martedì 1 maggio 2018

La Stampa 1.5.18
Quando Gramsci raccontava favole
Gli scritti per l’infanzia dell’intellettuale al Matota, Festival di letteratura per bambini
di Bernardo Basilici Menini


Il libro L’immagine è tratta dalla copertina del libro «Fiabe dei Fratelli Grimm, Apologhi, racconti torinesi racconti di Ghilarza e del carcere» che raccoglie tutti gli scritti per l’infanzia di Gramsci (Catartica edizioni)

Per via Don Bosco passeggia un ragazzo. Gavroche, questo il suo nome, nota un assembramento di alcune persone, intente a protestare contro un proprietario di casa che ha sfrattato due inquilini per aumentare l’affitto e alle prese con «guardie e carabinieri». Viene a sapere della situazione, ci pensa, e poi esclama in piemontese: «Farò io giustizia per i poveri, con le due pere che ho in saccoccia». In men che non si dica, due agenti in borghese lo perquisiscono, trovando i due frutti e rimanendo esterrefatti. «Pere», in dialetto, significa sassi: con un gioco di parole il monello è riuscito a ingannarli e metterli in ridicolo di fronte alla folla. Non è il resoconto di un fatto di cronaca, ma di una storia scritta da Antonio Gramsci. Una parte nascosta della sua produzione, che verrà raccontata domani alle 18,30 alla Cartiera di via Fossano, durante l’appuntamento inaugurale di Matota, il festival di letteratura per bambini e ragazzi nelle piazze e nei luoghi d’incontro della Circoscrizione 4, in programma fino a domenica.
La narrazione
Domani sarà la volta della presentazione di «Fiabe dei fratelli Grimm. Apologhi, racconti torinesi, racconti di Ghilarza e del carcere», un libro edito da Catartica Edizioni, che raccoglie la produzione sconosciuta di Gramsci, nata negli anni del carcere ed esclusa dai famosi Quaderni. E che abbraccia un universo lontano da quello conosciuto: dalle storie scritte per i nipoti alle fiabe dei Fratelli Grimm, tradotte durante la prigionia da un libro che pare avesse comprato a Torino, per allenare il suo tedesco. Tutte, ora, hanno finalmente visto la luce in un unico testo, che domani sarà narrato dai suoi editori (Daniela Piras e Giovanni Fara), dai suoi studiosi (Dunia Astrologo Direttrice della Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci Onlus), dalla musica e dalla recitazione.
A leggere alcuni racconti sarà l’attore torinese Giorgio Perona, e ad accompagnarlo ci sarà La Stanza di Greta, band e collettivo musicale che ha ideato il «Manifesto della Musica bambina», un suono capace di «saper raccontare il mondo con occhi diversi, per il suo sapersi stupire, per la sua leggerezza».
Piccoli protagonisti
Ed è proprio qua che, da Gramsci ai fratelli Grimm, il cerchio si chiude sul punto centrale del festival. I bambini non saranno solo spettatori, ma protagonisti della narrazione, accompagnando le letture e la musica di La Stanza di Greta con i suoni prodotti da strumenti improvvisati, dalle pentole alle grattugie, creando raffigurazioni estemporanee, che permettano di uscire dalla Cartiera e fare qualche passo fuori. Magari di alcune decine di metri, per ritrovarsi in via Don Bosco, proprio mentre un ragazzo del posto deciderà di sollevarsi e di gridare in dialetto contro a un proprietario di casa che ha deciso di sfrattare i propri inquilini: «Farò io giustizia per i poveri, con le due pere che ho in saccoccia».

Repubblica 1.5.18
La rivoluzioneCosì i matti diventarono cittadini“Aprimmo le porte alle persone”
Il 13 maggio del 1978 era legge la riforma Basaglia chiudevano i manicomi e cambiava la medicina 
Basaglia chiude i manicomi e restituisce ai malati la loro storia
di Nico Pitrelli

Il 13 maggio del 1978 veniva approvata la legge n. 180, in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. La Legge Basaglia. Che aprì le porte dei manicomi, restituendo dignità ai malati che vi erano rinchiusi in condizioni oscene. Da quel momento in avanti nessuno potè più rinchiudere una persona senza alcuna tutela di legge e senza comprovata necessità clinica (quel sistema di regole che chiamiamo Tso). A ispirare la legge fu Franco Basaglia che sparigliò tutte le carte della psichiatria togliendo dal centro la malattia e sostituendola col malato, i suoi diritti, i suoi bisogni, la sua ricchezza. Accadde però che la legge delegò alle regioni la sua attuazione, all’interno del nascendo Ssn, istituito alla fine dello stesso anno (annus mirabilis!). Com’è andata a finire lo leggete alle pagine 4-8 e com’è cominciata lo racconta Beppe Dell’Acqua, a pagina 2. In mezzo, 40 anni di polemiche tra chi vede la riforma come il geniale prodotto della medicina italiana, capace di rifondarsi a partire dalla imposizione epistemologica di un principio ineludibile: la libertà dei cittadini. E chi, invece, vede i pasticci combinati dalle amministrazioni, i malati lasciati soli, le famiglie senza reti. Ma nessuna inadempienza sanitaria può cancellare quel sogno che è diventato all’improvviso realtà e le parole di Basaglia stesso: l’impossibile può diventare possibile.

Repubblica 1.5.18
La rivoluzione

Basaglia chiude i manicomi E restituisce ai malati la loro storia
La tortura della contenzione diventò intollerabile. E gli internati riacquistarono un nome, un’identità
colloquio con Peppe Dell’Acqua


Peppe Dell’Acqua, classe ’47, ha iniziato a lavorare con Franco Basaglia fin dai primi giorni dell’esperienza triestina nel 1971. Tra i protagonisti della chiusura dell’ospedale psichiatrico, vive a Trieste, ed è il nostro testimone di quel tempo straordinario.
Cosa è successo a Trieste quarant’anni fa?
«Si potrebbe dire che non è successo niente. Era tutto accaduto prima. A gennaio del 1977 Basaglia e il presidente della provincia Michele Zanetti resero nota la chiusura del manicomio. L’annuncio colse tutti di sorpresa. Anche noi, che sentivamo nell’aria che stava per accadere, restammo disorientati. Era il primo manicomio al mondo che annunciava la sua fine. Da due anni erano attivi 6 centri di salute mentale, aperti 24 ore in un territorio allora di 260mila abitanti. Fu una sperimentazione durissima e rischiosa. Risultò la scelta vincente. Le resistenze furono ostinate. 40 anni dopo non possiamo non riconoscere che avevamo ragione. Era già nata la prima cooperativa, nel ‘ 72: metteva in scena i bisogni, i diritti, stare nel contratto. Già Marco Cavallo aveva sfondato il cancello del manicomio portando nella sua pancia i desideri, i bisogni radicali, l’amore, l’amicizia, le passioni che finalmente venivano ascoltati senza il filtro della malattia. Si sperimentavano tra mille dubbi le prime possibilità di abitare fuori. Voglio dire che erano accadute cose che rimandano alle radici, ai passaggi originari, alla critica del modello medico: “il malato e non la malattia”. L’arrivo di Basaglia a Gorizia nel 1961 segna una linea di frattura insanabile».
In che senso?
«Ho un ricordo molto preciso, il fotogramma de La favola del serpente, un reportage realizzato Pirkko Peltonen, giornalista finlandese che si reca a Gorizia per conoscere la comunità terapeutica che si sta sperimentando. Documenta quella che sarebbe poi diventata la famosa assemblea goriziana. Il film, che io vidi diversi anni dopo, risale al 1968. L’immagine in cui gli internati votano sull’opportunità di farsi riprendere dalla reporter segna quella frattura. Alzano la mano e si contano: un capovolgimento radicale».
Come ci si arriva?
«Nel secondo dopoguerra Basaglia incontra la filosofia e in particolare la fenomenologia. La critica allo scientismo positivista apre per molti giovani di allora a uno sguardo che svela: la follia ridotta a malattia e il malato a oggetto dell’internamento. La persona scompare. Basaglia quando arriva a Gorizia è in grado di cogliere il senso della catastrofe che si è consumata nelle istituzioni totali».
Ci può fare un esempio concreto?
«Quando lui arriva a Gorizia, agli inizi degli anni ‘ 60, ci sono più di 600 persone internate. Vede la mostruosità dell’istituzione totale: i cancelli, le chiavi, le porte chiuse, i letti di contenzione, ma quello che angoscia più di ogni altra cosa Basaglia è l’orrore dell’assenza. Non c’è più nessuno. Gli internati sono tutti appiattiti nella stessa grigia identità, tutti invisibili. Basaglia mette tra parentesi la malattia, la diagnosi, il grigiore di anni d’internamento: sospende il giudizio. Messa tra parentesi la malattia, persone, storie, relazioni, memorie riaffiorano. I cittadini compaiono sulla scena».
Perché è così importante?
«Il riconoscimento dell’altro come altro te stesso frantuma la psichiatria biologica, che vede l’oggetto malattia, il sintomo, il comportamento fuori dalla storia. Negli anni l’accusa di ideologia ha accompagnato il nostro lavoro, oscurantisti, dicono, nemici della “ scienza”. Basaglia era semplicemente obbligato a una scelta di campo: il cittadino, la persona, il soggetto. Riconosciuto l’altro, gli internati riacquistano un nome e una storia, la violenza dell’isolamento e la tortura della porta chiusa diventano intollerabili. Il tempo ricomincia a correre, l’infinitezza dello spazio e la molteplicità dei luoghi possibili irrompono come un fiume in piena. Aperte le porte si incontra un cittadino senza diritti. La dimensione politica di questa storia, che porterà alla legge 180, comincia da qui. L’incontro col soggetto rende finalmente possibile il riconoscimento dell’unicità dell’altro, delle sue passioni, dei suoi sentimenti, della possibilità di cura».
È stata la consapevolezza del profondo stravolgimento in atto in quegli anni a portare lei e altri giovani psichiatri a Trieste?
«Credo di no. All’università partecipavo al movimento studentesco. Ero interno nella clinica neurologica di Napoli. Ci interrogavamo sul senso della nostra professione, soprattutto sul rapporto tra medicina e società. Avevamo sentito parlare di Basaglia grazie a uno dei suoi libri più famosi, L’istituzione negata. Non posso dire che fossimo consapevoli della portata innovativa del lavoro di Basaglia. Colsi comunque qualcosa che mi spinse a volerlo incontrare prima ancora di laurearmi. Gli bastò sapere che ero interessato a quello che stava facendo per invitarmi ad andare con lui a Trieste. Non volle informazioni sulla mia carriera universitaria. Era più interessato al fatto che fossi giovane, curioso, aperto al cambiamento. Andò così con me e con tutti quanti giunsero a formare l’équipe triestina» .
Avevate la sensazione di poter cambiare il mondo?
«Sì, forse questo si. Siamo stati fortunati. Con Basaglia e Trieste potevamo non separare l’impegno politico da quello professionale. Avevamo rudimentali visioni del mondo differenti, ma avevamo qualcosa che ci univa profondamente, un orizzonte comune. La miseria del manicomio ci dava ogni giorno la conferma che qualcosa di radicale stava avvenendo. Cercare di forzare regole e gerarchie, divieti e distanze era la nostra quotidianità. Le giornate erano occupate dalla ricerca di risorse per rispondere ai bisogni che emergevano come l’eruzione di un vulcano: dai vestiti, al pettine, agli specchi, agli spazzolini da denti, ai biglietti per l’autobus o per il teatro. Nelle riunioni e nelle assemblee si decideva dell’apertura dei reparti, delle strategie per uscire, del bar e del centro sociale. E poi, l’incontro/ scontro con la città, la conoscenza dei rioni per preparare la strada ai primi centri di salute mentale, Marco Cavallo in testa».
C’è qualcosa che non ha funzionato?
«Tante cose ci hanno messo in crisi: l’incidente, la persona che tradisce le aspettative, le 50 leggi, tutte archiviate, che vogliono cambiare la 180, la lentezza estenuante del cambiamento, che provocava delusioni o al contrario scelte radicali e conflitti. I rischi di rottura del gruppo sono stati molto evidenti e in qualche circostanza qualcosa stava andando davvero storto. Tuttavia oggi non possiamo non dire che continuiamo ad avere ragione. Norberto Bobbio ha definito la 180 l’unica legge di riforma del dopoguerra. Certamente è stata una riforma, dice, proprio perché era ispirata a un valore fondamentale che è quello della libertà. Della liberazione anche di coloro che nella storia dell’umanità sono stati considerati come coloro che non potevano essere liberati, che non avevano diritto di essere liberati».
Quale prezzo è stato pagato?
«Non so dire. Forse per Basaglia è stata l’ostilità dell’accademia. Forse è stato meglio così. Il cambiamento radicale che ha prodotto il suo lavoro pratico e la sua vasta produzione scientifica sarebbero stati impensabili, specie nelle arcaiche accademie di quegli anni. Il prezzo che abbiamo pagato, ma direi la fortuna che abbiamo avuto, è stata l’intera vita consumata dentro questa storia. Non poteva essere altrimenti. La scommessa pretendeva una scelta di campo. Ci siamo resi conto di muoverci in un conflitto aspro tra i visibili e gli invisibili, tra chi ha e chi non è, tra una scienza che rischia di annientare e una pratica che vuole costruire possibilità intorno alle persone».
Cosa rimane oggi della vicenda triestina?
«La presenza del cambiamento è diffusa in tutta Italia; di Trieste si parla in mezzo mondo. Circa due mesi fa sono andato in visita in un manicomio in Francia. Era per me come ritornare indietro di cinquant’anni: chiedono cosa bisogna fare per avviare il cambiamento. È di questi giorni l’accordo con la contea di Los Angeles per permettere a operatori californiani di venire a formarsi nel capoluogo giuliano. Il dipartimento di Trieste è oggi uno dei più importanti Centri Oms in Europa, leader per lo sviluppo della salute mentale comunitaria. Ogni anno migliaia gli operatori di tutto il mondo e i policy maker che fanno sosta a Trieste, per capire come si fa a vivere senza il manicomio. Il dipartimento con i suoi centri h24 continua a sperimentare innovazioni. Oggi, i miei compagni, fanno quasi a meno dei letti dell’ospedale e del trattamento sanitario obbligatorio. Da circa un anno funziona il team per la crisi, una squadra che si monta tutte le volte che serve per accogliere, accudire, contenere nella relazione le persone che vivono la crisi, specie giovani quando cominciano a star male. Quando li sento raccontare dei successi, dei fallimenti dei dubbi non posso non pensare a come eravamo. E gioisco. E so di migliaia di giovani che vogliono sapere della rivoluzione. È la responsabilità che non possiamo non assumerci guardando alla storia che ci lasciamo alle spalle. Quanto accade oggi pretende ancora scelte di campo. Ci sono ancora i morti di psichiatria, c’è un ritorno prepotente alle psichiatrie della pericolosità, dei trattamenti farmacologici, delle contenzioni. Non si può più essere indifferenti. A fronte del rischio di declino irreversibile delle disattenzioni governative abbiamo contribuito a presentare una legge, la numero S2850 depositata in Senato nella scorsa legislatura, che vuole promuovere un’estensione delle buone pratiche e ridurre il divario tra le regioni».
Come trasferire oggi le conoscenze e le esperienze in salute mentale che hanno portato al superamento del manicomio?
«Tutti gli operatori della salute mentale provengono da università che non hanno mai abbandonato il modello medico psichiatrico. Ci sono tuttavia segnali positivi. In Italia, malgrado i ritardi, le persone con disturbo mentale possono farcela. Chiedono di guarire, di stare bene. È difficile che una mamma chieda dove mettere il figlio. C’è in atto un cambiamento culturale profondo: le persone con disturbo mentale vivono nel contratto sociale. La fine dei manicomi in Italia ed esperienze come quella di Trieste e del Friuli Venezia Giulia vengono sempre più considerate e studiate a livello nazionale e internazionale ( poco dai nostri accademici). In un rapporto della World Psychiatric Association pubblicato su The Lancet si può leggere che gli impressionanti risultati nel campo delle neuroscienze non hanno portato risultati apprezzabili nelle cure, al contrario le cure dei pazienti sono state profondamente trasformate e migliorate da una quantità di altri fattori legati all’apprezzamento degli aspetti demografici, economici e socio- culturali. Quanto per anni abbiamo cercato di dire e di praticare. Trasmettere conoscenze è il compito più arduo. Bisogna ricominciare a scandalizzarsi».

