La Stampa 1.5.18
All’orizzonte si profila il ballottaggio
di Marcello Sorgi
Dai
 risultati del voto regionale in Friuli arriva una spinta molto forte 
verso nuove elezioni anticipate, un rischio mai escluso, del resto, nei 
due mesi di inutili trattative per il governo dopo il 4 marzo. È 
abbastanza semplice capire perché, sebbene le dimensioni esigue della 
consultazione locale, rispetto alla posta in gioco nazionale, non siano 
paragonabili.
Pesa ovviamente di più l’inconcludenza del 
negoziato, la liturgia, incomprensibile ai più, delle consultazioni e 
delle esplorazioni, la mancata nascita del governo dei (non) vincitori, i
 tentativi confusi di mescolare, nella stessa improbabile maggioranza 
(che mai s’è manifestata come tale), il più radicale movimento 
d’opposizione premiato con il primo posto in termini percentuali con il 
maggior partito (ex) di governo, uscito sconfitto dalle urne. L’insieme 
di questi fattori s’è tradotto così nel voto dei cittadini del Nord-Est.
La
 Lega ha stravinto, trainando dietro di sé anche gli alleati Forza 
Italia e Fratelli d’Italia, incoronando nuovo governatore della regione 
Massimiliano Fedriga, fino a qualche mese fa capogruppo salviniano del 
Carroccio alla Camera, e confermando definitivamente Salvini leader di 
tutta la coalizione. Il Pd, che aveva fino a ieri l’amministrazione del 
Friuli, ha perso, collocandosi più o meno ai livelli delle politiche e 
un po’ meglio come centrosinistra. Il Movimento 5 Stelle è crollato al 
di sotto di ogni possibile previsione negativa, al punto da far pensare a
 una diserzione del temuto esercito dei suoi militanti, demotivati dal 
pendolo di Di Maio tra centrodestra e Pd.
Se ne ricava che finisce
 qui la serie di tentativi di fare un governo mettendo insieme due delle
 tre forze politiche protagoniste del voto di due mesi fa. Salvini 
adesso è il meglio piazzato per una nuova tornata elettorale che il suo 
rivale/alleato Di Maio, augurandosi che si possa tenere entro giugno, ha
 già definito il «ballottaggio» del 4 marzo. Il leader leghista non ha 
ceduto alle sirene pentastellate che lo allettavano con un ruolo di 
primo piano al governo se solo avesse lasciato per strada Berlusconi e 
Meloni, e s’è invece aggrappato con tutte le sue forze all’alleanza di 
cui è divenuto padrone. Inoltre il fallito dialogo tra M5S e Pd gli ha 
fornito un argomento prezioso per la prossima campagna elettorale. Potrà
 ben dire: noi avevamo vinto, abbiamo cercato un compromesso per dare un
 governo al Paese, ma il regime ce lo ha impedito proponendo un inciucio
 tra il movimento del finto cambiamento di Di Maio e il Pd dei passati 
governi rifiutati dagli elettori. Ora ci servono i voti che mancano per 
governare davvero.
Anticipato da Grillo, che sempre lo precede 
quasi ad autorizzarlo, Di Maio aveva già deciso la svolta pro-elezioni, 
dopo aver sentito Renzi in tv far saltare il confronto con i 5 Stelle di
 cui il Pd s’apprestava a discutere nella direzione convocata il 3 
maggio. La doccia fredda dei risultati del Friuli lo ha vieppiù 
indirizzato verso il voto. La solidarietà ricevuta da Di Battista, 
leader dell’ala autenticamente movimentista, sta a significare che il 
capo politico e mancato premier del governo del cambiamento avrà bisogno
 di un aiutino per riciclarsi, dalla sonnolenta tattica «democristiana»,
 com’è stata impropriamente definita nelle ultime settimane, alla 
caffeina della prossima campagna elettorale. Dirà anche lui: eravamo i 
vincitori, ma il regime ci ha messo i bastoni tra le ruote; pur 
consapevole che dell’odiato regime, per otto lunghe settimane, è apparso
 un esponente di primo piano, in giacca e cravatta istituzionale.
Quanto
 al Pd, peggio di com’è messo, non potrebbe. Gli manca un leader, un 
condottiero adatto a guidarlo nell’estrema battaglia che lo aspetta, 
questione di vita o di morte. Il ritorno in campo televisivo di Renzi 
può significare che il leader dimissionario è pronto a riprendersi il 
suo posto, se il Pd accetterà o si arrenderà al suo ritorno, o a fondare
 un suo nuovo partito, sulle macerie di quello moribondo, per tentare 
una rivincita, al momento assai improbabile.
Resta da dire di 
Mattarella: ha fatto tutto il possibile, finora, per cercare di 
riportare alla ragionevolezza partiti e movimenti assurdamente convinti 
che il 4 marzo fosse solo il primo tempo di un regolamento di conti 
epocale, e subito proiettati verso il secondo turno, che da ieri 
invocano a gran voce. Con la stessa legge elettorale e senza neppure la 
possibilità di tentare di riformarla, all’ombra di un governo chiamato a
 sbrigare gli affari più urgenti, è alto il rischio che il prossimo 
risultato non si discosti molto dall’esito sterile dell’ultima volta, 
precipitando l’Italia in una condizione a metà strada tra la Spagna e la
 Grecia di questi ultimi anni. Non di semplice scioglimento delle 
Camere, si tratterebbe, in quel caso: ma di dissoluzione.
 
