martedì 12 giugno 2018

Corriere 12.6.18
Gli archibugi del papa
Un saggio di Giampiero Brunelli (Salerno) ricostruisce le imprese del generale Giovan Francesco Aldobrandini, che affrontò gli ottomani in terra magiara alla fine del XVI secolo nonostante la posizione incerta dei sovrani asburgici
I pontifici contro i turchi in Ungheria al comando del nipote di Clemente VIII
di Paolo Mieli


Ippolito Aldobrandini fu eletto Papa nel gennaio del 1592 e prese il nome di Clemente VIII. Aveva 56 anni e visse fino al 1605. Sotto il suo pontificato ebbe luogo, nel 1600, una celebrazione dell’anno santo davvero considerevole per il numero di pellegrini che giunsero a Roma: oltre un milione. Ma quello stesso 1600 restò nella storia per il rogo in Campo dei Fiori che mise fine alla vita di Giordano Bruno, un’uccisione che ancora oggi la cultura laica (e parte di quella cattolica) non ha perdonato alla Chiesa. Clemente VIII fece cardinali due nipoti, Cinzio Passeri e Pietro Aldobrandini, ai quali affidò importanti ruoli di direzione della Chiesa, e si giovò anche della collaborazione di un grande gesuita, il cardinale Roberto Bellarmino. Il personaggio più importante del pontificato di Clemente VIII, quantomeno sotto il profilo militare, fu però Giovan Francesco Aldobrandini, appartenente a un ramo cadetto della casata, ma che — avendo sposato Ippolita Aldobrandini, figlia di un fratello del Pontefice — era stato ammesso nella cerchia dei «nipoti» (pur essendo poco più giovane del Papa).
A Giovan Francesco Aldobrandini furono affidate, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, ben tre missioni militari in Ungheria per soccorrere gli Asburgo contro i turchi impadronitisi del 40 per cento delle terre magiare. Spedizioni che sono adesso oggetto di un interessantissimo libro di Giampiero Brunelli, La santa impresa. Le crociate del Papa in Ungheria (1595-1601), che la Salerno si accinge a mandare in libreria. Quelle tre «imprese», spiega Brunelli, costituirono per il Papa e per la sua segreteria «la rivisitazione dell’antico sogno crociato, con nuovi obiettivi»: non più la riconquista di Gerusalemme, ormai impossibile, bensì «l’arresto immediato dell’avanzata turca e il contrattacco… puntando direttamente su Costantinopoli, dal 1453 capitale dell’impero del sultano».
Era passato molto tempo dall’epoca delle crociate, i Paesi europei erano in competizione uno con l’altro e su di loro si poteva contare assai limitatamente. Clemente VIII riuscì a mobilitare in quella «santa impresa» qualche migliaio di soldati che disordinatamente, agli ordini del «nipote» Giovan Francesco, raggiunsero l’Ungheria. E, almeno in due occasioni, nel 1595 e nel 1597, ebbero ragione degli ottomani. Gli Asburgo (dapprima con Massimiliano II; poi, dopo il 1576, con Rodolfo II) avevano firmato ben quattro trattati con gli invasori turchi (nel 1568, nel 1574, nel 1583 e nel 1590) con i quali si impegnavano a versar loro una cospicua dote in fiorini ungheresi purché cessassero le loro aggressioni. Aggressioni che con ogni probabilità in quel momento non avrebbero avuto luogo, quantomeno su larga scala, dal momento che gli ottomani erano impegnati in una guerra contro la Persia durata una dozzina d’anni (1578-1590). Questa guerra li dissanguò e fu proprio la crisi economica provocata dal conflitto turco-persiano a provocare i primi contraccolpi come effetto di qualche cedimento militare degli ottomani.
Le «chiacchiere» fecero il resto. In che senso? Anche a non voler retrodatare alla fine del Cinquecento la nascita della cosiddetta «opinione pubblica», scrive Brunelli, è «indubbio» che la diffusione delle voci circa la ripresa del conflitto in Ungheria contro i turchi «debba esser collegata alla nascita di quel primissimo giornalismo che si esprimeva attraverso la pubblicazione di fogli manoscritti di notizie (chiamati “Avvisi”)». Come funzionavano queste prime forme di giornalismo moderno? Gli antenati di quelli che sarebbero stati i corrispondenti «si incaricavano di raccogliere informazioni sull’andamento della guerra, informazioni che venivano da Vienna, Costantinopoli, Venezia o da altre città più prossime al teatro delle operazioni; poi traducevano i testi in tedesco o in ungherese, li vagliavano, li ricopiavano e li mettevano in circolazione, facendoli vendere agli ambulanti». Al grido di «Nuove!», «Avvisi!».
