venerdì 4 maggio 2018

Repubblica 4.5.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro
Da prigioniero a condannato
di Ezio Mauro


La porta della cella è chiusa da 35 giorni, e oggi l’uomo incappucciato non si presenta davanti al prigioniero per interrogarlo, dargli qualche scampolo di notizia sulle reazioni esterne al sequestro, leggere le lettere che lui ha scritto di notte. Mario Moretti è partito in treno per una riunione dell’Esecutivo Br, l’ultima, quella decisiva. Si incontra con Bonisoli, Azzolini, Micaletto, valutano gli ultimi segnali che arrivano dalla Dc e dal governo, lui racconta le mosse di Moro, la convinzione di Gallinari che bisogna arrivare ad una conclusione, l’impazienza di Germano Maccari: che l’altra sera si è quasi ribellato all’obbligo di impersonare ventiquattr’ore al giorno l’“ingegner Altobelli”, vuole uscire (riesce a farlo quattro volte), vedere Adelaide, la sua ragazza che lo crede a Genova per lavoro, non accetta il comandamento brigatista di rompere i legami sentimentali quando si è in azione, come invece ha fatto Anna Laura Braghetti prima del sequestro lasciando Bruno Seghetti. Gallinari e Maccari quasi non si parlano più, la tensione e la paura crescono, quella prigione nascosta in fondo allo studio si dilata davanti a loro da scena di un sequestro a incubo dell’ultimo atto. I quattro dell’Esecutivo capiscono che non otterranno il riconoscimento politico che cercano fuori, dallo Stato, e decidono di giocare il tutto per tutto dentro l’area rivoluzionaria, per conquistare l’egemonia tra i gruppi armati caricandosi il peso del gesto estremo. Lanciano una consultazione nelle quattro “ colonne” Br, sondano i capi storici in carcere a Torino: sono tutti d’accordo, meno Morucci e Faranda. Quando Moretti torna nel “covo”, dice che la decisione è presa, non si può più aspettare. Bisogna uccidere Aldo Moro.
La notte, Anna Laura Braghetti trova Moretti seduto nel salotto, al buio, da solo. Due uomini insonni sono separati da una finta libreria che nasconde una prigione, divisi tra la sopraffazione e l’inermità, congiunti da un destino che sta per compiersi, scelto dal primo, contrastato a mani nude dal secondo. Il prigioniero sta scrivendo i suoi addii. Il carceriere valuta il percorso di un’azione che è nata da una strage per diventare un rapimento, poi un sequestro, quindi una prigionia che non ha portato al risultato politico inseguito fin dal primo giorno: e adesso implode in un delitto, perché il 16 marzo Moro è entrato in cella come condannato, e da quel momento le Br hanno condannato se stesse all’esecuzione. C’è ancora un incontro a piazza Barberini di Moretti e Balzerani con Morucci e Faranda, contrari a uccidere un ostaggio inerme mentre si chiede allo Stato la liberazione di prigionieri. Pranzo in trattoria, poi discussione molto lunga e agitata, più di tre ore passeggiando. Un vertice brigatista all’aperto, nel pieno centro della capitale. Finché Moretti, a sorpresa, decide di chiamare personalmente casa Moro, anche se sa che quella chiamata sarà intercettata e registrata, ha tempo appena tre minuti prima che scatti la rilevazione della polizia.
Non ha il mandato dell’Esecutivo per questa mossa. Decide da solo. Dopo 55 giorni passati a tu per tu con Moro nell’interrogatorio, dopo aver letto tutte le sue lettere, cerca di guadagnare tempo, e sull’orlo del precipizio non ne ha più. Ha visto Moro pregare in ginocchio dallo spioncino, lo ha sentito parlare ogni giorno della sua famiglia, ha ascoltato le ultime proposte che il prigioniero gli ha rivolto inventandole nel fondo della sua angoscia: « Perché non mi salvate la vita, condannandomi all’ergastolo? Sono pronto ad entrare in carcere appena uscirò di qui, chiederò io di andare all’Asinara » . Lo ha ancora sentito ieri, mentre gli chiedeva di usare la moglie e i figli come arma finale di pressione sulla Dc, sul governo, sul Vaticano. Adesso tenta di giocare un’ultima carta di testa sua, prima della pistola.