Franco Basaglia L’utopia della realtà
Antologia di testi - edita da Einaudi - scelti dalla moglie Franca Ongaro Basaglia seguendo l’evoluzione del pensiero e della prassi del padre della 180. Permette di capire la logica di esclusione e segregazione su cui si fonda l’istituzione manicomiale, nella quale la società tende a proiettare le proprie contraddizioni, e l’effetto nocivo esercitato sui pazienti, spersonalizzati e identificati con la malattia.
Francesco Cro

Franca Ongaro Basaglia Salute/Malattia. Le parole della medicina
C’è un aspetto importante che la medicina sta perdendo di vista: la soggettività del malato, visto sempre più come un oggetto di cura. Su questo riflette Franca Ongaro, moglie e compagna di una vita di Franco Basaglia, nel libro edito da Alphabeta Verlag (2012), spiegando come salute e malattia siano considerati fenomeni opposti e separati. E questo genera patologia.
Sara Pero

Franco Rotelli L’istituzione inventata. Trieste 1971-2010
Franco Rotelli era là, al fianco di Basaglia. Per alcuni era il braccio sapiente e curato senza cui la rivoluzione non sarebbe diventata realtà. Poi ne ha raccolto l’eredità ed è stato direttore dei servizi di salute mentale e poi della Asl di Trieste.
Nel 2015 ha pubblicato, con AlphaBeta editore, questo Almanacco: 330 pagine e centinaia di nomi e fatti che ricostruiscono la vicenda triestina. Da non perdere.
D.M.

Repubblica 1.5.18
Viaggio in Italia
Cosa resta della riforma Basaglia
Un progetto visionario. Difficile da attuare. In quarant’anni le istituzioni non sono riuscite a dare concretezza all’utopia.
Ecco perché: da nord a sud
Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Piemonte , Toscana, Campania, Puglia


LOMBARDIA di Alessandra Corica
Oggi si punta sulle famiglie
Quarantanove reparti ospedalieri per diagnosi e terapie acute: tutti pubblici, tranne quello privato accreditato del San Raffaele di Milano. Novantuno centri psicosociali per i servizi ambulatoriali, 4.200 posti nelle strutture residenziali per la riabilitazione, con diversa intensità di cura. L’ultimo cambiamento è di due anni fa, quando con la riforma sanitaria regionale il comparto è passato sotto la gestione del socio- sanitario, con un’integrazione sempre maggiore sia con i reparti di neuropsichiatria che con quelli che si occupano di dipendenze. E una virtuosa collaborazione con il privato accreditato e il privato sociale, che fanno della regione «la quarta in Italia – spiega Claudio Mencacci, past president della Societa italiana di Psichiatria – per gli investimenti. Si è cercato di coniugare cure ospedaliere e territoriali: abbiamo 800 posti letto in regione, ce ne vorrebbero di più. Ma qui c’è stata l’intuizione di istituire programmi innovativi per l’inserimento lavorativo, per intercettare i giovani. Il 70% dei disturbi psichiatrici insorge in adolescenza e nei giovani adulti».
Quarant’anni fa i manicomi in Lombardia erano uno per provincia. « Ho iniziato a lavorare nel 1980, subito dopo l’approvazione della legge, nell’ospedale psichiatrico di Bergamo – racconta Giuseppe Biffi, che guida il dipartimento di Salute mentale dei Santi Paolo e Carlo di Milano all’epoca erano ricoverati 600 pazienti: il loro ricollocamento è stato progressivo. Anche perché allora non avevamo le strutture riabilitative che ci sono oggi». La norma che ha creato strutture residenziali e semi- residenziali ( quest’ultime circa 2mila) è del 1984: « Per cinque anni abbiamo avuto un buco normativo – ricostruisce Biffi – adesso c’è anche un maggiore coinvolgimento delle famiglie, che vengono considerate parte integrante per il reinserimento sociale del paziente».

LIGURIA di Michela Bompani
Strangolati dalle dipendenze
Nel territorio della città metropolitana di Genova, che vale più della metà della popolazione ligure, sono 12.000 le persone in carico ai dipartimenti di salute mentale. La metà ha problemi di dipendenza ( sostanze, tecnologia, ludopatie). « Il numero é enormemente cresciuto in questi 40 anni: la legge funziona benissimo ma é cambiato il mondo intorno e dobbiamo affrontare nuove emergenze», spiega Marco Vaggi, che guida il Dipartimento di salute mentale e dipendenze della Asl3. Dove il 30% delle prestazioni è sul territorio, fuori dagli ambulatori. Vaggi si batte per far funzionare il pilastro della 180: «Curare le persone, o meglio cominciare a intercettarle preventivamente, e poi, semmai, curarle, nel proprio ambiente. Per migliorare la qualità di vita non sradicandole». Uno sforzo che non sempre funziona, in un sistema affaticato dall’impostazione aziendalistica della sanità, come spiegano alcuni operatori: «Abbiamo due auto di servizio e quaranta operatori. In ambulatorio un operatore incontra dieci persone al giorno, a domicilio non arriva a tre. I metodi quantitativi applicati alla salute mentale non funzionano».
Nella Asl3 si registrano 2500 ricoveri all’anno, poco più del 20% delle prese in carico: « Abbiamo tre reparti acuti a Genova, più la clinica psichiatrica e alcuni reparti post acuti - spiega il direttore - ma ciò che stiamo potenziando sono le case alloggio. Su 500 persone inserite in residenzialità, il 15% è in case alloggio, vogliamo aumentare di un altro 10%» . Gli operatori però suonano l’allarme turn over: l’ 80% ha trent’anni di servizio alle spalle. «Bisogna aggiornare gli operatori sulle nuove emergenze. Quando abbiamo cominciato i nostri pazienti erano quelli usciti dai manicomi, ora sono sempre più ragazzi e adolescenti, ci sono tante competenze nuove da assumere. E noi siamo vecchi e stanchi».

EMILIA ROMAGNA di Rosario Di Raimondo
Non sono pericolosi e non hanno meno diritti
L’ ufficio di Angelo Fioritti, direttore della Salute mentale dell’Ausl di Bologna, è dentro l’ex manicomio della città. Oggi la filosofia delle cure mentali è « più pazienti seguiti sul territorio. Ne abbiamo fatti uscire 100 su 400 in questi anni. E siamo l’unica Regione che rispetta il vincolo del 5% delle risorse da destinare ai servizi di salute mentale» . Bologna segue 18mila pazienti l’anno, 80mila in tutta l’Emilia-Romagna.
Si partì da Reggio Emilia e Parma, dove Basaglia lavorò un anno. Dopo i manicomi nacquero i dipartimenti di salute mentale. Poi gli Opg. E le Rems. « Non dobbiamo fare l’equivalenza tra gli Opg, luoghi dove vivevano tre pazienti in una stanza, e le Rems, che devono essere l’estrema ratio quando ogni altro programma terapeutico non è possibile – spiega Mila Ferri, dirigente regionale dei servizi di salute mentale - dal 2015, tra Bologna e Parma, abbiamo ospitato 60 persone» . Affrontare la malattia mentale, per Ferri, vuol dire questo: « Andrebbe rivisto il concetto di pericolosità sociale. Questi pazienti non hanno meno diritti e la sfida è rendere le terapie meno asimmetriche: pure loro devono scegliere e decidere». Ci sono altre due sfide complesse. « C’è un problema di salute mentale nei giovani: più accessi al pronto soccorso, più tentati suicidi e disturbi di personalità». La seconda: «La magistratura ha preso atto che la sanità gestisce e tratta in maniera umana questi pazienti. E utilizza questo strumento in autonomia. Sempre più persone passano dal carcere ai servizi sanitari. Ma dobbiamo assorbire la gestione di casi anche molto impegnativi con strumenti spuntati. Non è nostalgia per gli Opg, luoghi disumani e incivili, ma è necessario ridefinire i confini tra settore penitenziario e sanitario. Altrimenti sarà più difficile seguire quei 18mila pazienti l’anno».

PIEMONTE di Sara Strippoli
Deregulation: i danni di un decennio
Quarant’anni fa, quando la Provincia di Torino studiava la riorganizzazione dei servizi per superare il manicomio, negli ospedali psichiatrici torinesi c’erano cinquemila ricoverati. Quarant’anni dopo sono 57.000 i piemontesi seguiti dai dipartimenti di salute mentale. Di questi, 2870, circa il 5%, sono ricoverati in strutture residenziali. Con una spesa di 66,6 euro a testa, circa il 10% in meno della media nazionale ( 73,8). A Trento si impegna il 6,26% della spesa sanitaria. In Piemonte nel 2015 era il 3,13; la media nazionale è del 3,49.
A 40 anni dalla Basaglia il Piemonte ha predisposto una riorganizzazione, un piano in attuazione di quello nazionale e ha pronta una bozza che sarà discussa in consiglio regionale. È convinzione che strutture psichiatriche territoriali, comunità e gruppi appartamento debbano essere ripensati. Per oltre un decennio la regione è rimasta senza regole tariffarie, senza sistema di accreditamento per i gruppi appartamento e in questa deregulation si è creato un eccesso di offerta. La prima fase di analisi capillare ha evidenziato servizi domiciliari troppo deboli, offerta sanitaria abbondante ma socio- sanitaria carente. Il piano è articolato in obiettivi e venti azioni per realizzarli. « Superare lo stigma a cui sono sottoposti i pazienti è l’obiettivo primario — spiega l’assessore Antonio Saitta – dobbiamo andare oltre la frammentazione degli interventi e coordinare le reti a supporto delle fragilità, incrementando le iniziative per la promozione della salute nell’infanzia e adolescenza» . La parola chiave è autonomia con il potenziamento di tutti gli interventi che possano servire a rendere indipendenti i malati: sostegno all’abitare, inserimento lavorativo, occasioni di socializzazione. E un sito dedicato con indicazioni, suggerimenti e risposte.

TOSCANA di Michele Bocci
Ma sì, ce l’abbiamo fatta
Prima della Basaglia il manicomio di Firenze era San Salvi, uno dei più grandi d’Italia. Lo psichiatra Giuseppe Saraò negli anni Settanta lavorava in quella struttura, poco prima che chiudesse. Ha quindi vissuto tutto il periodo della dismissione e l’avvio dei nuovi servizi psichiatrici. «In Toscana la legge è stata applicata bene quasi ovunque – spiega – all’inizio non è stata fatta una pianificazione precisa delle risorse per le strutture territoriali, spesso i servizi si sono retti sulla buona volontà dei professionisti». I problemi di solito si riflettevano sulle famiglie dei malati. «Oggi i servizi psichiatrici sono ovunque – racconta – anche se ci sono problemi di risorse» . Nella Asl del Centro, che copre le province di Firenze, Prato e Pistoia, « adesso manca una funzione di coordinamento dei servizi psichiatrici. Sono spariti i primari, che ai tempi di San Salvi erano addirittura 20. Allora erano troppi - continua Saraò - oggi sono troppo pochi. I servizi ne risentono perché questa specialità si esercita sul territorio, in ambulatori e distretti, ma anche in ospedale e ci sarebbe bisogno di un coordinamento tecnico molto forte. E i responsabili medici sono necessari».
Saraò ricorda bene i primi tempi della Basaglia. « La legge venne applicata piano piano, con grandi lacerazioni e discussioni. Tutti i giorni finivano sui giornali le dispute ideologiche tra favorevoli e contrari. Ricordo che una parte significativa degli operatori a quel tempo era contraria mentre io ero d’accordo. All’inizio abbiamo creato un modello di psichiatria di settore, con i reparti collegati al territorio di provenienza del malato. Si lavorava in ospedale e poi il paziente veniva seguito anche dagli ambulatori della sua zona, Chianti o Mugello che fosse». Poi le cose sono cambiate e oggi anche la psichiatria fa i conti con i problemi di risorse del servizio pubblico.