Roma fu invasa da questo genere di proto giornali che parlavano di «rotta» dei turchi e di «felice successo» degli eserciti asburgici. Notizie davvero esagerate che, però, crearono un clima particolarmente favorevole a una nuova «crociata». A chiunque — com’era il caso dell’ambasciatore veneziano Paolo Paruta — gli riferisse di questo «clima» o dei capovolgimenti militari in Ungheria, papa Clemente rispondeva compiaciuto: «Lo sappiamo, lo sappiamo». Era giunto il momento — secondo l’«opinione pubblica» romana — di «riprendere il discorso» che si era interrotto dopo la vittoria di Lepanto sulla flotta ottomana nell’ottobre 1571. Rodolfo II d’Asburgo a cui il Papa, appena eletto, aveva rivolto una specifica richiesta in tal senso, gli aveva risposto di essere ben lieto di continuare a ricevere sussidi pontifici per l’opera di contenimento dei turchi, ma che non aveva intenzione di avventurarsi in una guerra contro di loro e che — eccezion fatta per qualche scaramuccia atta a riconquistare piazze perdute, le piccole battaglie che tanto avevano elettrizzato Roma — il suo progetto era proseguire in una politica di «amicizia» e di «tregua» con la Sublime Porta.
Papa Clemente decise allora di non limitarsi più alle donazioni economiche, anche perché sospettava che esse restassero impigliate nella giungla della corruzione che infestava la corte asburgica. Si rendeva conto che il resto d’Europa — Filippo II di Spagna, pur ben intenzionato, la Francia, i ribelli olandesi, la regina d’Inghilterra — non si sarebbe mobilitato per contrattaccare e, deciso a scatenare comunque questa offensiva, pensò bene di mandare in loco un corpo di spedizione. Un corpo di spedizione di diecimila fanti e seicento cavalleggeri guidati dal già citato Giovan Francesco Aldobrandini, che aveva dato buona prova in precedenti operazioni di repressione del banditismo nelle campagne romane. Il reclutamento dei soldati fu assai complicato e alcune città, come Spoleto, fecero ostruzionismo. Ma alla fine l’azione di Clemente VIII fu coronata dal successo e — secondo i calcoli dell’ambasciatore veneziano Paruta — tra il 1592 e il 1595 l’esercito pontificio era riuscito ad arruolare ben 30 mila soldati. Un terzo dei quali — come si è detto — nel 1595 furono inviati in Ungheria. In che modo? Alla spicciolata, «sbandati», a piccolissimi gruppi, di fatto ognuno a spese proprie. Marciavano «allegramente», secondo quel che riferì il luogotenente generale Paolo Sforza. Le città e i paesi attraversati, in segno di solidarietà alla «santa impresa» erano tenuti ad offrire a questi «viandanti» ricovero e cibo a prezzi più che contenuti. Le armi sarebbero state acquistate a Brescia e a Milano, poi spedite a Trento e di lì in Tirolo. Il tutto per non destare allarme nelle lande attraversate.
Solo il viaggio di Giovan Francesco Aldobrandini fu «principesco». Ma quando giunse alla meta, ad Ala in Tirolo, si trovò di fronte un esercito di «straccioni», talché il generale pontificio dovette impegnarsi non poco a rimetterli in sesto con grande rapidità. Alla fine di agosto Aldobrandini raggiunse l’accampamento imperiale il cui esercito era, per così dire, impegnato in guerra con i turchi dai primi di luglio. Pochi giorni dopo gli uomini di Aldobrandini attaccarono Strigonia, che dal 1543 era in mano turca e dal 1594 resisteva all’assedio asburgico. In men che non si dica, le truppe pontificie la conquistarono. E quando, dodici giorni dopo, la notizia giunse a Roma, il Papa, per ringraziamento, si recò a piedi recitando il rosario a Santa Maria dell’Anima.
In seguito Aldobrandini avrebbe voluto attaccare Buda e per qualche tempo sembrò che anche gli alleati fossero d’accordo. Ma l’intesa durò poco: ripicche, stanchezza, diserzioni, gelosie e disordine suggerirono di levare le tende e tornare a casa. «Negli accampamenti», scrive Brunelli, «gli alleati stavano diventando più temibili dei nemici». Per reazione — ma anche per fame e disperazione — i soldati pontifici «svaligiavano le masserie in cui sostavano, abbattevano e macellavano gli animali degli allevamenti, non pagavano i viveri, angariavano persino i contadini che glieli fornivano». I paesi che avrebbero dovuto attraversare, li accoglievano — di conseguenza — con ostilità. Più di cento uomini di uno dei villaggi deputati ad ospitarli li affrontarono «con bastoni e archibugi alla mano, decisi a tutto pur di vederli allontanare». L’imperatore Rodolfo II («occupato», riferisce una cronaca dell’epoca, «dalli suoi soliti piaceri et passatempi») alla corte del quale Aldobrandini era andato a perorare la causa del proseguimento dell’offensiva, fece attendere a lungo il generale e fu disposto a riceverlo solo nell’aprile del 1596.