I quattro vanno alla stazione Termini, entrano nel sottopassaggio, tre si schierano di copertura davanti a una cabina, il capo delle Br infila il gettone, compone il numero per chiamare la disperazione: 3379308. Il telefono risuona alle quattro e mezza del pomeriggio in via del Forte Trionfale 79. Risponde la moglie di Moro, Moretti la scambia per la figlia: « Senta, io sono uno di quelli che ha qualcosa a che fare con suo padre. Devo farle un’ultima comunicazione. Noi facciamo questa telefonata per puro scrupolo, perché finora avete fatto tutte cose che non servono a niente. Noi crediamo invece che i giochi siano fatti e abbiamo già preso una decisione. Nelle prossime ore non potremo fare altro che eseguire ciò che abbiamo detto nel comunicato numero 8. Solo un intervento diretto, immediato e chiarificatore, preciso, di Zaccagnini può modificare la situazione. Se questo non avviene nelle prossime ore…». Eleonora Moro prova a spiegare che la famiglia può fare poco, le voci si accavallano, poi Moretti alza il tono: «Guardi, non posso discutere, non sono autorizzato a farlo».
E qui c’è il passaggio più drammatico, che riassume tutta la sproporzione della tragedia, tra l’arbitrio e la disperazione. Appesa al telefono con l’uomo che ha in mano suo marito, pur di non rompere l’ultimo filo, sperando in una qualsiasi indicazione praticabile, qualche spazio di speranza, la moglie di Moro abbassa la voce: «Le chiedo scusa » . Come se quel « dominio pieno e incontrollato » avviluppasse in un’unica sorte la vita di un’intera famiglia, anche fuori dalla cella, persino nel mondo libero.
Dentro la cella, Moro si è già dimesso dalla presidenza della Dc, ha fatto testamento, si è congedato dai suoi amici più stretti. Adesso chiede che ai suoi funerali non partecipino uomini di partito, autorità dello Stato, non vuole cerimonie pubbliche: «Ricevo come premio dai comunisti, dopo la lunga marcia, la condanna a morte». «Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia che io adoro. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Andreotti né per la Dc né per il Paese, ciascuno porterà la sua responsabilità». La famiglia fa eco, con un ultimo drammatico appello al partito, accusato insieme a tutto il mondo politico di aver dichiarato Moro “ sostanzialmente pazzo”: « Sappia la Dc che questo comportamento di immobilismo e di rifiuto ratifica la condanna a morte».
È il momento degli addii. Il condannato scrive ai figli, ad uno ad uno, ricorda la «dolce infanzia» di Giovanni e gli consiglia di non seguire la strada della politica, affida Anna e Maria Fida « all’aiuto di Dio » , racconta ad Agnese « l’angoscia di doverti lasciare » , saluta il nipotino Luca: « Non so chi e quando ti leggerà questa lettera del tuo caro nonno. Saprai così che tutti ti abbiamo voluto un gran bene ed il nonno, forse, appena un po’ più degli altri. Ed ora il nonno Aldo è costretto ad allontanarsi un poco, ma vuole restarti vicino. Tu non mi vedrai, forse, ma io ti seguirò nei tuoi saltelli con la palla, ti accarezzerò dolcemente il viso e le mani, ti sarò accanto la notte, per cogliere l’ora giusta della pipì, e farti poi dolcemente riaddormentare » . Infine la moglie Eleonora, cui quattro giorni prima dell’assassinio va l’ultima lettera, come a lei era andata la prima: « Siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza. Vorrei capire coi miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo».
Mentre chiedono di trattare, le Br continuano a sparare, feriscono due dirigenti industriali a Milano e Genova, i “Proletari armati per il comunismo” colpiscono alle gambe un medico dell’Inam a Milano. A Roma la Procura generale avoca le indagini sul caso Moro togliendole al giudice Infelisi, si parla di un possibile atto di grazia del presidente della Repubblica Leone per un detenuto politico,
comincia a chiedersi perché le indagini non vanno avanti: « Le paralizzano insufficienze tecniche o incontrano sulla loro strada oscuri e protetti santuari? » . Segretamente, giovedì 5 maggio il ministro degli Interni Cossiga distribuisce a tutti gli organi coinvolti i piani “ Victor” e “ Mike” che fissano i codici di comportamento decisi dal governo nel caso in cui Moro venga ritrovato morto (“Mike”) o venga rilasciato vivo: subito dopo la liberazione “Victor” stabilisce che il sequestrato venga ricoverato al policlinico Gemelli, dove viene predisposto un trattamento de-condizionante e riabilitativo dal punto di vista psicologico.