CAMPANIA di Giuseppe Del Bello
Così i pazienti sono abbandonati
Sette dipartimenti di salute mentale di cui fanno parte 91 centri territoriali ( 1.9 per 100 mila): il 14% in meno della media nazionale, 51 strutture residenziali ( 1.1 per 100 mila) che in questo caso rivelano un gap di meno 70.8 % e 52 strutture semiresidenziali ( 1.1 per 100 mila), cioè il 34.7% in meno. I posti letto disponibili sono 511 (10.8 per 100 mila abitanti), di cui soltanto il 35.2% in strutture pubbliche, i rimanenti 64.8 nelle case di cura private accreditate. I Tso sono del 9.8% più frequenti della media nazionale.
La spesa complessiva per l’assistenza psichiatrica nel 2015 è stata di circa 242 milioni di euro, 51 euro pro-capite, circa il 30% in meno della media nazionale. «Solo il 2.4% del budget dedicato alla spesa sanitaria è stato assegnato all’assistenza psichiatrica – si sfoga Andrea Fiorillo, docente di Psichiatria all’Ateneo Vanvitelli di Napoli - una cifra che è circa la metà di quanto stabilito nel piano sanitario nazionale e più di un punto percentuale meno della media nazionale. Siamo al penultimo posto, prima della Basilicata».
Non va meglio per il personale a tempo indeterminato: quello in servizio presso le strutture dedicate all’assistenza psichiatrica è inferiore del 10% rispetto alla media nazionale. A scarseggiare sono psichiatri ma, in misura più drammatica, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, sociologi e assistenti sociali. « Non sorprende che i pazienti trattati per 10 mila abitanti siano il 12.5% in meno rispetto alla media nazionale, e le prestazioni erogate per utente più basse del 29.5. Nel solo 2015 circa 66 mila persone sono state seguite per un disturbo mentale. E di queste circa 28 mila erano al primo contatto con una struttura psichiatrica. Un dato che rivela che il sistema assistenziale campano è in gran difficoltà a intercettare i nuovi casi di patologia mentale».

PUGLIA di Antonello Cassano
I malati chiedono ma l’assistenza non basta
Gli ultimi due manicomi privati d’Italia chiusero in Puglia nel 2010, 32 anni dopo l’approvazione della legge: il Santa Maria di Foggia e il Don Uva di Bisceglie. Da allora molto è cambiato, ma restano criticità, prime fra tutte la carenza di offerta rispetto alla domanda di assistenza psichiatrica e la mancanza di sicurezza per gli operatori. Partiamo dai numeri: nel 2017 sono stati 53.395 gli assistiti nei Centri di salute mentale e 6.087 i ricoveri, di cui 760 in regime di trattamento sanitario obbligatorio. Da segnalare anche i 920 ricoveri in regime di semi-residenzialità e i 1580 posti letto occupati dai pazienti ricoverati in strutture residenziali. « Nel corso di questi 40 anni - specifica Domenico Suma, dirigente del Dipartimento di salute mentale dell’Asl di Brindisi e membro del gruppo di lavoro per stilare il Piano regionale di salute mentale - oggi i pazienti affetti da disturbi psicotici si sono ridotti al 25% del totale. Ed è più pressante la richiesta di interventi per disturbi dell’umore, della personalità, psichiatrici nell’anziano, per richieste provenienti dal disagio sociale e per disturbi causati dall’uso di sostanze».
Dal 2016 in Puglia sono state aperte anche due Rems ( Residenze esecuzione misure di sicurezza), una pubblica a Spinazzola e l’altra a Carovigno, con il sistema pubblico-privato. Qui vengono ospitati pazienti psichiatrici che hanno commesso reati o sono in galera. In tutto 38 posti letto. Ma secondo i dati della Regione, in lista d’attesa ci sono altri 20 internati. «Non siamo fanalino di coda in Italia - conferma Suma - ma il fabbisogno di posti letto appare al di sotto delle richieste che provengono dalle autorità giudiziarie». E nessuno dimentica il 4 settembre 2013, quando la psichiatra Paola Labriola fu uccisa da un paziente con 70 coltellate.

Repubblica 1.5.18
Il Centro Cochrane
Scopri se la cura è efficace
Le regole della medicina scientifica applicate alle terapie contro le malattie mentali. Ecco come
di Davide Michielin


Una persona che su dieci tentativi centra due volte il bersaglio sa tirare con l’arco. Ma se la vostra sorte dipendesse da due unici tentativi, probabilmente chiedereste consiglio all’arciere di professione con la più alta percentuale di centri ottenuta. Poiché per l’autorizzazione di una terapia basta che poche ricerche controllate ne dimostrino l’efficacia, la medicina basata sull’evidenza segue questo approccio ed esamina tutte le ricerche svolte per avere una risposta coerente e completa sull’efficacia di un farmaco. Ma c’è un ambito della medicina in cui l’aleatorietà delle misure è massima: la psiche umana. Sembrerebbe impossibile cercare in psichiatria le “prove certe”, ma è proprio quello che fanno gli specialisti del neonato Centro Cochrane di riferimento per la salute mentale globale di Verona.
« Nella psichiatria la conoscenza dei meccanismi patologici è ancora parziale. Inoltre c’è un minore ricorso alla strumentazione: la diagnosi è descrittiva, basata su un colloquio personale. Se vogliamo, questo è un limite ma anche il fascino della nostra professione,» sorride Corrado Barbui, professore di Psichiatria all’Università di Verona e direttore del Centro Cochrane. Eppure, anche in questa aleatorietà, è possibile cercare le prove di efficacia e individuare le scelte terapeutiche migliori. Selezionando, nella vasta letteratura scientifica, gli studi più significativi ed escludendo quelli che, per un vizio nel disegno sperimentale o per conflitti di interesse, non rispondono alle rigide linee guida metodologiche. « Le revisioni sistematiche e le meta-analisi ci permettono di combinare i dati e ottenere un campione molto numeroso, generando risultati robusti,» spiega Marianna Purgato, psicologa ricercatrice presso il medesimo centro. Anche per i trattamenti non farmacologici. «La psicologia clinica si muove verso la descrizione accurata e la riduzione della durata degli interventi, dalla terapia cognitivo- comportamentale a quella psicodinamica. E allora: perché costringere il paziente a trenta sedute se è possibile ottenere lo stesso risultato con la metà?», prosegue Purgato. Le meta analisi sono uno strumento potente, i cui responsi tuttavia non devono essere distorti. « La difficoltà sta proprio nel passare dal contesto sperimentale, basato su una situazione media, a quello clinico. Nella realtà quotidiana il paziente medio non esiste. Inoltre, il luogo in cui viene somministrato l’intervento è cruciale: c’è una bella differenza tra l’essere rinchiusi nell’ospedale psichiatrico e recarsi autonomamente all’ambulatorio sotto casa», conferma Barbui, che rivela come accanto a trial raffinati oggi vadano diffondendosene di più pragmatici. Altrettanto controllati ma basati su criteri di inclusione meno restrittivi e per questo più fedeli alle sfaccettature della realtà.
Un’altra incognita sono i criteri di esito. Se per valutare la guarigione di una frattura è sufficiente una radiografia, nei disturbi mentali non è altrettanto semplice stabilire il miglioramento del paziente. «Sono utilizzate scale di valutazione basate non solo sui sintomi e sul disagio, ma per esempio sulla ritrovata attività lavorativa o sull’adesione alla terapia. I risultati possono perciò variare di molto, a seconda della cultura o delle capacità dell’operatore» , ragiona Barbui. Ecco perché un algoritmo, per quanto raffinato, non deve sostituire psicologi e psichiatri nella scelta del percorso terapeutico. « Se è vero che nel 2018 non è più accettabile ignorare le prove di efficacia, allo stesso modo non sono esse a prendere le decisioni. Il medico capace tiene in considerazione le linee guida con raziocinio, non vi si affida ciecamente. E si confronta con il paziente», conclude Barbui.

Repubblica 1.5.18
Farmaci
Eppure sono indispensabili
La chimica però non basta. Va associata a interventi psicosociali su misura
di Giuseppe Del Bello


Carlo parlava, ma era difficile comprendere le sue parole. E anche il suo comportamento era disorganizzato. Negli anni ’70 non era raro incontrare un paziente psicotico con queste caratteristiche. E neppure uno psicotico catatonico. Condizione inconfondibile. «Il quadro clinico è andato in parte modificandosi – osserva Mario Maj, direttore del dipartimento di Psichiatria dell’Ateneo Vanvitelli di Napoli - e un tipico paziente con schizofrenia di oggi mostra più raramente un comportamento disorganizzato o una marcata incongruenza affettiva. I sintomi dominanti sono invece i deliri di persecuzione o di influenzamento. E le allucinazioni uditive, voci dai contenuti a forte valenza emotiva per il paziente» . Se quasi mezzo secolo fa si è riusciti a chiudere gli ospedali psichiatrici, il merito va anche a quei farmaci che consentirono di tenere a bada le manifestazioni più eclatanti delle malattie mentali gravi, in particolare della schizofrenia. Si parte da lì, dagli antipsicotici di prima generazione. Efficaci, ma con effetti collaterali importanti. « Era facile riconoscere un soggetto in trattamento – ricorda il professore – sonnolento, rigido nei movimenti, con evidente tremore e mimica del viso molto ridotta. Se la terapia veniva prolungata, talvolta si aggiungevano movimenti involontari. Come smorfie o protrusione della lingua, in qualche caso irreversibili: la cosiddetta “ discinesia tardiva”» . E questi effetti collaterali diventavano la base del gran rifiuto dei pazienti al trattamento. E anzi, finiva che pure i familiari si facessero dominare dalla diffidenza. Anche perché il brusco stop al trattamento si traduceva in una nuova esplosione di sintomi. E di qui, ancora nel tunnel del ricovero – a volte coatto – nei servizi psichiatrici istituiti negli ospedali. Poi, le cose sono in parte cambiate. Con gli antipsicotici di seconda generazione: « Gli effetti collaterali neurologici ( come tremore e rigidità) sono diventati molto più rari - continua Maj - ma, con l’uso esteso, è comparso un altro effetto. Frequente, visibile e portatore di stigma: l’aumento ponderale. Anche di decine di chili» . Cosa che non sfugge.
Gli anni passano e la rivoluzione continua con gli antipsicotici di terza generazione, che producono molto raramente sia gli effetti collaterali neurologici che quelli metabolici. E che, a differenza delle classi precedenti, interferiscono pochissimo con la funzione sessuale. Importante soprattutto nei giovani maschi, pronti a sospendere la terapia. « Inoltre, alcune preparazioni a lunga durata d’azione – puntualizza il docente - permettono oggi una somministrazione per via intramuscolare una volta al mese (o addirittura una ogni tre mesi). E questo, da una parte evita al paziente il confronto continuo con la sua malattia, dall’altra rassicura medico e familiari sulla regolare assunzione della terapia».
Ma la chimica non basta. Secondo gli specialisti è fondamentale ma va associata, nella schizofrenia e in generale nelle psicosi, a interventi psicosociali su misura. «Farmaci e interventi psicosociali non sono in alternativa o in competizione tra loro – osserva Maj – e oggi l’uso corretto delle nuove molecole spesso facilita la partecipazione a interventi riabilitativi». Con qualche spunto di riflessione. Per esempio, sul divario tra l’“ efficacia” della terapia antipsicotica (quale emerge dai trial clinici) e la sua “ efficienza” ( cioè l’impatto nelle condizioni cliniche ordinarie). Gli antipsicotici nella schizofrenia hanno efficacia pari ( nel trattamento acuto) e sei volte maggiore ( in quello a lungo termine) rispetto ai farmaci per l’ipertensione. Ma è una reale superiorità? « Questa maggiore efficacia non sempre si traduce in un’efficienza altrettanto significativa nella pratica clinica – risponde Maj – a causa delle resistenze di pazienti, familiari e contesto ambientale» . E in questi casi si riaffaccia la revolving door, la porta girevole, con continue entrate e uscite dai reparti ospedalieri.

Repubblica 1.5.18
Gli antipsicotici Una molecola vincente

Quarant’anni di cure e il progresso di una molecola vincente. L’avventura degli antipsicotici parte con la clorpromazina nel ‘58. Subito dopo arriva l’aloperidolo, a sua volta derivato, grazie a una serie di combinazioni chimiche, da un analgesico-oppioide, la petidina. Dalla prima metà degli anni ’60 queste due molecole e altre analoghe diventano punto di riferimento per il protocollo terapeutico antipsicotico e vengono commercializzate quasi ovunque. L’aloperidolo sfonda come l’antipsicotico più prescritto sino a metà anni ’90. A seguire, dopo una serie di passaggi, si arriva alla sintesi della clozapina e del risperidone, entrambi attivi non solo sui recettori dopaminergici ma anche su quelli serotoninergici. La prima preparazione long acting, cioè a lunga durata d’azione, risale a fine anni ‘60 con la flufenazina decanoato. L’ultimo composto di questa linea, il paliperidone palmitato, entra in commercio nel 2017. Ed è il primo antipsicotico che si può somministrare per via intramuscolare ogni tre mesi.