Nel frattempo i musulmani di Maometto III erano tornati all’attacco e in ottobre di quello stesso 1596 inflissero agli imperiali pesanti sconfitte. Rodolfo II se ne dispiacque al punto da proibire per quell’anno qualsiasi festeggiamento di Natale. Il Papa, anche per spronare Rodolfo, ordinò ad Aldobrandini di tornare sul campo di battaglia e coprirsi ancora una volta di gloria. All’inizio di febbraio del 1597 il generale si mise in movimento. Giunto in Ungheria, ottenne subito qualche vittoria e propose di attaccare Buda (a suo avviso, solo «un grande successo contro la capitale dell’Ungheria ottomana avrebbe dato coraggio agli ungheresi e ai transilvani»). Il 4 novembre ci fu un confronto in campo aperto fra soldati pontifici e ottomani, «praticamente da soli a soli». E gli uomini di Clemente VIII ebbero la meglio. Il Papa ne gioì nuovamente ma quella fu l’ultima volta che ebbe occasione di compiacersi per ciò che accadeva in terra ungherese. Dopo quello scontro — anche per mancanza di risorse economiche — le truppe cattoliche furono fatte rientrare e passarono quasi quattro anni prima che, nel 1601, venissero rispedite sul luogo per la terza e ultima missione, sempre guidata da Aldobrandini. Il Papa adesso si era convinto che gli Asburgo non fossero più una famiglia compatta e che alla corte dell’imperatore ci fossero troppi protestanti che boicottavano le imprese militari sotto insegne cattoliche. Tra i soldati poi l’entusiasmo si era spento per il deludente esito delle campagne precedenti e si era stati costretti a ricorrere al reclutamento di banditi ai quali veniva promessa l’impunità (a patto che, una volta tornati in patria, non riprendessero a delinquere).
Vennero persino arruolati, nota Brunelli, «sudditi già condannati per aver contravvenuto agli ordini di non militare per altri sovrani». Una soldataglia che in molti casi aspettava solo la paga per poi disertare. Si diffuse poi la voce di trattative in extremis tra Rodolfo II e il sultano e a Roma iniziarono i borbottii contro imprese che «non portavano a niente», provocavano un ingente «spreco» di risorse al quale si accompagnavano anche delle «ruberie». Per di più si era in estate, un’estate torrida, e Aldobrandini, ormai sicuro di sé, si lasciava andare a qualche eccesso nel consumo di vino e frutta ghiacciata. Effetto degli eccessi fu una febbre improvvisa che lo avrebbe portato dritto alla morte. Nel mentre i soldati, senza più la sua guida, andavano incontro alla catastrofe militare. Fu come un segno divino: dopo quei giorni infausti il Papa non si sarebbe più cimentato in questo genere di impresa, avrebbe smesso di sognare la «Lepanto ungherese», sarebbe tornato a sovvenzionare (malvolentieri) Rodolfo II, e — a celebrazione della «santa impresa» — si sarebbe limitato a riportare a casa il cadavere del valoroso «nipote» per rendergli sontuosi onori funebri.
Il funerale barocco del «capitano generale di Santa Chiesa» fu celebrato il 30 dicembre del 1601. Erano presenti, oltre al Papa, quasi tutti i prelati della Curia. L’orazione, tenuta dal gesuita Francesco Sacchini, fu interamente dedicata all’esaltazione del casato a cui apparteneva il defunto (nonché il Pontefice). Il vicegerente della diocesi di Roma, l’arcivescovo Berlingerio Gessi, aveva l’ordine di annotare chi fosse mancato alla cerimonia. I gendarmi dovevano altresì prender nota dei commenti dei cittadini comuni. Qualcuno, sorpreso a sparlare del morto, fu arrestato su due piedi. Venne messo in prigione persino un frate che raccontava di aver sognato, la notte prima, proprio quel funerale e di aver constatato ben nitidamente «che tutte queste spese erano fatte al vento». Forse le spese per le pubbliche esequie furono eccessive, ma la «santa impresa» degli Aldobrandini fu tutt’altro che superflua. E diede alla Chiesa — per quel che riguarda la storia della resistenza alle invasioni musulmane — titoli che fino a quel momento le erano mancati.