La stessa sera, arriva il comunicato numero 9, l’ultimo. Contano solo le parole finali: « Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Dunque il rapimento  era una «battaglia». La sentenza era l’arma, la condanna la posta politica in gioco. Adesso tutto precipita nel buio dell’esecuzione.
Scelto con cura quasi democristiana, quell’«eseguendo» indica una decisione presa però ancora sospesa, dall’operatività non definita, dunque all’ultima mercé di uno scambio politico in extremis, in uno spazio che i brigatisti hanno ormai ristretto nei tempi e nei modi quasi a nulla. Appena tre giorni prima, nell’ultimo incontro tra Pace, Morucci e Faranda si era ragionato sul nome della brigatista Paola Besuschio, in carcere ma malata, come possibile soggetto di negoziato. Signorile incontra Fanfani chiedendogli di muovere le acque nella Dc, Fanfani va a casa Moro, poi parla con Zaccagnini. Tutti aspettano la direzione democristiana di martedì, 9 maggio.
Ma intanto nell’“ufficio” di via Chiabrera con Morucci e Faranda si riuniscono per l’ultima volta Moretti, Seghetti, Balzerani. Bisogna decidere le modalità tecniche dell’esecuzione, come i terroristi chiamano l’assassinio. Tocca alla colonna romana scegliere le armi, che avranno il silenziatore e non dovranno forare la carrozzeria dell’auto. Si punta sulla Walter PPKS calibro 9 corto, una pistola semiautomatica, e sulla mitraglietta Skorpion 7,65. Ho potuto aprire la scatola rigida custodita nell’ufficio reperti del Ris, a Roma, per vedere quarant’anni dopo le due armi, la mitraglietta dei brigatisti e la pistola silenziata, strumenti consumati e invecchiati della più grande tragedia politica italiana, una tragedia che testimoniano col loro solo apparire, come l’evidenza concreta di un incubo. Ma in quel momento la scelta delle armi è quasi una derivata tecnica, una valutazione militare. «Allora è deciso – dice Moretti alla fine della riunione –: chi lo fa?». Silenzio. Si guarda attorno, e subito aggiunge: «Ho capito. Tocca a me».
Il Capo delle Br entra nella cella e informa Moro che non c’è più spazio di negoziato. L’altra volta, alla notizia della condanna a morte, il prigioniero si era ribellato con il silenzio, rifiutando il cibo. Adesso capisce che non c’è tempo, tutto sta finendo. Scrive il suo saluto su un ultimo biglietto alla moglie: «Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge l’ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente. Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti. Un bacio d’amore a tutti. Aldo».
La lettera arriva a casa Moro il 5 maggio. Il giorno dopo l’Esecutivo decide la data dell’esecuzione: è per il 9 maggio, un martedì. Quando  Moretti porta la notizia in via Montalcini, trova le obiezioni di Maccari, ormai in aperto dissenso, senza sapere che anche Morucci e Faranda sono contrari all’uccisione dell’ostaggio. A questo punto non c’è altra strada possibile, risponde Moretti, salvo sciogliere le Br. È la stessa cosa che ripete ad Anna Laura Braghetti, che chiede a lui e a Gallinari di aspettare ancora, di guadagnare tempo: il sequestro dura da quasi due mesi, tutto il Paese cerca il prigioniero, è in gioco anche la sicurezza dell’organizzazione – è la risposta dei due –. E in ogni caso, la rivoluzione non è un pranzo di gala.
Ma il prigioniero ha smesso di combattere o continua a sperare? Se lo domandano nelle ultime ore Maccari e Braghetti. Concludono che Moro sa: ha capito che la trattativa è bloccata, lo spazio politico è chiuso, gli ultimatum sono finiti, dunque la sua vita è davanti ad un concreto pericolo immediato. In più Moretti gli ha ripetuto più volte di non augurarsi un blitz di polizia, perché al primo allarme Gallinari entrerebbe nella prigione e gli punterebbe una pistola alla testa, per fare scudo ai terroristi col corpo del prigioniero. Dunque, Moro capisce che tutto va verso la fine, perché si sono chiuse tutte le vie di scampo. Ma da cattolico, dice Maccari, il prigioniero continua a sperare, nonostante tutto.