Repubblica 1.5.18
“Dopo 55 anni ho sconfitto la follia”
Germana era ancora adolescente quando entrò in manicomio
Una vita tra psicofarmaci e camice di forza
di Lucio Luca


Germana era ancora adolescente quando entrò in manicomio: “Ero impulsiva, picchiavo tutti” Una vita tra psicofarmaci e camicie di forza P er prima cosa, finalmente “libera” dopo 55 anni, ha chiesto di andare dalla parrucchiera: «Voglio farmi bionda, è un mio desiderio da sempre » . Poi ha ascoltato la sua canzone preferita, “ Gocce di mare” di Peppino Gagliardi, ha infilato le sue cose in una borsa e si è trasferita in una casa di riposo per anziani immersa nel verde della pianura mantovana. Germana Battaglia adesso di anni ne ha 69 e quando sente parlare di Franco Basaglia, lo psichiatra che nel 1978 riuscì a far passare una legge che chiudeva i manicomi, si commuove ancora: «È stato bravo quell’uomo, meno male che i manicomi non ci sono più. Meno male…».
Germana è una delle ultime sopravvissute a quegli ospedali che spesso somigliavano a veri e propri lager. « Le mie compagne sono morte tutte, in quel camerone al Dosso, lo psichiatrico di Mantova, io ero la più piccola. Sono ancora viva, non so nemmeno come sia possibile. Sono entrata in manicomio a 14 anni e ne sono uscita a 39, anche se effettivamente sono rimasta internata fino al 1999, quando lo psichiatrico ha chiuso definitivamente».
Da quel giorno ha cambiato diverse strutture fino alla comunità San Cataldo di Borgoforte dove, grazie al lavoro dei volontari e la passione del suo psichiatra Enrico Baraldi, è riuscita a sconfiggere la follia. Nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno il regalo più grande: una lettera di dimissioni e la qualifica di “ ex”. Ex paziente psichiatrica, ex malata di mente, lei dice semplicemente “ impulsiva”. Non era capace di contenere l’aggressività, litigava spesso con le amiche del collegio, a casa rompeva piatti e bicchieri: « Non volevo mangiare con i miei genitori, mi arrabbiavo sempre. I primi segnali li avevo avuti a dieci anni, poi a 14 mi hanno portato in manicomio. E da lì non sono più uscita». Nemmeno a Natale, a Pasqua, a Capodanno, per il compleanno: «Mai, io la mia casa non l’ho più rivista. Solo una volta mi hanno accontentata, volevo salutare la mia mamma. Ma lei era in ospedale, è morta qualche giorno dopo. È stato il giorno più brutto della mia vita».
Dal letto di casa a una camerata infinita, insieme a donne anziane che urlavano e infermiere che le legavano mani e piedi o le costringevano a indossare le camicie di forza: «Io non volevo nessuno vicino – ricorda Germana tra le lacrime – mi isolavo per cercare di stare meglio. Quando stavo male lanciavo di tutto, sedie, armadi, orologi, e picchiavo chiunque fosse a tiro. Ne ho date tante, ma ne ho prese molte di più. Mi mettevano le manette ai polsi, poi sono stata io a chiedere di essere contenuta. Mi rendevo conto di essere pericolosa e quello era l’unico modo per non fare del male agli altri e anche a me stessa».
Il manicomio, naturalmente, non l’aiuta a guarire. Anzi, la fa precipitare in un abisso dal quale credeva di non riemergere mai più: «Quando picchiavo qualcuno non mi facevano mangiare, oppure mi costringevano a portare il cibo in bagno. Mi tagliavano i capelli da maschio, questa è una cosa che non gli ho mai perdonato. E più urlavo, più mi punivano. Le suore erano le più cattive di tutti, mi rendo conto che in manicomio non potevano fare diversamente, ma per me è stato un inferno». Per fortuna almeno l’elettroshock Germana se l’è risparmiato: « Lo facevano ai depressi. Io non ero depressa, ero solo impulsiva. Però li vedevo quelli che tornavano in camerata dopo averlo fatto. Non capivano niente per giorni, basta, non voglio ricordare altro, è troppo difficile».
Un paio di sigarette e le note della canzone magica di Peppino Gagliardi, a cui continua a mandare baci – « mi piace tanto questo cantante, peccato che in tele non c’è mai» – e Germana accetta di ricominciare a raccontare la sua storia: « Non ho ricordi belli in manicomio, anche se mi sforzo non riesco proprio a trovarne uno. Forse quella volta che ci portarono alle giostre, ma eravamo completamente legate. Solo le mani ci hanno lasciato libere. Sì, diciamo che quello è l’unico bel ricordo che ho. Quelli brutti? Io sono stata murata in manicomio da ragazzina, mi è mancato tutto, uscire con le amiche, farmi una famiglia, la mia mamma, il mio papà. Tutto è brutto in manicomio, tutto. Dietro di me c’è un passato che non potrò mai dimenticare, un passato triste, da salvare non c’è nulla. Solo qualche medico più comprensivo e soprattutto le persone che mi hanno aiutato negli ultimi anni. Se oggi sono fuori, lo devo solo a loro».
Quando è andata via dalla comunità, gli altri pazienti le hanno organizzato una grande festa: « Mi sono commossa, ma tanto io piango sempre. Mi sono passati davanti questi 55 anni, quelli duri del manicomio e gli ultimi nelle strutture che mi hanno trattato con umanità. Mi hanno portato a vedere il Papa a Roma, ora spero di coronare il mio sogno più grande, quello di vedere Firenze. Rispetto a chi dall’ospedale psichiatrico non è uscito vivo, io sono stata fortunata. Mi hanno fatto così tante punture di medicine e tranquillanti che non riesco più nemmeno a stare seduta, ma adesso ho imparato a vincere le paure, non picchio più nessuno e piatti e bicchieri non volano più da nessuna parte. È stato emozionante il mio compleanno: sono morta a 14 anni, quando mi hanno rinchiuso, il giorno che ho compiuto 69 anni invece sono rinata. Devo essere sincera? Non me l’aspettavo più».
Certo, non le mancherà l’affetto di chi l’ha seguita negli ultimi tempi. Il dottor Baraldi, la coordinatrice della comunità San Cataldo Manuela Caraffini, i volontari della struttura vanno spesso a trovarla nella sua nuova casa che dista solo pochi chilometri: «Continua a dirci che adesso è felice – spiega Caraffini – ma anche che è dispiaciuta perché con noi stava bene, eravamo la sua famiglia, che le manchiamo. Ma Germana è una donna forte, ha finalmente abbattuto il muro che ha sconvolto la sua esistenza. La sua storia dimostra che l’intuizione di Basaglia è stata determinante. In un manicomio lei non sarebbe mai riuscita a vincere, adesso merita di godersi quella vita che con lei non è mai stata generosa».

Repubblica 1.5.18
La memoria
San Giovanni e gli altri: la rinascita
Gli ex ospedali diventano musei per ricordare. Ma anche spiegare la riforma
di Giovanni Sabato


È qui che tutto è cominciato: 22 ettari di collina nel quartiere di San Giovanni a Trieste, tra grandi viali alberati, spazi verdi e i padiglioni che ospitavano il manicomio cittadino. Un’idea d’avanguardia già quando fu progettato dagli Austroungarici a fine ’800: anziché il monoblocco in voga all’epoca, fu costruito con padiglioni disseminati in un vasto parco, chiuso verso l’esterno ma almeno aperto al suo interno, per dare ai ricoverati l’idea di non essere prigionieri. Ma durò poco. Oggi, dopo un periodo di degrado, il parco è tornato a vivere, animato da istituzioni e università, strutture sanitarie con il bar-ristorante Il posto delle fragole e la radio comunitaria Radio Fragola, musei scientifici e cooperative sociali. A rievocare espressamente i tempi che furono restano alcune scritte sui muri e la statua di Marco Cavallo, il cavallo azzurro di legno e cartapesta divenuto simbolo della rivoluzione basagliana, che nel ‘ 73 varcò le mura per girare la città alla testa di un corteo di operatori, ricoverati e cittadini. Ma più che le testimonianze, è la vita stessa del parco a simboleggiare il cambiamento: se all’arrivo di Basaglia il Parco era separato, subito dopo si apre. I malati sono liberi di uscire e i cittadini di entrare ( sul muro esterno un tempo avevano scritto “ fora i matti e dentro Basaglia”).
Non tutti gli ex manicomi hanno avuto la stessa fortuna e « la preservazione della memoria in Italia è molto eterogenea», osserva Cettina Lenza, professore di architettura alla seconda università di Napoli. Alcuni sono stati demoliti, altri del tutto riconvertiti, col comune esito di cancellare ogni traccia della vecchia funzione. Tanti altri sono adibiti a nuovi usi, specie di istituzioni pubbliche, e a volte brandelli di memoria sopravvivono nelle architetture o in qualche targa che ricorda cos’era un padiglione.
Molti poi versano in totale abbandono. Per quanto anche questo, a volte, evochi suggestioni che fanno riflettere su quanto vi accadeva. A Limbiate l’ex manicomio di Mombello, ora abbandonato, è molto gettonato dagli amanti del brivido come « uno dei luoghi più spaventosi al mondo » . « È davvero inquietante e girando per i suoi corridoi si respira l’aria di sofferenza che dev’esserci stata » recensisce un visitatore.
Un piccolo gruppo di strutture, infine, si è riconvertito in centri culturali per tener viva la memoria. Come a Volterra: l’ex manicomio è caratterizzato da un’opera unica: un graffito (in parte trasferito al Museo del manicomio Lombroso) di decine di metri di simboli, disegni, parole graffiate con le fibbie sul muro esterno di un padiglione, per 12 anni, dal paziente Nannetti Oreste Fernando noto come NOF4. Il parco del Paolo Pini di Milano ospita invece il Museo d’arte Paolo Pini ( sezione del Museo della psichiatria del Niguarda).

Repubblica 1.5.18
In scena
In principio fu Bellocchio. Poi vennero Girone e Lo Cascio
Il racconto dell’eroe
di Roberto Nepoti


Se è vero che il cinema ha la vocazione delle grandi storie e degli eroi, non poteva lasciarsi sfuggire Franco Basaglia, un eroe del nostro tempo protagonista di un’epica battaglia per la liberazione e la dignità dei malati psichiatrici. Basaglia è il protagonista di due opere di fiction in cui compare in prima persona, interpretato da due ottimi attori: Remo Girone e Fabrizio Gifuni. Nella Seconda ombra, diretto nel 2000 da Silvano Agosti, lo psichiatra veneziano si presenta sotto mentite spoglie per verificare le condizioni in cui vivono i pazienti del manicomio di Gorizia, tra elettroshock, lobotomie e camicie di forza. Diventato direttore dell’istituto, collabora con medici, infermieri e pazienti per rinnovare totalmente i rapporti all’interno dell’ospedale, utilizzandone il giardino, prima vietato ai degenti, e abbattendo muri fisici e psicologici. In C’era una volta la città dei matti di Marco Turco ( 2010), miniserie televisiva uscita anche in sala, Basaglia è interpretato da un Fabrizio Gifuni in gran forma, che del dottore riesce a interpretare non solo il lato eroico, ma anche l’umanità e i momenti di fragilità. Il film ripercorre la vicenda basagliana da quando Franco, giovane psichiatra all’Università di Venezia, manifesta le prime insofferenze per la medicina tradizionale. Mandato “ in castigo” a dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia, dà inizio a quell’autentica rivoluzione che porterà all’abolizione delle terapie violente e di ogni contenzione fisica. Il film lo segue tra Gorizia, Parma e Trieste. Con l’aiuto della moglie Franca Ongaro, Basaglia trasforma quella che era un’istituzione carceraria in un luogo vivibile e aperto alla collaborazione di tutti. Fino alla grande vittoria politica della legge 180, finalmente approvata nel 1978 malgrado infinite polemiche e opposizioni. Marco Turco dirige una fiction emozionante, tra le migliori realizzate dalla tv italiana. L’eroismo produce emulazione, come dimostra l’episodio ambientato nel 1977 della Meglio gioventù di Marco Tullio Giordana ( 2003), film che ripercorre attraverso personaggi emblematici i fatti salienti della recente storia nazionale. Nicola ( Giuseppe Lo Cascio) è un giovane psichiatra che guarda a Basaglia come a un modello ispiratore. Mentre si batte a difesa dei malati ritrova Giorgia, una ragazza conosciuta in passato, rinchiusa nei sotterranei di una casa di cura all’apparenza normale. L’istituto verrà chiuso dalle autorità, mentre Nicola si prenderà cura della giovane con metodi terapeutici ben differenti. Prima del cinema “recitato”, però, era stato il documentario a portare sullo schermo la rivoluzione basagliana. È del 1975 il precoce Matti da slegare, diretto da Marco Bellocchio (all’epoca vicino all’antipsichiatria inglese) assieme a Silvano Agosti, Franco Petraglia e Stefano Rulli per sostenere le tesi di Basaglia e perorare l’abolizione dei manicomi. Girato nell’ospedale psichiatrico di Colorno, in origine era intitolato Nessuno o tutti, suddiviso in tre parti e durava tre ore ( poi ridotte a due ore e un quarto per la distribuzione in sala). Resta ancora da citare, almeno (oltre all’esistenza di diversi documentari per la tv), Eccoli di Stefano Ricci ( 2014), documentario proveniente dalla collezione Osbat- Basaglia e girato nell’ospedale di Gorizia durante gli anni caldi della rivoluzione basagliana e riguardante soprattutto le sedute di musicoterapia. Le scene, riprese in 16mm. da Giorgio Osbat, sono assemblate dal rinomato montatore Jacopo Quadri e accompagnate da un “ sound design” al contrabbasso, in luogo delle musiche originali andate perdute.
Ma Basaglia è stato anche protagonista a teatro: in scena da anni, e ancora in questi giorni, Muri prima e dopo Basaglia è un monologo teatrale interpretato da Giulia Lazzarini. Scritto in occasione dell’entrata in vigore della legge 180 da Renato Sarti (che ne è anche il regista) e basato su testimonianze di prima mano, lo spettacolo è affidato al personaggio reale di Mariuccia Giacomini, infermiera per oltre trent’anni in ospedale psichiatrico “ prima e dopo” Basaglia. Recitando con inflessione triestina, la grande attrice produce momenti di autentica commozione.

Il Fatto 1.5.18
Gustavo Zagrebelsky: “Eversivo l’Aventino di Renzi. Nel proporzionale ci si allea”
Lo stallo - Il professore: “Per me i dem dovrebbero provare a fare un governo, anche breve su poche cose, con i 5Stelle. Così finiranno per distruggere il partito”
intervista di Marco Travaglio


