Repubblica 13.5.18
Io Lenin, tu Lennon
A rimettere ordine
nei miti del ’68 ci voleva un signore di 97 anni che ripubblica, mezzo
secolo dopo, le riflessioni di allora. Non fu rivoluzione ma rivolta
generazionale. E quel magma di istanze antitetiche, tra politica e pop,
brucia fino a noi
di Marino Niola
Il Sessantotto
non ha cambiato la politica, ma ha rivoluzionato le nostre esistenze. A
dirlo è il filosofo e sociologo Edgar Morin in Maggio 68. La breccia,
in uscita da Raffaello Cortina. Il libro si compone di testi in presa
diretta, usciti su Le Monde nel maggio 1968 arricchiti da una
illuminante riflessione scritta nel gennaio scorso. Sono pagine
traboccanti di passione e di emozione. Dove si avverte l’incandescenza
magmatica del sommovimento, colta in tutta la sua virtualità generatrice
di futuro. Morin, che l’8 luglio compirà novantasette anni, individua
le conseguenze di lunga durata di quella grande marea, la cui onda di
ritorno arriva fino a noi. In effetti quel fremito prolungato che
attraversa la schiena dell’Occidente borghese e non solo, dalla rivolta
di Berkeley al Maggio francese, da Valle Giulia a Woodstock, da Piazza
San Venceslao al Cairo di Nasser, ha finito per aprire una breccia al di
sotto della linea di galleggiamento della nostra civiltà. E ad
assestare il primo colpo è stato un movimento transnazionale e
trans-ideologico di adolescenti inquieti. Antiliberisti libertari,
terzomondisti atrabiliari, situazionisti incendiari, maoisti
conseguenziari, leninisti dottrinari, trotzkisti visionari, che non
reclamavano un posto al tavolo dei grandi.
Volevano rovesciare il
tavolo. Rifiutavano di vivere come i genitori, disprezzavano l’idea
stessa di carriera. Aborrivano il mondo adulterato degli adulti, con la
sua ragionevolezza fatta solo di calcolo, di economia, di interesse, di
utile. “Siate ragionevoli, chiedete l’impossibile!” era uno degli
slogan. Il marxismo è stato il connettivo che ha permesso di tenere
insieme questo patchwork multicolore e multivalore, più surrealista che
leninista. E ha fornito un linguaggio in grado di unificare la
molteplicità di istanze parricide che sono il vero minimo comune
denominatore di quella che è stata, prima di tutto, una rivolta contro i
genitori.
Contro il “seminirvana consumistico”. E contro i
simboli e le istituzioni che davano corpo e anima all’autorità. Dalla
famiglia allo stato, dalla scuola all’esercito, dalla Chiesa alla
scienza, fino all’università dei baroni.
Destinata a diventare il
vero epicentro del terremoto sessantottino. Assestando “un colpo
profondo al basso ventre di una società che aveva schierato dappertutto
le sue difese, salvo che nella sua nursery sociologica”. A dire il vero,
nell’immaginario della contestazione, più che il Capitale e i
Grundrisse c’erano Rousseau, Rimbaud e perfino Thoreau, sapientemente
amalgamati con il placebo comunista da una coorte di maître- à- penser
che nel magnetismo pulsionale, emozionale, libidinale di quel momento
hanno trovato una seconda giovinezza. Un elisir di lunga vita che ha
fatto del forever young la sola, vera classe d’età della società
postmoderna. All’immagine tradizionale dell’adulto-padre, dice Morin, il
movimento “contrappone l’immagine incompiuta di un’adolescenza
permanente”.
Non una stagione anagrafica, dunque, ma un’eterna
primavera del corpo e dell’anima, del desiderio e della libertà. Nel
vortice della contestazione globale, la parola d’ordine lanciata da
Jean-Paul Sartre, “ribellarsi è giusto”, diventa una chiamata al
levantamiento generazionale. Non solo contro genitori e professori. Si
rivoltano anche gli operai contro dirigenti e padroni, i medici contro
la casta dei primari, gli scrittori contro gli editori paternalisti. E i
ragazzi ebrei contro i vecchi rabbini per “farsi riconoscere il diritto
di trattare le questioni religiose”. È più ebollizione che rivoluzione.
E dietro il mantra marxiano dell’intellettuale organico, affiora
l’antifona reichiana dell’intellettuale orgonico. Che risuona tra le
performance estreme del Living Theater che portano in scena il tramonto
dell’Occidente e le tracce di un oriente dell’anima che molti vanno a
cercare a Benares e a Katmandu. Una generazione in cerca di altro,
qualunque sia quest’altro. Basta che non somigli a quel che ci hanno
tramandato papà e mamma. Così il rifiuto del proprio mondo porta alla
costruzione di universi utopici, di autentici ready made mitologici che
vedono nella differenza l’antidoto contro la familiarità dalla quale ci
si vuole emancipare. Ecco perché la rivoluzione, il socialismo, il sol
dell’avvenire, più che un progetto politico sono un mito fusionale,
spesso confusionale, sospeso tra istanze antitetiche. Marcuse e il Che,
Mao e Hailé Selassié, guardie rosse e pantere nere, Gramsci e Krishna,
Lenin e Lennon, pacifismo e lotta di classe, revival folk e femminismo,
nuove spiritualità e stati alterati di coscienza, figli dei fiori e
minigonne, la comune di Parigi e il Ristorante di Alice. Da quel magma
nascono molte scelte di vita che hanno a che fare più con il personale
che con il politico e che oggi sfociano spesso nell’antipolitica.
Perché
molte delle idee che sono alla base di fenomeni attuali come populismo,
antiglobalismo, neotradizionalismo, revival identitario,
antiscientismo, antiautoritarismo, ambientalismo e persino il
rousseauvianesimo digitale, sono il frutto tardivo della contestazione.
Come dire che il movimentismo attuale non è figlio di NN. Né nasce solo
dai new media. Ma è l’ultimogenito, non riconosciuto, della
controcultura, di quel protagonismo disseminato e degerarchizzato del
“Non ho niente da dire, ma lo voglio dire”. Che nella rete e attraverso
la rete riesce a piazzare il colpo vincente e trasformare la demagogia
in egemonia. O almeno ci prova.