Finché arriva quel martedì, il 9 maggio, e Moretti sveglia il prigioniero alle 6 del mattino. C’è un’emergenza, bisogna spostarsi al più presto, non c’è tempo nemmeno per lavarsi, anzi deve cambiarsi, togliere la tuta e rimettere i suoi vestiti. Forse Moro sospetta, forse invece spera: si sentono braccati? Qualcuno si sta avvicinando? Si cambia prigione? O si va verso la fine di tutto? Ecco il secondo uomo, gli porta le scarpe, le calze, camicia, cravatta e gilet, con il suo vestito scuro, quello che indossava il 16 marzo. Perché gli ridanno i vestiti, che cosa hanno in mente, cosa vogliono fare di lui?
Hanno preparato tutto il giorno prima. La Braghetti è scesa per la scale fino al garage alle 6.45 del mattino, per capire se a quell’ora il condominio era tranquillo. Poi ha liberato il box in garage, togliendo l’“Ami 8” famigliare e posteggiandola in strada. Al suo posto è arrivata una “ R4” rossa, e ha fatto manovra in retromarcia per entrare di coda. In casa, di notte, hanno steso i pantaloni di Moro sul tavolo, poi li hanno spruzzati con l’acqua di mare raccolta in un flacone da Faranda e Balzerani sul litorale romano, per depistare le indagini dopo l’assassinio. Nei risvolti, granelli di sabbia, tracce di bitume, legnetti presi dalle barche ormeggiate sulla riva, per guadagnare tempo dando alla “scientifica” false informazioni sulla prigione.
Dalla fessura aperta della porta, gli dicono di sbrigarsi. Moro si veste in fretta, con le mutande lunghe di lana sopra gli slip, come se non fossero passati quasi due mesi da quel mattino di marzo, dal tardo inverno alla primavera. Fa velocemente un nodo sbagliato alla cravatta, con la parte in vista più corta dell’altra, si infila le calze blu al contrario. È pronto. «Mi saluti i suoi colleghi», dice a Moretti prima di raccogliersi dentro la grande cesta di vimini con i manici dove lo fanno entrare coprendolo con un plaid. Moretti e Maccari si tolgono il cappuccio dal viso: ormai non serve più.
Scende prima Braghetti, le scale sono libere, poi i due con la cesta. Venti secondi la prima rampa, pianerottolo, venti l’altra. Ecco il grande garage condominiale. La saracinesca del box è abbassata ma solo a metà, perché il bagagliaio sul fondo è spalancato e prende spazio, davanti spunta il muso rosso della Renault. Moretti aiuta Moro a rialzarsi dalla cesta, gli dice di sedersi nel bagagliaio. Ma improvvisamente si sente il rumore dell’ascensore. « Fermi » , ordina Braghetti di guardia sulla porta delle scale. Fanno accucciare Moro, gli coprono il viso col plaid. Scende l’inquilina del terzo piano, trova la Braghetti davanti al box, la R4 rossa che spunta, si salutano. L’auto non parte subito, i brigatisti sono curvi nel box, immobili, poi il motore si accende, la macchina esce e torna il silenzio.
Dal bagagliaio dell’auto, nella luce fioca che arriva in fondo al box, Moro adesso guarda i suoi carcerieri a viso scoperto dopo 55 giorni, e capisce. Ha appena sentito l’allarme nel garage, voci, rumori: ma non ha urlato e non ha chiesto aiuto. Tutto è consumato.
Moretti rialza il bordo del plaid sul volto di Moro. C’è una prima raffica, un attimo sospeso. Poi una seconda, breve. Nove colpi. Cercavano il cuore. Moretti dice di aver sparato da solo. Faranda aggiunge che ha avuto un cedimento, ha dovuto sparare anche Maccari: che invece spiega di aver solo passato a Moretti la mitraglietta, quando si è bloccata la pistola.
L’uomo nel bagagliaio è accasciato su se stesso, riverso da sinistra a destra, sembra appoggiato alla ruota di scorta. Tamponano la ferite con fazzoletti di carta, coprono il corpo, chiudono il portellone. Eccoli che spuntano dal fondo del box nella luce del garage con una borsa di tela dove hanno nascosto le armi. La consegnano ad Anna Laura Braghetti, le chiedono di controllare se la strada è libera. Mettono in moto. Lei fa un cenno con la mano, adesso possono partire.
Lentamente, col suo carico segreto, la R4 esce dal garage, si affaccia su Roma per l’ultimo viaggio di Moro. Nel fumo del gas di scarico, alle 7 del mattino, su una tragedia lunga 55 giorni si chiude la saracinesca anonima del covo.