Professor Gustavo Zagrebelsky, l’ha sentito Renzi da Fabio Fazio?
Lei conosce la teoria generale dei numeri nel diritto costituzionale e nella politica?
No, veramente no. Ma c’entra qualcosa con Renzi che chiude la porta in faccia ai 5Stelle e con lo stallo ormai definitivo della politica italiana?
C’entra, vedrà. Il numero 1 è quello del principato: uno regna, tutti gli altri obbediscono. Il numero 2 è quello della sovversione e della rissa: se le forze in campo sono solo due e si affrontano come si usa nelle democrazie latine, inclusa la nostra, senza la cultura politica del ‘modello Westminster’ che spesso si invoca da noi, l’una tende a sopraffare l’altra. In Italia, il 2 significa la totale occupazione dello Stato, degli enti pubblici, della Rai, della burocrazia, della sanità, della cultura… Si vive in quello che Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, chiamava stasis: che non è solo lo stallo, è la quiete apparente che precede la tempesta, lo scontro finale dove uno solo dei due resta in vita. Poi c’è il numero 3.
Che è il caso dell’Italia tripolare nata nel 2013, quando in Parlamento si affacciarono i 5Stelle.
Il 3 è il numero perfetto anche per il pensiero costituzionale: la cifra dell’equilibrio dinamico che garantisce tutti. Se in Parlamento hai tre forze, due potrebbero accordarsi per eliminare la terza, ma poi si piomberebbe nel numero 2: la stasis e lo scontro. Invece conviene a tutti che esista sempre una terza forza, a garanzia delle altre due, contro l’esplodere del conflitto radicale.
Già, ma intanto non si riesce a formare un governo, si torna a votare e, dopo, siamo punto e daccapo. Infatti Renzi ne approfitta per incolpare gli elettori che bocciarono la sua riforma costituzionale e diedero l’assist alla Consulta per silurare anche il ballottaggio dell’Italicum, che la sera delle elezioni ci avrebbe dato un vincitore e un governo sicuro.
Ma non vorrà mica dargli retta, spero. L’Italicum fu bocciato dalla Consulta perché al secondo turno prevedeva un ballottaggio mai visto al mondo fra liste nazionali (non fra singoli candidati in ogni collegio, come in Francia) e assegnava la maggioranza parlamentare a chi rappresentava un’esigua minoranza nel Paese, senza neppure fissare una soglia minima di voti. I premi di maggioranza sono, appunto, di maggioranza, non di minoranza: possono aiutare chi si avvicina alla maggioranza ad averne una più agevole, non a trasformare una piccola minoranza in maggioranza. Il referendum non c’entra nulla: quello riguardava una ‘riforma’ che, insieme a varie aberrazioni, avrebbe voluto fare del Senato un docile strumento in mano all’oligarchia regionale e comunale dei partiti.
Ma come si fa a fare un governo se due su tre non si mettono d’accordo?
Il Pd è la terza forza, dopo il centrodestra e i 5Stelle. Dovrebbe sfruttare questa posizione che lo rende indispensabile alle due forze maggiori e scegliere di coalizzarsi con quella che ritiene più vicina o meno distante: o i 5 Stelle, come io e lei auspichiamo fin dal 4 marzo, oppure il centrodestra. Del resto il Pd non ha avuto problemi, nel 2011 e nel 2013, a fare due governi con Forza Italia e nel 2014, con Renzi, ad accordarsi con pezzi di centrodestra. Renzi invece, anziché far fruttare il 18,7% di voti ottenuto alle elezioni, non vuole proprio giocare la partita: lavora per lo stallo, la stasis. Fa addirittura capire di preferire un governo degli altri due, che farebbe fuori il Pd. Questo significa lavorare contro il suo partito, nell’illusione di farne un altro. Sogna di diventare il Macron italiano. Vedremo se mercoledì in Direzione il suo partito accetterà di estinguersi senza fiatare o deciderà di sedersi a uno dei due tavoli: il più conforme o il meno difforme dalla sua vocazione, se riesce a darsene una.
Renzi finora ha testardamente imposto, e confermato anche domenica sera, l’Aventino. Di lì non si muove.
Mai dire mai, in politica. Il suo aventinismo, dal punto di vista del sistema proporzionale (peraltro voluto da lui col Rosatellum, per diversi aspetti incostituzionale, ma non per l’impianto proporzionale), è una testardaggine vagamente eversiva. Perché sottrae la terza forza politica al gioco democratico. Nei sistemi proporzionali, tutti sono chiamati a mettersi in gioco per ottenere ciò che più desiderano e per impedire ciò che più temono. E solo alla fine, se falliscono, a scegliere l’opposizione. Non dall’inizio, ‘a prescindere’.
Renzi dice che il Pd ha perso e sarebbe assurdo se andasse al governo.
Che abbia perso milioni di voti, non c’è dubbio. Ma che gli elettori l’abbiano destinato all’opposizione è una sciocchezza. Gli elettori non mandano nessuno da nessuna parte. Intanto, perché ‘gli elettori’ non esistono: esiste una molteplicità di elettori, ciascuno dei quali spera che il suo voto venga usato per il meglio. Nel proporzionale, diversamente che nel maggioritario, non esistono vincitori né vinti. Esiste solo chi va bene e chi va male alle elezioni, chi guadagna voti e chi ne perde. Ma nessuno è esentato in partenza dalla responsabilità di contribuire a un governo. Nemmeno chi raggiunge il 50% più uno è ‘il vincitore’: è solo il più alto responsabile del dovere di mettere a frutto i voti ottenuti per agire per il governo del Paese.
Renzi pensa che, lasciando il pallino in mano agli altri e restando sull’Aventino in attesa che passino i cadaveri dei suoi avversari, al prossimo giro recupererà i suoi elettori perduti.
Difficile dirlo. Mi pare più probabile che si illuda. Intanto perché gli elettori non sono né suoi né di nessun altro: sono cittadini liberi di andare dove vogliono. E poi perché è più facile rubare voti agli altri che recuperare i propri fuggiti. Oggi i più arrabbiati col Pd sono proprio gli elettori che votavano Pd e ora votano 5Stelle: lei crede che torneranno perché Renzi boicotta qualunque intesa con i 5Stelle e, nel frattempo, apre la strada del governo alla destra di Salvini? Al contrario, si convinceranno ancor di più di aver fatto bene a fuggire. E alla prima occasione è probabile che lo puniranno un’altra volta.
Che cosa si augura dalla Direzione del Pd?
Che pensi alle esigenze degli italiani, non a quelle del partito. Solo così il Pd può recuperare qualche voto. Altrimenti ne perderà altri a rotta di collo verso i 5Stelle, la Lega e l’astensione. La storia insegna che, quando le forze politiche si muovono in base a previsioni sulle proprie future fortune, queste vengono regolarmente smentite. Pensi al Rosatellum: doveva danneggiare i 5Stelle, tagliare le gambe a Salvini e favorire il governo Renzi-Berlusconi. Invece ha sortito l’effetto diametralmente opposto.
Ma ormai il Pd è il Partito di Renzi e la maggioranza dei parlamentari, scelti personalmente dal capo, seguirà il capo.
Dovrebbero ricordarsi di essere stati eletti in rappresentanza di tutto il popolo e, per una volta, pensare all’interesse generale. Che poi è anche il loro interesse: non rischiare un’altra disfatta elettorale e non distruggere il loro partito. Del resto tutte le simulazioni dicono che, se si tornasse a votare, non esisterebbe comunque un blocco autosufficiente nemmeno se la Lega e i 5Stelle aumentassero i loro voti. Né rivotando col Rosatellum (ipotesi più probabile), né cambiando radicalmente il sistema elettorale (ipotesi, secondo me, improbabile) per adottarne uno qualsiasi fra quelli in circolazione. Quindi il dovere di sedersi al tavolo del più vicino o del meno lontano si riproporrebbe tale e quale fra qualche mese. Che senso ha rinviare la scelta, anziché affrontarla, o almeno tentarla, adesso?
Renzi vuole cambiare le regole sul modello dell’Italicum e della sua riforma costituzionale per raddrizzare le gambe al tripolarismo e schiacciarlo in un bipolarismo forzato.
Quell’ipotesi è già stata bocciata una volta dal 60% degli elettori e dalla Consulta. Ma soprattutto quella del ‘vincitore la sera delle elezioni’ è un’idea malsana e soprattutto incompatibile con l’humus profondo del sistema politico-sociale italiano. Gli illustri miei colleghi comparatisti che vagheggiano sistemi ‘Frankenstein’ o ‘supermarket’, copiati un pezzo dalla Finlandia e un pezzo da San Marino, come se un modello elettorale potesse prescindere dalla realtà materiale della nostra società, hanno sempre pronta una soluzione. Ma non si accorgono che noi italiani non siamo fatti per il bipolarismo brutale, per l’alternanza secca vincitori-vinti, che infatti – negli anni seppur ibridi del Mattarellum e del Porcellum – non ha funzionato. Da noi la troppa semplificazione significa subito conflitto radicale e occupazione totale del potere. Infatti siamo tornati al proporzionale, che è più congeniale al nostro Dna politico e sociale.
Però, due mesi dopo le elezioni, non si vede l’ombra di un governo.
Se è per questo, in Germania – la ‘locomotiva d’Europa’ – di mesi ne hanno impiegati sei prima di farne uno. Lì non cambiano la legge elettorale a proprio uso e consumo. Noi invece crediamo di risolvere i problemi cambiandola in continuazione. Per giunta alla vigilia delle elezioni, quando i partiti credono di conoscere il loro interesse particolare e di poterla ritagliare a propria immagine e somiglianza, salvo poi prendersi cocenti delusioni.
Non è meglio il maggioritario, dove gli elettori scelgono nelle urne chi li governerà, anziché il proporzionale, dove i partiti decidono dopo le urne un’ammucchiata purchessia per andare al potere?
Se non la smettiamo di criminalizzare le coalizioni e di illudere gli elettori, non ne usciremo mai: anche se importassimo in Italia il modello dualistico Westminster – ciò che suppergiù si voleva fare con l’Italicum –, trasferiremmo soltanto le ammucchiate da dopo il voto a prima del voto. Perché uno dei tre poli, per vincere, dovrebbe imbarcare tutto e il contrario di tutto, voto politico e clientelare, voto pulito e di scambio, già prima di votare, per fare numero e arrivare davanti agli altri due. Salvo poi scoprire di essere non una forza politica, ma un calderone. Molto meglio le coalizioni, purché siano fondate su programmi precisi e concordati.
Lei, nonostante tutto, rimane un tifoso del proporzionale.
Mi pare il più adatto all’Italia di oggi, anche se è – per così dire – faticoso. Richiede responsabilità e spirito delle combinazioni. Nella cosiddetta Prima Repubblica, il proporzionale aveva una sorta di pilota automatico. Le coalizioni erano obbligate da fattori esterni. La Guerra fredda aveva diviso il mondo in due blocchi e non si poteva che stare di qua con la Dc o di là con i comunisti: le coalizioni erano fondate sull’‘essere’. Ora è tutto più liquido e fluido, dunque più libero e responsabilizzante nella scelta delle combinazioni. Si tratta di scegliere di volta in volta l’alleato più vicino o meno lontano, in coalizioni basate sul ‘fare’. Cioè partire dai programmi e da quelli giudicare chi è più vicino e più lontano.
Infatti Di Maio propone un contratto di governo alla tedesca.
La prospettiva dei 5Stelle è tutta sul fare: ‘Partire dai programmi e vedere chi ci sta’. E in questo sono stati corretti, interpretando in pieno lo spirito del proporzionale. Anche se poi, secondo me, sono stati troppo disinvolti nel manifestare indifferenza tra il Pd e la Lega, due forze molto diverse. È vero che i problemi non sono né di destra né di sinistra. Ma le soluzioni lo sono, eccome. La sicurezza urbana, la gestione dei flussi migratori, la questione fiscale, il tema del lavoro sono problemi che tutti devono porsi: ma il modo di risolverli non è uguale a seconda che li si guardi da destra o da sinistra. Il fare dipende dall’essere, che non si ricava dalle enunciazioni programmatiche. C’è un ‘non detto’ che viene a galla sedendosi attorno a un tavolo: è lì che emergono le ‘essenze’ più o meno lontane, più o meno compatibili. E si formano le coalizioni. Ecco perché, nella nostra innocenza, sia lei sia io avevamo pensato che la situazione meno assurda fosse una qualche forma di cooperazione tra 5Stelle e Pd. Magari per poco tempo, su pochi punti, con una delle tante soluzioni pratiche di cui il bizantinismo politico italiano è sempre stato maestro.
Invece, per Renzi e molti altri dirigenti del Pd, l’“essere” e anche il “fare” dei 5Stelle sono orripilanti quanto quelli della Lega. Non invece di Berlusconi…
Ci si può chiedere come il Pd, che persino Renzi si ostina a definire ‘sinistra’, possa assumersi la responsabilità di ritirarsi sull’Aventino senza indicare una sola alternativa all’ipotesi di un’intesa con i 5Stelle su un programma sociale, senza approfittare dei tanti temi che Grillo e Di Maio hanno mutuato dal bagaglio del centrosinistra e che il Pd ha abbandonato ormai da anni. E così favorire un governo non solo con Berlusconi, con cui il Pd si è trovato così bene per anni; ma addirittura con la Lega, cioè con quanto di più lontano esista al mondo dai valori della sinistra. Come faranno a spiegarlo ai loro elettori rimasti, quando si tornerà alle urne?
Renzi&C. obiettano che Di Maio e Salvini sono due populisti gemelli. E che oggi, come ai tempi della Guerra fredda, c’è di nuovo una pregiudiziale sull’essere più che sul fare: non più tra comunisti e anticomunisti, ma tra populisti e antipopulisti. Senza contare il deficit di democrazia interna dei 5Stelle.
Sulla democrazia interna, forse dimenticano lo statuto e le prassi ultraventennali di Forza Italia, partito aziendale e padronale per eccellenza, con cui hanno fatto governi e addirittura riforme elettorali e costituzionali. Quanto al cosiddetto ‘populismo’, mi pare una parola magica evocata da chi non vuol entrare nel merito delle cose. ‘Populista’ era Perón, ma anche papa Giovanni XXIII, come ora Bergoglio. Lo era anche Berlusconi, che ora invece – chissà perché – sarebbe anti. I populisti sono sempre gli altri: quelli con cui si vuole litigare senza spiegare perché. Ultimamente si chiamano populisti quelli che propongono misure a favore del popolo e utilizzano metodi costituzionali per migliorare le vita ai propri concittadini, quando non si sa come altrimenti squalificarli. Penso al reddito di cittadinanza, o di dignità, o di inclusione: se è solo una promessa campata in aria per raccattare voti è populismo, ma se è una misura strutturale, con adeguate coperture finanziarie, per ridurre le diseguaglianze e sostenere chi cerca lavoro è una scelta democratica per eccellenza, non populista. Populista invece è chi sostituisce i diritti con i favori e pratica il voto di scambio, come alcuni ultimi governi iperpopulisti. Ma anche chi disprezza le istituzioni e scavalca la loro logica oggettiva per appellarsi direttamente al popolo. La tentazione populista è universale, oltreché vecchia come il mondo: nessuno ne ha l’esclusiva e nessuno ne è immune.
Lei, ora, vede una soluzione?
Gliel’ho detto. Un governo di coalizione su pochi punti, anche di durata limitata, anche con appoggi esterni, sull’asse 5Stelle-Pd (o, se Renzi preferisce, su quello centrodestra-Pd). E un Parlamento che sostituisca il Rosatellum con una legge proporzionale a preferenza unica, senza liste bloccate di nominati né paracadutati con le famigerate multicandidature, che ci restituisca un Parlamento di veri eletti dai cittadini, quindi capaci di autonomia. I quali poi diano vita a coalizioni omogenee e, a fine legislatura, ne rispondano agli elettori. Quella attuale, paradossalmente, è la situazione ideale per questo approdo: la maggior parte delle forze politiche non è in grado di fare previsioni attendibili sul futuro proprio e altrui alle prossime elezioni. I 5Stelle potrebbero logorarsi o crescere ancora. Il Pd potrebbe scomparire, spaccarsi un’altra volta, oppure rigenerarsi (anche se, su questa china, non si vede come). Berlusconi è nell’incertezza più totale. Salvini è l’unico che pare sicuro di sé, ma non è mai detta l’ultima parola. Il filosofo politico John Rawls usava un’espressione felice per dipingere la condizione dei sistemi politici al loro esordio o alla loro rinascita: ‘Il velo dell’ignoranza’. È quella la condizione ideale per la nascita delle Costituzioni o delle leggi costituenti per eccellenza come quelle elettorali.
Cos’è oggi il velo dell’ignoranza?
Il fatto che nessuno sappia esattamente come andranno le prossime elezioni ci consentirebbe di fare una legge elettorale equa e democratica, senza fasulle aspettative per questa o quell’altra bottega. Come nel biennio 1946-48, quello della Costituente: nessun partito sapeva chi avrebbe tratto beneficio da questa o da quell’altra scelta, dunque seppero tutti elevarsi al di sopra dei loro interessi particolari perché nessuno poteva prevedere come favorirli. Mi auguro che, dopo due mesi di veti e Aventini, qualche partito sappia ragionare, se non alla luce dei grandi ideali o del bene comune, almeno del velo dell’ignoranza. E pensare a quel che serve all’Italia. Cercando un’intesa sulle cose da fare per farne bene almeno qualcuna, almeno per un po’. Le pare impossibile?

