle oscillano tra un’utopia rivoluzionaria e una pratica
conservatrice. Il Movimento che per primo ha «visto» il futuro digitale
con Gianroberto Casaleggio, ora si muove contro la sharing economy e il
lavoro domenicale. Il reddito di cittadinanza con otto ore di lavoro a
settimana ricorda molto da vicino i «lavori socialmente utili»,
inventati a Napoli tanti anni fa per sussidiare la disoccupazione
fingendo di non farlo, e Di Maio assomiglia sempre più a Vincenzo
Scotti, giovane ministro del lavoro degli anni 80, oggi mentore di molti
«tecnici» grillini. Un po’ alla volta, il programma cinquestelle è
diventato tutto un abolire: il jobs act, la Fornero, le liberalizzazioni
di Monti, una decisa marcia indietro verso il futuro.
Entrato
finalmente nella stanza dei bottoni, il M5S non ha trovato i bottoni.
Legiferare è un lavoro lungo e complesso, comporta tecnica e competenza.
Il governo Conte ha finora prodotto un solo decreto legge: misure
urgenti per il tribunale di Bari. La settimana prossima arriva alle
Camere quello sul terremoto, che risale ancora a Gentiloni. La
sensazione è che i ministri non abbiano ancora capito come tradurre gli
intenti in fatti (non è facile per nessuno: Renzi fu recordman di
decreti legge, ma molti rimasero sulla carta).
A Salvini può
bastare la dichiarazione di guerra all’Europa sui migranti, resa ancora
più popolare in Italia dalle risposte di Macron; o una dichiarazione di
guerra al Fisco sulle cartelle esattoriali; o a Saviano sulla scorta; o
al ministro pentastellato della Sanità sui vaccini. Salvini viene da
Marte, dunque è marziale: prima o poi si farà troppi nemici, però per il
momento funziona. Ma Di Maio viene da Venere, quelli del «vaffa» sono
spariti con Grillo e Di Battista, i due maestri del genere; e dunque non
gli resta che il governo, il luogo dove ha condotto con successo un
movimento che era nato come un meetup di stravaganti. La sfida del fare è
perciò tutta sua, e per il momento la sta perdendo.