Corriere 21.6.18
Scandalo abusi sessuali
Chiesa, il muro del sospetto
di Massimo Franco
Accuse
alla Chiesa per gli scandali sugli abusi sessuali, ultimo caso il Cile.
Passa di qui la sfida del Papato di Bergoglio per abbattere il muro dei
sospetti sul Vaticano.
C’è qualcosa di allarmante, nel viavai
febbrile e anomalo tra la Roma vaticana e il Cile per appurare la verità
su abusi sessuali compiuti dai sacerdoti di quella nazione. Lascia
indovinare il tormento e la determinazione di Francesco. Il Papa vuole
andare fino in fondo e chiudere una vicenda che lo ha sovraesposto in
modo imprevisto. Il caso ha mostrato reticenze, sottovalutazioni, bugie,
cinismo di pezzi dell’episcopato latinoamericano; e una disinformazione
sulla vera portata degli scandali, che non si è fermata nemmeno davanti
all’esigenza di proteggere la figura di Jorge Mario Bergoglio.
È
vero che il Cile, visto dall’Europa, è quasi più remoto dell’Argentina.
Eppure, questa brutta storia latinoamericana rischia di assurgere a
simbolo della difficoltà perfino del Papa argentino ad affrontare con
efficacia il problema della pedofilia nella Chiesa cattolica. «Questi
scandali non finiranno. E quello cileno si sta rivelando la spina più
dolorosa del papato...», ammettono persone vicine a Francesco,
descrivendone la sofferenza e lo stupore. La «sua» America latina si è
dimostrata severa quanto il Nord del mondo nei confronti di sacerdoti
che si sono macchiati di crimini così odiosi.
Ma soprattutto,
forse per la prima volta Bergoglio ha dovuto fare i conti con le proprie
convinzioni; e prendere atto che ecclesiastici ritenuti fidati lo
avevano informato pericolosamente male. Lo scandalo ha riflessi vaticani
perché ripropone il tema della selezione dei consiglieri papali; e a
volte, la tendenza di Francesco a preferire le indicazioni di persone
amiche, o presunte tali, rispetto a quelle degli organi istituzionali
del Vaticano. Gli inquirenti papali, monsignor Charles Scicluna e don
Jordi Bertomeu, in Cile per raccogliere notizie, riferire e decidere che
fare, hanno un compito difficile anche per questa ragione.
È come
se il Vaticano cercasse di rimediare a un errore di valutazione che a
prima vista appare inspiegabile; ma che rischia di incrinare la
strategia della «tolleranza zero» contro la pedofilia iniziata da
Benedetto XVI e proseguita con vigore proprio da Francesco. Le
dimissioni in massa offerte un mese fa al pontefice argentino dai
trentaquattro vescovi cileni, sono state un gesto inedito e traumatico:
sebbene non si capisca fino in fondo se siano state date per aiutare il
pontefice a agire, o quasi come un gesto di sfida di fronte alla
delegittimazione dell’episcopato.
Gli avversari di Bergoglio
cercano di accreditare maliziosamente la seconda versione. L’unica
certezza è che quanto è accaduto è il risultato di una catena di
reticenze. Il cardinale Francisco Errázuriz, ritenuto uno dei grandi
elettori di Francesco al Conclave del 2013, membro del Consiglio dei 9
chiamato a coordinare le strategie della Chiesa nel mondo, non ha voluto
o saputo capire il dramma delle vittime; e quando è scoppiato lo
scandalo, è arrivato a sostenere che non rientrava nei suoi compiti
informare il Papa su problemi di quel tipo; e questo nonostante risulti
che si fosse opposto alla nomina del vescovo di Osorno, Juan Barros,
rimosso sotto la pressione dell’opinione pubblica cilena come uno dei
principali indiziati di pedofilia.
In più, alcuni siti cattolici
hanno sostenuto che dal 2015 molti erano a conoscenza di quanto
succedeva in Cile. La stessa Congregazione per la dottrina della fede
aveva segnalato ripetutamente con rapporti scritti che qualcosa non
andava e dunque erano opportune indagini più approfondite. E negli
ultimi giorni è emerso il profilo controverso di un gesuita spagnolo,
Germàn Arana, guida spirituale di monsignor Barros. Arana sarebbe un
sacerdote ascoltato da Francesco. E ora viene insinuato il dubbio che
possa avere fuorviato il Papa su monsignor Barros: almeno fino al 21
gennaio scorso, quando durante il volo di ritorno dal Cile Francesco
spiegò che aveva fatto studiare il caso in modo approfondito.
«Realmente
non ci sono evidenze di colpevolezza e sembra davvero che non se ne
troveranno», disse il pontefice. Aggiungendo con calore che si trattava
di «calunnie». Le sue parole provocarono una reazione dura in modo
irrituale dell’arcivescovo di Boston, Patrick O’Malley. E poche
settimane dopo spinsero Francesco a riaprire l’intera questione. Il
resto è cronaca recente. Il Papa ha ricevuto le vittime cilene in
Vaticano, chiedendo loro scusa con parole forti e inequivocabili. E nel
viaggio in Irlanda che farà in agosto incontrerà quelle degli abusi da
parte dell’episcopato irlandese. Eppure, c’è qualcosa di circolare e
ripetitivo, in queste dinamiche.
Lo schema sembra immutabile.
Accuse delle vittime. Indagini farraginose, difficili, spesso circondate
da un alone di imbarazzo e reticenza. Alla fine, scuse della Chiesa. A
volte cause milionarie. Il risultato è la messa in mora di fatto delle
gerarchie ecclesiastiche, e la sensazione che nemmeno il Papa riesca
sempre a sfondare il muro dei silenzi. Succede dal Cile all’Irlanda,
all’Australia, agli Usa, dove ieri al cardinale Theodore McCarrick è
stata vietata qualunque attività, per una vecchia accusa di pedofilia.
Ma colpisce l’assenza di una elaborazione culturale del fenomeno:
un’analisi che permetta alla Chiesa cattolica una strategia preventiva
in grado di impedire che si ritrovi comunque sul banco degli imputati.
Finora,
è riuscita solo a reagire, subendo un’agenda dettata dagli altri. Non è
stata in grado di confutare le tesi, in qualche caso strumentali, che
proiettano sul Vaticano il sospetto di continuare a proteggere la
«cultura del segreto» e i crimini perpetrati nell’ombra. Per questo si
teme che quanto sta accadendo in Cile sia solo l’ultima tappa di uno
«scandalo infinito». I monsignori che fanno la spola col Cile come
virtuosi inquisitori, probabilmente sono i primi a esserne consapevoli.