La Stampa 1.5.18
Scoppia la rivolta contro Renzi
Il Pd ora rischia l’implosione
Martina: così è impossibile guidare. Franceschini: Matteo signornò
di Alessandro Di Matteo


Adesso la tentazione è quella di andare alla conta, provare sfidare Matteo Renzi già in direzione, nonostante l’ex segretario sia convinto di avere ancora la maggioranza. L’intervista a «Che tempo che fa» ha spiazzato tutti, le telefonate tra i i vari dirigenti Pd e il reggente Maurizio Martina sono cominciate subito dopo la fine dell’apparizione tv, domenica sera, e la valutazione era unanime: «Così non si può andare avanti, bisogna dire basta e tu, Maurizio, devi essere il primo». Si vedrà giovedì, in direzione, se davvero si arriverà a votare ma al momento da Dario Franceschini ad Andrea Orlando sono tutti convinti che si debba dare uno stop a Renzi, costi quel che costi, anche una eventuale separazione.
L’oggetto del contendere, come è evidente, non è più se dialogare o no con M5S o con chiunque altro, in ballo c’è il controllo del Pd. Come spiega un dirigente vicino a Franceschini: «Dobbiamo chiarire due punti: primo, chi è che rappresenta il Pd in questa fase, non si può andare al Quirinale e poi essere sconfessati. Secondo, bisogna al più presto uscire da questa ambiguità, con Renzi segretario-ombra: serve un segretario pienamente legittimato».
Martina viene descritto da chi ci ha parlato come particolarmente amareggiato per la sortita di Renzi, che «era costantemente coinvolto in tutti i passaggi - sottolinea un dirigente Pd - anche quando, dopo il colloquio con Fico, si è deciso di dire che c’erano stati passi avanti». Nessuno o quasi credeva davvero che si potesse arrivare ad un accordo con M5S, ma la trattativa serviva per fare sponda al difficile lavoro di Sergio Mattarella e, anche, per traghettare davvero il Pd verso il «dopo Renzi».
«È impossibile guidare il partito in queste condizioni - ha attaccato Martina a metà giornata - ciò che è accaduto in queste ore è molto grave, per il merito e per il metodo». Era l’affondo che aspettavano Orlando, Franceschini e gli altri. Di lì a poco è partita una raffica di dichiarazioni a sostegno del segretario reggente e contro Renzi. Per Franceschini è «il momento di fare chiarezza», per Orlando «ha ragione Martina, non si può tenere un partito in queste condizioni», mentre per Michele Emiliano «Renzi non rispetta regole e iscritti». Toni simili anche da Fassino, Zingaretti e Bettini, che dà per scontata la separazione perché «Renzi vuole fare Macron».
La voglia, appunto, è di andare a contarsi. «Nel Pd - rileva un deputato che all’ultimo congresso era nella maggioranza renziana - ormai Renzi è isolato. Può darsi che controlli ancora la direzione, ma da Prodi e Veltroni, fino a Franceschini, Sala e persino Gentiloni, tutti sono su un’altra linea». Durante i colloqui di queste settimane, racconta un parlamentare vicino a Martina, anche diversi renziani di spicco come Delrio, Guerini e, appunto, lo stesso Gentiloni avrebbero dato l’ok alla linea del dialogo. Il tentativo è di vedere se queste posizioni, per ora sussurrate, verranno allo scoperto in direzione. Martina, nei colloqui con Franceschini e Orlando, avrebbe messo a punto una linea che prevede una dura relazione: una rivendicazione del lavoro svolto in queste settimane e la richiesta di una sorta di voto di fiducia del parlamentino Pd.
Una mossa che per qualcuno è azzardata, ma anche secondo Fassino «è indispensabile che si esca con un chiarimento che consenta a Martina di guidare il partito con autorevolezza in una fase così cruciale per il Paese». Perché come tutti ripetono: «Così non si può andare avanti»·

Corriere 1.5.18
Zanda: nel partito equilibri cambiati, serve il congresso
«Quando ci si dimette dopo aver dimezzato i voti si abbandona il campo»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA Luigi Zanda fu il primo dei dirigenti dem a chiedere a Matteo Renzi di onorare l’istituto delle dimissioni. E adesso che l’ex segretario è tornato sulla scena terremotando il Pd, il senatore che ha presieduto il gruppo di Palazzo Madama rinnova energicamente l’appello: «Quando ci si dimette bisogna abbandonare il campo».
Cosa pensa degli altolà dell’ex premier?
«Penso che Martina abbia ragione, l’atteggiamento di Renzi fa molto male al Pd.Oggi i partiti personali sono di moda ma in tutto il mondo funzionano fino a quando il leader vince. Quando si perde in un referendum, alle regionali, alle amministrative e, alle politiche, si dimezzano i consensi, i partiti personali perdono».
E se il leader sconfitto ritorna?
«Per il Pd il punto di partenza dovrebbe essere ancora l’analisi, mai fatta, della nostra sconfitta al referendum costituzionale. Gli italiani non hanno detto di no alla riforma, ma punito quel modello di potere che era emerso durante la campagna elettorale di Renzi. E questo l’ex segretario non lo ha capito. Le racconto una cosa».
Prego.
«Dopo il 4 dicembre 2016 andai a Firenze ed ebbi una lunga e bella conversazione con Renzi, al quale suggerii di mollare tutto per qualche anno e di partire, anche fuori d’Italia. Lui mi rispose “è impossibile, perché tutti mi chiedono di restare almeno al partito, ma io Luigi ti assicuro che cambierà tutto, condividerò ogni decisione...”. Pensai che la stagione del suo ego strabordante fosse finita. E invece no, non ci è riuscito e sta facendo molto male al Pd».
Avete usato il dialogo con il M5S per far fuori Renzi definitivamente?
«Ma no. Per cinque anni ho fatto una battaglia politica dura coi 5 Stelle al Senato e so che la distanza tra di noi è tantissima. Abbiamo idee molto diverse persino sul tipo di democrazia e sull’Europa, vedo tutti i rischi di un rapporto politico con loro. Ma sottrarsi al confronto è sbagliato, si tratta anche di far fare loro un bagno democratico».
Confronto in streaming?
«Loro furono molto volgari nel 2013, noi non lo siamo. Se dovessero ancora sostenere il primato della democrazia dei clic dovremmo alzarci dal tavolo e non proseguire nemmeno gli incontri, perché sulla democrazia parlamentare rappresentativa il Pd non può transigere».
Ha apprezzato almeno l’apertura sulle riforme?
«Parlarne in tv con una situazione politica così difficile non aiuta il cammino delle riforme costituzionali, di cui l’Italia ha un grande bisogno. È dai tempi di Craxi che questo Paese discute sul modello francese o simili. Non credo che per fare passi avanti su questa strada sia utile buttare lì la proposta senza averla preparata e discussa negli organi del partito».
Renzi è tentato da un partito macroniano tutto suo?
«Nell’Italia del 2018 è una sciocchezza. Il nostro Paese non è la Francia, da noi non ci sono le condizioni sociali e politiche né una Costituzione che lo può permettere».
Di Maio intanto si prepara per le elezioni a giugno...
«Diciamo la verità, in una democrazia sana non bisogna mai avere paura di andare a votare. Ma su elezioni anticipate l’unico titolato a parlare è il presidente della Repubblica e non Di Maio. Chiedendo le elezioni a giugno il capo politico del M5S certifica il suo fallimento. Prima cerca il governo con Salvini, poi col Pd, ora chiede elezioni. Mi sembrano ondeggiamenti eccessivi anche per un grillino».
In direzione giovedì sarà resa dei conti?
«Le conte vere si fanno al congresso. Il Pd ha bisogno con urgenza di un congresso serio e ben preparato, che dia atto del profondo cambiamento dei nostri equilibri interni. Il risultato elettorale ci dice che tra i nostri iscritti ed elettori la maggioranza che ha vinto l’ultimo congresso è diventata minoranza. Vedo dai sondaggi che oggi Renzi è meno popolare di Martina e Gentiloni, per non citare Salvini e Di Maio. E questo vorrà pure dire qualcosa».
L’ala dialogante non ha un candidato. O puntate su Martina?
«Non parlerei di ala dialogante, ma di quella parte del partito che vuole mantenere lo spirito democratico del Pd. Dirigenti che possono aspirare a fare il segretario sono più d’uno, naturalmente anche Martina».
Gentiloni ci pensa?
«È Gentiloni che deve parlare di Gentiloni, non io. Serve il congresso perché il Pd è un perno decisivo della democrazia. Soltanto il Pd può garantire la stabilità democratica, in un momento in cui si fronteggiano i 5 Stelle della Casaleggio associati e il centrodestra di Salvini e Berlusconi».
Per riprendersi il Pd, deve ritirare le dimissioni?
«Francamente, l’istituto giuridico del ritiro di dimissioni dopo due mesi che si sono date non l’ho mai incontrato nella mia vita».

Repubblica 1.5.18
Pd, rivolta anti Renzi “Così ci fa sparire pensa al Nazareno bis”
Martina: quel che è accaduto è grave, si logora chi guida il partito Anche Franceschini rompe. L’ex leader: ho il dovere di dire la mia
di Concetto Vecchio


Roma «La mia sensazione, vedendolo in tv da Fabio Fazio, è che Matteo Renzi abbia voluto prefigurarsi l’opzione di un sostegno esterno a un governo di minoranza del centrodestra che faccia le riforme: un Nazareno bis». Sono questi i sospetti che il segretario reggente del Pd Maurizio Martina confida a sera ai collaboratori più stretti.
È un’altra giornata da psicodramma per il Partito democratico, irrimediabilmente diviso tra due partiti, i renziani di stretta osservanza, e il nuovo asse legato a Martina- Franceschini, che crede nel dialogo con l’M5S. Martina alle tre del pomeriggio non ce la fa a trattenersi: « Ciò che è accaduto in queste ore è grave, nel metodo e nel merito. Così un partito rischia l’estinzione». Due ore dopo un tweet del ministro Dario Franceschini salda l’asse tra i due: « Dalle sue dimissioni Renzi si è trasformato in un Signornò, disertando ogni discussione collegiale e smontando quello che il suo partito stava cercando di costruire. Un vero leader rispetta una comunità anche quando non la guida più» . L’hashtag “ Franceschini” diventa trending topic.
I renziani, che in mattinata, con in testa Michele Anzaldi, avevano esultato compatti per il tonfo M5S in Friuli, ora bersagliano il ministro della Cultura; il resto del partito, da Goffredo Bettini a Cesare Damiano, da Sergio Lo Giudice a Andrea Orlando, si schiera a difesa di Martina. Entrambi gli schieramenti usano D’Alema come “ paradigma del male”: la renziana Anna Rita Leonardi, già candidata sindaca di Platì, twitta: «Franceschini come un D’Alema qualunque». L’ex deputato Dario Ginefra: « Renzi ha assunto le sembianze di D’Alema» . Tra queste due fazioni Piero Fassino prova fare il pontiere: « Dalla Direzione è indispensabile che si esca con un chiarimento che consenta a Martina di guidare il partito con autorevolezza. Non c’è vita lunga con due strategie concorrenti e due centri di direzione».
Martina annuncia che non si dimetterà, « mi sfiducino loro in direzione», giudica «un autogol» l’uscita di Renzi, perché rischia di essere un’accelerazione verso il voto: « Un’evenienza che per noi sarebbe devastante» , confida a un amico. « Capisco i dubbi sull’alleanza con i Cinquestelle, anche io ne avevo, ma era una strada politica che andava percorsa, invece un patto col centrodestra ci riporta indietro a una stagione che pensavamo archiviata per sempre». Come potranno convivere queste due anime in futuro è difficile pronosticarlo. Dice Martina: «Pongo una questione politica: siamo o no ancora una comunità dove si prendono collegialmente le decisioni?». Nel clima dei sospetti che tutto intossica gli antirenziani fanno trapelare la voce che Renzi sapeva in realtà della lettera aperta al Pd di Di Maio, che tra i due c’era addirittura un’intesa: poi Renzi, con un colpo di teatro, avrebbe rovesciato il tavolo per dispetto.
Alle 20 su Twitter irrompe Renzi, che posta il video dell’intervista a “ Che tempo che fa”: « Ho il dovere, non solo il diritto, di illustrare le mie scelte agli elettori. Rispetto chi nel Pd vuole andare a governare con # M5s, ma credo sarebbe un grave errore» . In un baleno centinaia di commenti si affollano sotto il tweet: un derby tra sostenitori dell’ex premier ( « tieni duro, quelli pensano alle poltrone!» ) e suoi critici, imbufaliti per un’uscita che « ha svuotato di significato la Direzione». Secondo Martina l’uscita di Renzi stavolta ha sconcertato molti sostenitori, poiché ormai appare chiaro il disegno di segare le gambe agli avversari di turno. « Una tecnica di logoramento adottata con Gentiloni, che ora si ripete con me».
«Portare la discussione fuori dalle sedi di partito – attacca l’europarlamentare David Sassoli – mette in discussione il pluralismo interno». «Quale estinzione, il Pd ora ha ripreso vigore» , taglia corto il senatore Davide Faraone. Un dialogo tra sordi. Fuori dalla mischia, l’ex tesoriere Ugo Sposetti, non le manda a dire: «È il momento della battaglia politica contro il “ delinquente” che ha distrutto la sinistra. Lo dico a Franceschini e Martina: queste lotte irrobustiscono. Nei territori il Pd è morto, le sedi sono chiuse, devono ringraziare che si sia votato solo in due regioni. Perché la Rai ha permesso che Renzi sabotasse un percorso che aveva anche il consenso del Colle?». A tarda sera la parola Signornò scale le gerarchie di Twitter. Un partito senza pace.

