lunedì 21 maggio 2018

La Stampa TuttoLibri 21.5.18
Da che mondo è mondo o quasi gli ebrei aspettano il Messia
Quando spunta il falso messia Satana seduce la moglie del rabbino
Dopo il feroce pogrom di cosacchi che devastò nel ’600 il mondo yiddish polacco un villaggio vicino a Lublino viene sconvolto da un visionario cabalista
di Elena Loewenthal


Da che mondo è mondo o quasi gli ebrei aspettano il Messia. Lo aspettano con una fede incrollabile e colma di speranza, che ripetono tre volte al giorno nella preghiera: credo fermamente che il Messia verrà. E’ un’attesa millenaria che si è molto spesso scontrata con una realtà che diceva tutto il contrario e teneva i figli d’Israele tenacemente legati al proprio destino, lasciando immaginare che nulla sarebbe mai cambiato. Per l’ebraismo, del resto, il Messia è «soltanto» l’interruttore umano che aprirà le porte di una dimensione spazio-temporale completamente diversa: in ebraico è detta olam haba, «mondo/tempo che viene» contrapposto all’olam hazeh, l’imperfetto terreno esistenziale dove ci troviamo ora.
«Non verrà mai, però dobbiamo aspettarlo», ha detto un maestro del Talmud dallo sguardo scettico in fondo in fondo bonariamente ottimista, visto che gli ebrei hanno del Messia anche un pizzico di paura. Paura dell’ignoto. Di non ritrovarsi nel mondo che verrà. Fors’anche per questo nella storia si sono avvicendati dei messia che in un certo senso è difficile definire «falsi» perché ognuno di loro portava con sé la propria verità. E ognuno di loro ha creato intorno a sé un fermento speciale, ha aperto porte, fatto riflettere. Soprattutto animato e impersonato delle grandi storie.
E chi se non il grande Isaac Bashevis Singer avrebbe potuto mettere in pagina almeno una di queste storie avvincenti che hanno per protagonista un «falso» Messia? Satana a Goraj, che Adelphi ripubblica ora nel contesto del progetto di riedizione completa delle opere del Premio Nobel a cura di Elisabetta Zevi, racconta questa storia, insieme a tante altre.
Pubblicato originariamente in yiddish nel lontano 1935 e una trentina d’anni dopo nella traduzione inglese di Jacob Sloan seguita direttamente dall’autore, questo romanzo racconta la storia fosca e triste di Goraj, una cittadina polacca della provincia di Lublino «nascosta fra le colline in capo al mondo... un tempo celebre per i suoi studiosi e i suoi uomini d’ingegno» che nel 1648 viene devastata dai cosacchi. E’ il pogrom del famigerato «atamano ucraino» Chemelnesky che quell’anno massacrò gli ebrei di tutta la regione, scorticando uomini, vendendoli schiavi, sgozzando bambini, violentando le donne «per poi squarciarne i ventri e cucirvi dentro gatti vivi».
Di quel pogrom terribile mai s’estinse la memoria: divenne una sorta di cruenta pietra di paragone. E come capita quasi sempre nella storia ebraica, a questi eventi terribili fa di solito seguito un’ondata di speranze, nell’imminenza di un cambiamento radicale che solo il Messia potrà portare, proprio perché il suo arrivo, dice la tradizione, deve essere preceduto da doglie di sofferenza e assurdità inaudite.
Singer racconta questa atmosfera, racconta l’epopea di quello che fu forse il più grande falso Messia della storia ebraica - Shabbetai Zevi - dalla prospettiva di questa cittadina più morta che viva. Qui, fra il 1665 e il 1666 (data non casuale, con tutti quei 6 che rimandano all’Apocalisse di Giovanni) i postumi del pogrom con il suo strascico di orfani e pazzi perché impazziti dal dolore, di rabbini cenciosi che vagano per le campagne, fanciulle ammutolite e matrone pettegole, si incrociano con la ventata di follia ed eresia che la predicazione di Shabbetai sta portando in giro per quella parte di mondo.
«E’ una storia di isterismo religioso,» scrive il traduttore inglese nella «Nota al testo», che Singer racconta con una maestria unica, proprio perché questo grande scrittore che sa essere così dolce fu sempre affascinato dall’ambiguità del reale, per non dire dal suo lato oscuro. Le atmosfere a Goraj sono colme di quel turbamento esistenziale che Singer serbò sempre dentro di sé. Tutto è inquietante, tutto è pieno di segnali indecifrabili eppure eloquenti, tutto è macabro: lo è più che mai il matrimonio della giovane Rechele con il rabbino cabbalista Itche Mates, che sta al centro del racconto e che innesca una serie di eventi tanto strabilianti quanto tenebrosi.
A Goraj non c’è nessun personaggio che si salvi: sono tutti intaccati da una specie di maledizione, sono tutti ormai incapaci di scendere a patti con la realtà. Tutta la storia si svolge in uno scenario segnato dalla distruzione, quella appena passata e quella imminente. Eppure ancora una volta Singer riesce a cogliere l’ambiguità che sta nel mondo e nell’uomo, e regalare al suo lettore sprazzi di luce ma soprattutto di ironia, fra una comparsata e l’altra di quel Satana che è il protagonista indiscusso della storia e che tanto per cambiare della storia si fa beffe. E se, come dice quel vecchio adagio ebraico, «l’uomo traffica e Dio se la ride», chi meglio di questo grande scrittore ci ha spiegato che tanto in cielo quanto giù negli inferi nessuno ci prende sul serio.