domenica 20 maggio 2018

La Stampa 20.5.18
La stagione della grande diseguaglianza
Ma nel “Contratto” la parola non compare
di Stefano Lepri


Indigna di più che l’amministratore delegato di una banca guadagni 90 volte lo stipendio medio dei suoi dipendenti, o che un giovane precario possa essere licenziato per un’inezia, mentre nel pubblico impiego viva tranquillo un certo numero di fannulloni?
Facile dire che il voto ai partiti populisti viene dalla rabbia verso le diseguaglianze. Proprio quando dalla crisi si comincia a uscire vengono avvertite di più: se alcuni riprendono ad avanzare, chi resta fermo si esaspera. Ma quali aspetti contano davvero? Nel contratto M5S-Lega la parola non compare; alcune delle misure previste ridurrebbero le disparità di reddito, altre, come la nuova Irpef, le accrescerebbero. Del rancore verso «quelli in alto» non sempre si capisce se sia questione di ricchezza, di potere delle cosiddette caste, di status sociale, di identità.
Tra i più convinti che il voto di protesta abbia cause economiche, non culturali, è Luigi Guiso, professore all’Eief (ex Ente Einaudi): «Riscontriamo un legame forte in tutta l’Europa Occidentale». Il suo più recente studio, con i colleghi Herrera, Morelli e Sonno, è apparso a inizio mese. «Anzi, la correlazione tra voto populista e disagio economico, misurato come esposizione alla globalizzazione e vulnerabilità finanziaria, è ancora più visibile nell’area euro; si distinguono le regioni dove la concorrenza dei Paesi emergenti ha cancellato posti di lavoro» prosegue. Ma quanto incidono quelle che chiamiamo diseguaglianze? «Difficile dirlo. Se ne creano di nuove, che sfuggono ai vecchi criteri di interpretazione; mentre i tradizionali strumenti per affrontarle non ispirano più fiducia».
Giovani contro vecchi
Nel nostro Paese però gli indici statistici segnalano che un aumento delle diseguaglianze di reddito è avvenuto negli Anni 90, prima delle nuove tecnologie, prima della globalizzazione, prima dell’euro. Durante la grande crisi e dopo, assai poco. Il dato generale, secondo un grande esperto, Andrea Brandolini della Banca d’Italia, «nasconde ampi cambiamenti nelle posizioni relative di specifici gruppi; come i lavoratori rispetto ai pensionati, e i giovani rispetto agli anziani. Da qui il senso di impoverimento e di indebolimento delle prospettive future».
Siamo diversi dagli Usa, dove lo squilibrio tra ricchi e poveri è tanto cresciuto che si parla di svuotamento della classe media. Segno particolare nostro è, secondo la Banca d’Italia, che a parità di lavoro il primo stipendio di un giovane con posto fisso sia calato del 20% nell’arco di due decenni. Le analisi non mettono a tacere opinioni divergenti. Una parte della sinistra si ostina a negare la diseguaglianza tra giovani e vecchi. La destra insiste ad attribuire all’afflusso di immigrati la pressione al ribasso sui salari, senza che ne arrivino prove statistiche.
Un dato che ha fatto notizia è l’aumento del numero dei poveri. In un Paese dove l’economia non è ancora tornata al livello pre-crisi, è potuto avvenire anche senza maggiore diseguaglianza in senso stretto; e concerne soprattutto le famiglie di immigrati. «Non per questo è meno grave. E c’è un solo filo conduttore, le politiche sbagliate degli ultimi tre decenni» obietta Fabrizio Barca, ministro nel governo Monti, uno dei promotori del «Forum delle diseguaglianze».
Le riforme che mancano
A segnalare che i nuovi poveri sono soprattutto immigrati è stato Giampaolo Galli, già direttore generale della Confindustria: «Problema prioritario è la bassa crescita dell’Italia, il reddito di oggi uguale a vent’anni fa; senza affrontarlo non risolveremo nulla»; gli sforzi vanno concentrati su riforme per dinamizzare l’apparato produttivo. «Anche con migliori risultati in termini di crescita non riusciremmo a ridurre presto i 5 milioni di poveri – ribatte Enrico Giovannini, ex presidente Istat, ministro del Lavoro nel governo Letta – e oltretutto l’Ocse mostra che troppe diseguaglianze frenano lo sviluppo».
L’Italia inoltre conserva il mai risolto divario territoriale. Nel Nord gli indici di diseguaglianza sono allineati con l’Europa, nel Sud sono più gravi. Di norma è il mercato a creare squilibri, l’intervento pubblico li tempera. Nel caso italiano, i sussidi al Mezzogiorno evidentemente non sono efficaci.
Con risorse scarse, il dilemma è: sono più urgenti da affrontare le diseguaglianze, o il collettivo declino di tutto il Paese, che perde terreno anche rispetto ai vicini europei? Le differenti scelte elettorali mostrano che nel Nord prevale la seconda risposta, nel Sud la prima. Barca e altri economisti suggeriscono: imposte patrimoniali non frenano la crescita, con il ricavato si può intervenire sulla povertà. Ma in un Paese che non cresce, il ceto medio è ansioso rispetto al principale patrimonio, la casa, perché teme di dovervi ricorrere per mantenere il tenore di vita.
M5S e Lega avevano promesso entrambi meno tasse, ma gli uni ai redditi modesti perché spendessero, i secondi ai benestanti perché investissero. L’impostazione della Lega ha prevalso, il M5S spera di temperare con il «reddito di cittadinanza».