La Stampa 1.5.18
All’orizzonte si profila il ballottaggio
di Marcello Sorgi


Dai risultati del voto regionale in Friuli arriva una spinta molto forte verso nuove elezioni anticipate, un rischio mai escluso, del resto, nei due mesi di inutili trattative per il governo dopo il 4 marzo. È abbastanza semplice capire perché, sebbene le dimensioni esigue della consultazione locale, rispetto alla posta in gioco nazionale, non siano paragonabili.
Pesa ovviamente di più l’inconcludenza del negoziato, la liturgia, incomprensibile ai più, delle consultazioni e delle esplorazioni, la mancata nascita del governo dei (non) vincitori, i tentativi confusi di mescolare, nella stessa improbabile maggioranza (che mai s’è manifestata come tale), il più radicale movimento d’opposizione premiato con il primo posto in termini percentuali con il maggior partito (ex) di governo, uscito sconfitto dalle urne. L’insieme di questi fattori s’è tradotto così nel voto dei cittadini del Nord-Est.
La Lega ha stravinto, trainando dietro di sé anche gli alleati Forza Italia e Fratelli d’Italia, incoronando nuovo governatore della regione Massimiliano Fedriga, fino a qualche mese fa capogruppo salviniano del Carroccio alla Camera, e confermando definitivamente Salvini leader di tutta la coalizione. Il Pd, che aveva fino a ieri l’amministrazione del Friuli, ha perso, collocandosi più o meno ai livelli delle politiche e un po’ meglio come centrosinistra. Il Movimento 5 Stelle è crollato al di sotto di ogni possibile previsione negativa, al punto da far pensare a una diserzione del temuto esercito dei suoi militanti, demotivati dal pendolo di Di Maio tra centrodestra e Pd.
Se ne ricava che finisce qui la serie di tentativi di fare un governo mettendo insieme due delle tre forze politiche protagoniste del voto di due mesi fa. Salvini adesso è il meglio piazzato per una nuova tornata elettorale che il suo rivale/alleato Di Maio, augurandosi che si possa tenere entro giugno, ha già definito il «ballottaggio» del 4 marzo. Il leader leghista non ha ceduto alle sirene pentastellate che lo allettavano con un ruolo di primo piano al governo se solo avesse lasciato per strada Berlusconi e Meloni, e s’è invece aggrappato con tutte le sue forze all’alleanza di cui è divenuto padrone. Inoltre il fallito dialogo tra M5S e Pd gli ha fornito un argomento prezioso per la prossima campagna elettorale. Potrà ben dire: noi avevamo vinto, abbiamo cercato un compromesso per dare un governo al Paese, ma il regime ce lo ha impedito proponendo un inciucio tra il movimento del finto cambiamento di Di Maio e il Pd dei passati governi rifiutati dagli elettori. Ora ci servono i voti che mancano per governare davvero.
Anticipato da Grillo, che sempre lo precede quasi ad autorizzarlo, Di Maio aveva già deciso la svolta pro-elezioni, dopo aver sentito Renzi in tv far saltare il confronto con i 5 Stelle di cui il Pd s’apprestava a discutere nella direzione convocata il 3 maggio. La doccia fredda dei risultati del Friuli lo ha vieppiù indirizzato verso il voto. La solidarietà ricevuta da Di Battista, leader dell’ala autenticamente movimentista, sta a significare che il capo politico e mancato premier del governo del cambiamento avrà bisogno di un aiutino per riciclarsi, dalla sonnolenta tattica «democristiana», com’è stata impropriamente definita nelle ultime settimane, alla caffeina della prossima campagna elettorale. Dirà anche lui: eravamo i vincitori, ma il regime ci ha messo i bastoni tra le ruote; pur consapevole che dell’odiato regime, per otto lunghe settimane, è apparso un esponente di primo piano, in giacca e cravatta istituzionale.
Quanto al Pd, peggio di com’è messo, non potrebbe. Gli manca un leader, un condottiero adatto a guidarlo nell’estrema battaglia che lo aspetta, questione di vita o di morte. Il ritorno in campo televisivo di Renzi può significare che il leader dimissionario è pronto a riprendersi il suo posto, se il Pd accetterà o si arrenderà al suo ritorno, o a fondare un suo nuovo partito, sulle macerie di quello moribondo, per tentare una rivincita, al momento assai improbabile.
Resta da dire di Mattarella: ha fatto tutto il possibile, finora, per cercare di riportare alla ragionevolezza partiti e movimenti assurdamente convinti che il 4 marzo fosse solo il primo tempo di un regolamento di conti epocale, e subito proiettati verso il secondo turno, che da ieri invocano a gran voce. Con la stessa legge elettorale e senza neppure la possibilità di tentare di riformarla, all’ombra di un governo chiamato a sbrigare gli affari più urgenti, è alto il rischio che il prossimo risultato non si discosti molto dall’esito sterile dell’ultima volta, precipitando l’Italia in una condizione a metà strada tra la Spagna e la Grecia di questi ultimi anni. Non di semplice scioglimento delle Camere, si tratterebbe, in quel caso: ma di dissoluzione.

Corriere 1.5.18
Manifestazioni fasciste, la protesta dell’Anpi


L’Anpi chiede «condanne esemplari alla magistratura» per apologia di fascismo, dopo i due casi di Milano — domenica un centinaio di nostalgici ha portato fiori in piazzale Loreto, dove fu esposto il cadavere di Mussolini, e in centinaia hanno fatto il saluto romano davanti al murale per Sergio Ramelli, 19enne Msi ucciso nel ‘75 — e il caso di Genova, con la richiesta al sindaco Bucci di dissociarsi dal consigliere FdI che con la fascia tricolore ha partecipato a una cerimonia per i morti della Rsi.

Corriere 1.5.18
«Sognavo di insegnare ma sono stato sconfitto da un sistema corrotto»
Lo scrittore Ferdinando Camon: è successo 40 anni fa
Un vecchio rancore mai mitigato, un sogno infranto che gli ha segnato la vita e che oggi riaffiora così: «Quella volta sono stato sconfitto dalla potenza della corruzione, della mafiosità dello Stato».
di Andrea Pasqualetto


Sollecitato su Facebook dal rimprovero di un lettore che lo accusava di aver smesso d’insegnare senza ragioni, Ferdinando Camon ha riposto il fioretto e ha deciso di usare la polvere da sparo. «Sognavo un incarico universitario, a un certo punto se ne presenta uno, faccio domanda, siamo in due ma l’altro ha già un altro incarico e a norma di legge deve finire in coda alla graduatoria. Infatti la facoltà mette me al primo posto e lui al secondo, ma dà l’incarico a lui senza alcuna spiegazione...».
Per lo scrittore padovano, 82enne, fu la fine di un sogno. Lo spiega in un post carico di rabbia, al punto che l’episodio sembrerebbe successo ieri e invece risale a 40 anni fa. «Volevo insegnare tutta la vita. Sono nato per questo. Ho insegnato in tutti i gradi di scuole, dalle medie alle magistrali ai geometri ai ragionieri all’università (il Dams di Bologna)». Gli mancava un salto di qualità, il passaggio da Bologna, dove teneva un corso di Letteratura di massa, a Padova, la sua città.
Camon entra nei dettagli e ne scrive al presente. Il Consiglio di facoltà che gli dà torto, il Senato accademico che gli dà ragione e lui che finisce a Roma, davanti a una funzionaria del ministero. «Lei tira fuori una fotocopia della delibera. Io ho la mia in mano, timbrata, e dico: “Ma scusi, la sua copia è falsa, ha una riga in più”. La signora controlla il suo verbale, lo confronta col mio, scatta in piedi e urla: “Fuori tutti!, c’è una cosa delicata”. Usciti tutti e svuotata la sala, dice a me: “Se ne vada, non ho niente da dirle”. Ha cacciato tutti perché non ci fossero testimoni, e ha rinchiuso la sua copia falsa nel cassetto».
Fin qui il racconto di Camon, che riporterà nei dettagli in un libro in uscita a gennaio per le edizioni Guanda, titolo provvisorio Scrivere è più di vivere. «A questa storia dedico un capitolo. Non farò nomi perché il mio interesse non è colpire qualcuno ma denunciare quel sistema. Allora c’era un fenomeno per cui un professore metteva in cattedra il marito della sorella e non succedeva niente». Nepotismo? «No, i baroni creavano un allievo che fosse continuatore della loro scuola, una comunità ideologica, politica, partitica, anche religiosa, democristiani contro comunisti». Dice di aver maturato allora una sfiducia totale nel mondo accademico e nelle istituzioni: «Credevo che un ministero fosse il cuore dello Stato...».
E all’università di Padova cosa dicono? «Io francamente non ne so nulla», taglia corto il rettore Rosario Rizzuto. Ricorda qualcosa invece Michele Cortellazzo, direttore della Scuola Galileiana, ultimo preside di Lettere: «Ho presente la polemica successiva che ci fu fra Camon, il commissario di un concorso e il preside di facoltà. Se lui torna sulla cosa dopo tanti anni significa che deve averla proprio a cuore». Ce l’ha nel cuore e nella memoria: «Il preside disse che assegnare la cattedra al fratello della moglie o compagna da parte di un commissario non è conflitto d’interessi ma una faccenda privata. Per me è invece un’attività mafiosa».

il manifesto 1.5.18
Il Sessantotto incompiuto di Alain Badiou
Saggi. «Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68» per le Edizioni Orthotes, a cura di
di Marco Assennato


«In occasione del cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la parola per rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della condanna all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia in testa agli articoli-anniversari» – il 68 come ribellione di costume, «ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» – quanto l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo neoliberale contemporaneo.
«L’attualità del Maggio 68» si disegna invece come «riserva di coraggio» da scagliare contro due dispositivi di accecamento contemporanei: la morale del capitale umano, del merito e del successo atomizzante, da una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e reazionarie secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo».
LA PUBBLICAZIONE di questo piccolo pamphlet – Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68 (pp. 112, euro 14) per le Edizioni Orthotes è quindi opportuna e coraggiosa: è una bella immagine questa del filosofo che rivendica una carica di speranza contro tanti corvacci stanchi.
Si tratta insomma di tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la sua intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario, piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio 68», scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e tuttavia certamente potenti: il maggio studentesco – che ha segnato una forma radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello operaio – scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione» alle istituzioni tradizionali della sinistra storica, tanto socialista quanto comunista; e quello libertario, deposito prezioso di un profondo rinnovamento delle pratiche teoriche, artistiche e culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo così una torsione decisiva al suo pensiero, in «questa effervescenza contraddittoria» la componente «essenziale» è costituita da «un quarto Maggio 68, che prescrive il nostro avvenire».
C’È UN’ARIA di rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il filosofo tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua celebre riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva tolto di mezzo ogni possibilità di concretare il kairòs in qualsivoglia cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si vuole invece come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in una genealogia – le lotte operaie che attraversano la Normandia e le periferie francesi lungo il 1967 – e si stende nei due decenni successivi. «L’evento – nota correttamente Alberto Destasio nella postfazione del volume – non è sciolto dal plesso con la storia, non è incondizionato. Ogni evento è storico». Più che esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo con «la tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi? Quale forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco l’eredità viva del Maggio francese.
TUTTAVIA, giunti al punto massimo di tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e precipita indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente ogni idea della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi: è proprio a partire dalla completa obliterazione di ogni «agente soggettivo» che si manifesta la «distensione nichilista» di Alain Badiou. La politica comunista è una «Pura Idea», necessaria alla vita.
Dopo un elogio sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto Maggio vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra politica, illuminata dalla presenza immanente degli intellettuali», che – come insegna il comandante della lunga marcia – restituiscano alle masse «in modo preciso» ciò che esse consegnano «in maniera confusa». Nessuna inchiesta sulle singolarità antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le pratiche di lotta, né la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le chiarisce esattamente in forza della propria separatezza. Torna così l’ipotesi del comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente esterna all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra, tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio di ribellarsi» che attraversa tutto il libro.
COME REPLICARE a Badiou? C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze – cui Badiou rende un fuggitivo omaggio – e Felix Guattari, nel 1984, che varrebbe la pena accostare a questo libretto, per sbloccarne l’impasse. Anche lì era questione di evento. Notavano allora Deleuze e Guattari: il 68 non nasce da una crisi, è piuttosto la – lunghissima – crisi attuale che nasce dall’incapacità della società europea di operare una riconversione soggettiva di quanto accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille Plateaux ci hanno insegnato a rileggere il desiderio comunista come qualcosa che si costruisce dentro all’ammodernamento delle forme produttive, come fame di ricchezza e gioia della riappropriazione. «L’evento – scrivevano Deleuze e Guattari – crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non si dà neppure filosofia.

La Stampa 1.5.1
Emilio Lussu: in prigione voglio soltanto La Stampa
“Rappresenta l’opinione costituzionale e legalitaria”: trovata una lettera dello scrittore antifascista scritta nel 1926 dal carcere di Cagliari
di Nicola Pinna


Chiedeva una penna, un calamaio e carta «da scrivere in quantità sufficiente». Poi libri e possibilmente anche un giornale. Ma non uno qualsiasi. E lo specifica con chiarezza, Emilio Lussu. Nella sua lettera al Procuratore del Re, scritta dal carcere di Cagliari il 3 novembre del 1926, spiega bene questa sua richiesta: «Il sottoscritto si limita a chiedere la lettura del giornale La Stampa, edito a Torino, che notoriamente rappresenta l’opinione costituzionale e legalitaria».
Il rischio, e Emilio Lussu lo sapeva bene, era quello che in cella arrivassero i giornali di propaganda. E se è vero che la lotta antifascista gli era già costata le manette, per arrivare poi al confino, l’eroe sardo della Prima guerra mondiale non voleva di certo ritrovarsi costretto a leggere dietro le sbarre le notizie messe in circolo dal regime. Per questo sperava di ottenere solo una concessione: non quella di avere «un giornale di sinistra», ma soltanto La Stampa. Un quotidiano che dell’indipendenza ha fatto la sua forza lungo i 151 anni di storia, pur tra i pesanti limiti imposti dal regime durante il periodo fascista.
Durante la detenzione all’interno del carcere di Buoncammino a Cagliari, tra il 31 ottobre del 1926 e il 22 ottobre dell’anno dopo, Emilio Lussu ha scritto alcune delle pagine della sua ricca produzione letteraria. Ma anche molte lettere, ai parenti, al direttore del penitenziario, che in quel periodo era Attilio Murru Mameli. Quella del 3 novembre, nella quale chiede di poter leggere La Stampa, era rimasta nascosta per quasi 100 anni negli archivi della casa circondariale. Dimenticata, anzi trascurata, tra milioni di carte che meriterebbero di essere esposte in un museo.
A recuperarla, qualche mese fa, è stata la famiglia di Lussu, continuamente impegnata nella ricostruzione del grande impegno politico e culturale del fondatore del Partito sardo d’Azione, il primo movimento indipendentista sardo, unica forza politica che in Sardegna riuscì a contrastare l’avanzata del fascismo. Dell’autore di Un anno sull’altipiano restano tante testimonianze del lungo cammino letterario. A partire proprio dal racconto della sua avventura nelle trincee della Prima guerra mondiale, con la divisa da ufficiale delle Brigata Sassari: un libro tradotto in molte lingue e considerato una delle opere più importanti del Novecento italiano.

