mercoledì 23 maggio 2018

Repubblica 23.5.18
Se l’Europa ha smesso di sognare
di Paul Krugman


Dovendo indicare dove e quando abbia trovato massima realizzazione il sogno umanitario, ossia l’ideale di una società che garantisce un’esistenza dignitosa a tutti i suoi membri, è giusto citare l’Europa occidentale nei sessant’anni successivi alla Seconda guerra mondiale. È stato uno dei miracoli della storia: un continente devastato dalla dittatura, dal genocidio e dalla guerra si è trasformato in un modello di democrazia e di prosperità ampiamente diffusa.
Infatti nei primi anni di questo secolo gli europei sotto molti aspetti stavano meglio di noi americani. A differenza nostra avevano l’assistenza sanitaria garantita e di conseguenza un’aspettativa di vita più alta; registravano tassi di povertà molto inferiori ai nostri e avevano effettivamente più prospettive di impiego retribuito all’inizio della carriera lavorativa. Ora invece l’Europa è nei guai. Guai grossi. Come noi, del resto. Se è vero che la democrazia è sotto assedio su entrambe le sponde dell’Atlantico, è anche probabile che, nel caso, crolli prima qui da noi. Ma vale la pena di staccarci un attimo dal nostro incubo trumpiano e di volgere lo sguardo alle disgrazie europee, alcune, ma non tutte, paragonabili alle nostre.
Molti dei problemi che affliggono l’Europa derivano dalla decisione disastrosa, presa una generazione fa, di adottare la moneta unica. La nascita dell’euro condusse a una temporanea fase di euforia in cui Paesi come Spagna e Grecia furono inondati di denaro; poi la bolla scoppiò. I Paesi come l’Islanda, che avevano mantenuto la loro valuta, furono in grado di riguadagnare rapidamente competitività svalutando la propria moneta. Le nazioni dell’eurozona, invece, furono costrette a subire una lunga fase di depressione, con tassi di disoccupazione altissimi, lottando per ridurre la spesa pubblica.
La situazione peggiorò ulteriormente perché l’élite sposò contro ogni evidenza la tesi secondo cui i problemi europei non derivavano dal disallineamento dei costi, bensì dallo sperpero delle finanze pubbliche, indicando come soluzione una rigida austerità, con il risultato di aggravare la depressione. Alcuni Paesi vittima dell’eurocrisi, come la Spagna, sono riusciti infine a riguadagnare faticosamente competitività. Altri invece no. La Grecia continua a essere disastrata e l’Italia, una delle tre grandi economie rimaste nell’Unione europea, sono ormai vent’anni che soffre a vuoto: il Pil pro capite non supera oggi quello del 2000. Non sorprende poi tanto quindi che alle elezioni di marzo in Italia abbiano trionfato i partiti anti-Ue: il populista Movimento Cinque Stelle e la Lega, compagine di estrema destra. In realtà sorprende che non sia successo prima.
I due partiti ora sono impegnati a formare un governo. Non è del tutto chiaro quali saranno le politiche di questo governo, ma senza dubbio comporteranno una rottura con il resto d’Europa su vari fronti: la revoca dell’austerità di bilancio, che potrebbe sfociare nell’uscita dall’euro, nonché misure restrittive nei confronti degli immigrati e dei rifugiati. Nessuno sa come andrà a finire, ma gli sviluppi registrati altrove in Europa costituiscono dei precedenti inquietanti. L’Ungheria è diventata effettivamente un’autocrazia a partito unico, dominata da un’ideologia etnonazionalista. La Polonia sembra ben avviata nella stessa direzione.
Cosa è andato storto rispetto al “ Progetto europeo”, il lungo cammino verso la pace, la democrazia e la prosperità, sostenuto da un’integrazione politica ed economica sempre più profonda? Come ho detto, l’enorme errore dell’euro ha avuto un gran peso. Ma in Polonia, Paese che non ha mai aderito all’euro e si è barcamenato uscendo pressoché incolume dalla crisi economica, la democrazia sta crollando lo stesso.
Vorrei dire però che ci sono dei retroscena più ampi. In Europa sono sempre esistite delle forze occulte (come da noi). Alla caduta del muro di Berlino un politologo di mia conoscenza fece una battuta: «Ora che l’Europa dell’Est è libera dall’ideologia estranea del comunismo, può tornare al suo vero corso: il fascismo». Sapevamo entrambi che aveva ragione.
A tenere a bada queste forze occulte era il prestigio dell’élite europea legata ai valori democratici. Ma quel prestigio è andato in fumo per via del malgoverno, e ad aggravare il danno è stato il rifiuto di guardare in faccia la realtà. Il governo ungherese ha voltato le spalle a tutti i valori europei, ma continua a ricevere aiuti su larga scala da Bruxelles. E qui, mi sembra, sono evidenti i paralleli con la situazione in America.
È vero, noi non siamo stati vittima di un disastro paragonabile all’euro ( abbiamo sì una valuta estesa al continente, ma disponiamo di istituzioni finanziarie e bancarie federali che la rendono funzionale). Le nostre élite “moderate” però, quanto a valutazioni sbagliate, sono paragonabili alle loro controparti europee. Non va dimenticato che nel 2010-11, quando gli Usa erano ancora vittima della disoccupazione di massa, la maggior parte dell’l’establishment conservatore, a Washington, era ossessionato, pensate un po’, dalla riforma previdenziale.
Nel frattempo i nostri moderati, assieme a gran parte dei mezzi di informazione ossessionati dalla par condicio, per anni si sono rifiutati di ammettere che il Partito repubblicano si è radicalizzato. Così oggi l’America si ritrova governata da un partito che nutre nei confronti delle regole democratiche e dello stato di diritto scarso rispetto quanto Fidesz in Ungheria. Il fatto è che i guai dell’Europa fondamentalmente sono gli stessi dell’America. E in entrambi i casi il cammino verso il riscatto sarà molto, molto arduo.
Traduzione di Emilia Benghi © 2018 New York Times News Service