Corriere 1.5.18
Nella Roma dei veleni
Un saggio di Andrea Carandini (Laterza) ricostruisce le vicende complesse della dinastia Giulio-Claudia, nelle quali spicca una figura femminile del tutto priva di scrupoli. Una stagione oscura di macchinazioni e di efferati delitti
La vita di Agrippina, madre di Nerone un esempio di lotta feroce per il potere
di Paolo Mieli


Il nonno era Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano (futuro Augusto, imperatore tra il 27 a.C. e il 14 d.C.), del quale vale la pena di ricordare che fu il grande artefice della vittoriosa battaglia navale di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra (31 a.C.). Sua madre — anche lei si chiamava Agrippina — figlia di Vipsanio Agrippa, era nipote di Augusto ed ebbe nove figli, di cui però ne sopravvissero solo sei. Suo padre, Germanico, era nipote di Tiberio — imperatore tra il 14 e il 37, successore di Augusto (che lo aveva adottato) — e morì ad Antiochia avvelenato, probabilmente su istigazione proprio di Tiberio. Suo fratello Caligola (Gaio), successore di Tiberio, fu imperatore tra il 37 e il 41. Suo marito (ma anche zio), Claudio, succedette a Caligola e fu imperatore tra il 41 e il 54. Suo figlio, Nerone, successore di Claudio, fu imperatore tra il 54 e il 68. Un’incredibile serie di parentele ai vertici della Roma d’inizio del primo millennio, rendono la vita di Agrippina (detta «minore» per non confonderla con l’altra Agrippina di cui si è detto, sua madre) davvero unica.
Quasi una sfida per Andrea Carandini che ha deciso di far confluire anni e anni di studi e ricerche di archeologia e storia in uno straordinario libro a lei dedicato, Io, Agrippina. Sorella, moglie, madre di imperatori, che sta per uscire da Laterza. Un saggio impreziosito da illustrazioni e tavole eccellentemente curate da Maria Cristina Capanna e Francesco De Stefano. Il modello è, fin dal titolo, Io, Claudio di Robert Graves pubblicato nel 1934 e tradotto in Italia, in tempi recenti, per le edizioni Corbaccio. Ma il racconto di Carandini si differenzia in più parti da quello ben più romanzato di Graves. Ovviamente un altro punto di riferimento sono le Memorie di Agrippina di Pierre Grimal, un testo però meno ricco e affascinante di quello di Carandini. Fonte di ispirazione, più alla lontana, sono anche le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Quando nel 14 muore Augusto e gli succede Tiberio, l’esercito in Germania si rivolta a causa dei troppi anni di servizio (oltre 16), del «soldo inadeguato», e della crudeltà dei centurioni. Tiberio manda Germanico a sedare la ribellione e a sorpresa i rivoltosi lo acclamano, proponendogli di prendere il posto dell’imperatore. Ma lui non aspirava all’impero, ottenuto «tramite eversione», per cui resiste alla pressione della truppa. Si può probabilmente dire che la rivolta si spegne proprio perché Germanico non aderisce ad essa. Dopodiché il Tiberio messo in luce da Carandini loda Germanico in Senato per aver rifiutato il potere offertogli dalle truppe. Parole false: nei fatti Tiberio ha sentimenti ambigui nei confronti di Germanico, che ha dato prova di essere «padrone degli eserciti». Sospetta, Tiberio, anche della moglie di Germanico, Agrippina (madre della protagonista del libro di Carandini) esplicitamente ambiziosa.
Il Tiberio di Carandini fu un «uomo spregevole». Ma interessante: «dissimulava ciò che voleva e non desiderava alcunché di quello che palesava»; «negava quello che bramava e si interessava a quanto detestava»; «sfogava la collera per questioni che non destavano la sua ira e dava segni di equilibrio quando era maggiormente sdegnato». L’imperatore altresì riteneva di non dover rivelare i propri pensieri, «ché il conoscerli avrebbe procurato danni all’Impero»; si adirava se qualcuno mostrava di aver intuito una sua idea e lo mandava a morte. Manifestarsi, per lui, «era come aprire il petto davanti al nemico». E il nemico erano adesso in primo luogo la stirpe dei Giuli, gli appartenenti alla famiglia di Agrippina. «Colpa» — se così si può dire — del prestigio di Germanico che cresceva ogni giorno di più. Anche dopo la morte. Era riuscito a vendicare l’umiliante sconfitta di Varo a Teutoburgo, sconfiggendo gli uomini di Arminio. Nel 16 Germanico si era mosso ancora una volta all’attacco dei Germani e al culmine dello scontro si era tolto dal capo il casco, così da farsi riconoscere «per incitare con più efficacia i suoi a completare il massacro». Un gesto che aveva un celeberrimo precedente, lo aveva compiuto tre secoli e mezzo prima Alessandro Magno. E nel 17 la tensione tra i due raggiunse l’apice. Tiberio — consigliato all’epoca dal pretorio Seiano (che aveva irretito l’imperatore «fino a renderlo fidente soltanto in lui» talché «era come se avesse colonizzato la sua mente» e alla fine pagò con la vita l’eccesso di influenza) — voleva impedire in ogni modo che venisse attribuita a Germanico la conquista definitiva della Germania. Così finse che l’impero fosse in pericolo e lo mandò in Oriente. Per poi farlo avvelenare, o per lasciare che venisse avvelenato ad Antiochia. La vedova di Germanico, Agrippina (madre), tornò a Brindisi con le ceneri del marito, accompagnata da Caligola che aveva sette anni. Fu accolta, Agrippina, da «una folla sdegnata che riempiva le spiagge e le case»; lungo la via che l’avrebbe riportata a Roma c’erano consoli, senatori, popolo accorso anche dai paesi vicini; ma nessuna traccia di Tiberio.
A Roma, come segno di dolore per la perdita di Germanico, «la plebe tirava pietre contro i templi, rovesciava gli altari, gettava i Lari in strada ed esponeva neonati, seguendo il cordoglio di barbari, re clienti e perfino del re dei Parti che si è astenuto per qualche tempo da cacce e festini». Nulla ferì Tiberio, secondo l’autore, «più dell’entusiasmo del popolo verso Agrippina». La quale, inebriata da questi tributi di affetto, fece l’errore di iniziare a sparlare di Tiberio: l’imperatore si disfò di lei esiliandola a Ventotene (Pandataria), dove nel 33 morì di stenti.
Ma il destino era in agguato e la vendicò: il 16 marzo del 37, lo stesso Tiberio fu ucciso a Miseno nella villa che era stata di Lucullo. Uccisione descritta minuziosamente da Carandini: il principe all’improvviso cadde in letargo e un suo uomo gli sfilò l’anello perché Caligola lo potesse infilare all’istante; nello stesso istante Tiberio riprese a respirare e, toccandosi la mano, balbettò: «L’anello…». «Troppo tardi», disse Caligola e a un suo cenno il prefetto Macrone ordinò «Fuori tutti!». Poi, rivolto alle guardie, aggiunse: «Non ce la fa, aiutiamolo…». E fu «un accalcarsi, un premere di mantelli, coperte e guanciali finché Tiberio morì soffocato». Aveva vissuto poco più di 67 anni ed era stato sul trono 22 anni e mezzo.
Due giorni dopo, il 18 marzo, Caligola — che precedentemente era stato costretto ad assistere Tiberio a Capri per ben sei anni — fu acclamato imperatore in un’atmosfera di giubilo generale. I Romani vedevano in lui «un Germanico redivivo», era «il principe sognato da gran parte dei provinciali», l’astro dei soldati che lo avevano conosciuto bambino con le caligae di cui al suo soprannome (i sandali militari) e «l’idolo della plebe urbana». Caligola si presenta al Senato con un discorso critico nei confronti del suo predecessore, unanimemente apprezzato al punto da essere successivamente letto in pubblico una volta ogni anno.
Abolisce, Caligola, la lesa maestà e annuncia di aver bruciato gli atti di accusa lasciati da Tiberio «per non lasciar spazio a tardive vendette». Sette mesi dopo, a metà ottobre del 37, giunge però il primo segno del suo squilibrio mentale: si ammala gravemente, teme di morire e nomina come erede Drusilla sorella e concubina (a dispetto del fatto che fosse moglie di Emilio Lepido, anch’egli peraltro amante del principe). «Una scelta quanto mai stramba», la definisce Carandini. Dopodiché Caligola sopravvive e muore invece Drusilla. Qui l’imperatore impazzisce: decreta che il giorno natale di Drusilla sia considerato festivo, le dedica un culto speciale con venti sacerdoti, le fa erigere statue nella Curia e nel tempio di Venere. Al senatore Livio Gemino — che sostiene di averla vista salire in cielo — viene concessa una regalia di un milione di sesterzi. Da quel momento Caligola non dorme mai più di tre ore per notte, prende a conversare con la luna, è tormentato da uno spettro marino, tuoni e fulmini notturni lo terrorizzano al punto da indurlo, ad ogni temporale, a cercare riparo sotto il letto. Di giorno non tiene in alcun conto gli impegni presi all’atto dell’insediamento e supera Tiberio in «condanne e dissolutezze». Nel 38 costringe al suicidio il prefetto Macrone, che lo aveva aiutato a uccidere Tiberio, nonché la moglie di Macrone, Ennia, che era oltretutto la sua amante. Poi, dopo una lunga sequela di nuovi assassinii, nel 39 fa uccidere Marco Lepido (altro suo amante) e manda in esilio, sempre a Ventotene, sua sorella Agrippina, la protagonista del libro di Carandini.
Nel 40 Caligola raggiunge la Gallia e la Germania accompagnato da pretoriani, attori, gladiatori, donne e cavalli: «una compagnia assai poco eroica», la definisce Carandini. Ed è qui che un figlio del re dei Britanni, cacciato dal padre, cerca rifugio da Caligola con una piccola scorta e a lui si sottomette: ciò che induce Caligola a «mandare una lettera a Roma come se avesse conquistato la Britannia». Tornato a Roma, dopo questo «trionfo», prende ad esibirsi come gladiatore, cocchiere, ballerino e cantante. Annuncia di volersi trasferire ad Anzio da dove raggiungerà Alessandria. Nel 40 Caligola sventa una congiura, ma quasi non fa in tempo a gioirne perché l’anno successivo una nuova cospirazione contro di lui è coronata da successo.
Caligola aveva 29 anni, era stato imperatore per quasi quattro. Nessun principe come lui, scrive Carandini, «è stato un despota tanto estremo», ha mostrato «dove possa giungere la crudeltà e la stravaganza di chi possiede una potenza immane». La «sua mente disturbata, l’inesperienza militare, politica e pratica, la passione per la scena lo hanno trascinato in una fragorosa assurdità nella quale tragedia e farsa si sono mescolate». Con lui giunge al culmine il «gusto per l’arbitrio» delle monarche orientali. Può essere considerato «l’esatto contrario di suo padre, Germanico», avvelenato «perché onesto e clemente», le virtù «più invidiate e temute dai potenti». Probabilmente superò in efferatezza lo stesso Tiberio e convinse i Romani a fidarsi meno dei prìncipi che, saliti al potere, annunciano un’era di pace e prosperità.
Dopo di lui toccò a Claudio, fratello di Germanico, zio e, successivamente, marito di Agrippina. Claudio aveva difetti fisici congeniti: soffriva di crampi allo stomaco, camminava con passo incerto e balbettava. Aveva «tratti che lo rendevano ridicolo»: «tremava con il capo, le mani e la voce», rideva in maniera sguaiata, la bocca sbavava ad ogni arrabbiatura. Era poi incerto e pauroso. Ma questi difetti, secondo Carandini, erano bilanciati da un’intelligenza non comune, aveva studiato moltissimo alla scuola di Tito Livio ed era assai colto. Il suo primo atto fu di richiamare Agrippina dall’esilio, dichiarare che Caligola era pazzo e, contestualmente, mandare a morte i suoi uccisori.
Agrippina torna dunque a Roma con Lucio Domizio Enobarbo (il futuro Nerone) in una corte dove, però, spadroneggia Messalina, moglie di Claudio. La prima missione che Agrippina si dà è quella di far fuori Messalina. Per poi andare in sposa a Claudio, far richiamare il filosofo Seneca dall’esilio in Corsica per affidargli il proprio ragazzo, e porre il giovane sulla via che conduce al trono (sminuendo il possibile rivale Britannico). Claudio si accorge delle complicate trame di Agrippina, ma non fa in tempo a pentirsi di aver adottato Nerone che muore avvelenato. Qui vengono le pagine più avvincenti del libro di Carandini. Agrippina non cessa di tramare (stavolta a favore di Britannico), mentre Seneca fa di tutto per impadronirsi dell’anima di Nerone. Questi si inebria del rapporto con la folla (oltre che della schiava asiatica Atte) e, su istigazione di Seneca, si spingerà a far uccidere la madre. Dopodiché nel 65 indurrà al suicidio lo stesso filosofo (il quale, annota Carandini, aveva «una condotta contraria al disprezzo della ricchezza che nei suoi scritti invece consigliava»). Tre anni dopo, nel 68, sarà Nerone, all’età di trent’anni, ad esser costretto a suicidarsi. Solo ripercorrendo la storia di sua madre si può capire come si giunge a quella fine. Anzi, della fine di tutti gli eredi della gens Giulio-Claudia. Un libro davvero affascinante su una delle stagioni più spietate della storia dell’umanità.