martedì 8 maggio 2018

internazionale 6.5.18
La fine degli stati Il sistema basato sullo stato nazione è in crisi. E il ritorno del nazionalismo in tutto il mondo è l’ultimo sintomo del suo inarrestabile declino. L’analisi dello scrittore angloindiano Rana Dasgupta
Rana Dasgupta, The Guardian, Regno Unito.


Cosa sta succedendo alla politica degli stati nazione? Negli Stati Uniti la realtà supera ormai la fantasia degli scrittori e il Regno Unito non mostra ancora segni di ripresa dopo l’“esaurimento nervoso nazionale” causato dalla Brexit, come ha scritto Philip Stephens sul Financial Times. Alle elezioni del 2017 la Francia “ha evitato l’infarto per un soffio”, ha commentato Le Monde, ma il risultato del voto non è servito a scongiurare una “decomposizione accelerata del sistema politico”. In Spagna, secondo El País, “lo stato di diritto, il sistema democratico e perfino l’economia di mercato sono in discussione”, mentre in Italia “il crollo dell’establishment” alle elezioni di marzo è stato paragonato dall’edizione locale dell’Huington Post alla “calata dei barbari”.
In Germania, intanto, i neofascisti si preparano a fare opposizione in parlamento, portando un elemento di preoccupazione e imprevedibilità nel bastione della stabilità europea. Ma le convulsioni della politica nazionale non riguardano solo l’occidente. La stanchezza, la sfiducia e la crescente inadeguatezza dei vecchi schemi sono i temi centrali del dibattito politico in tutto il mondo. E le soluzioni muscolari e autoritarie sono sempre più popolari: la guerra usata per distrarre l’opinione pubblica (Russia, Turchia); la “purificazione” etnico-religiosa (India, Ungheria, Birmania); l’ampliamento dei poteri presidenziali e il corrispondente disconoscimento dei diritti civili e dello stato di diritto (Cina, Ruanda, Venezuela, Thailandia, Filippine e molti altri). Che rapporto c’è tra tutti questi sconvolgimenti? Di solito tendiamo a considerarli separati perché le nazioni hanno una visione egocentrica della politica. Ogni paese tende a dare la colpa alla “sua” storia, ai “suoi” populisti, ai “suoi” mezzi d’informazione, alle “sue” istituzioni, alla “sua” cattiva politica. È comprensibile, perché gli organi che formano la coscienza politica moderna – l’istruzione pubblica e i mezzi d’informazione di massa – si sono affermati nell’ottocento sulla base dell’ideologia allora dominante, secondo cui ogni paese ha un destino nazionale unico e diverso. Oggi quando discutiamo di politica ci riferiamo a quello che succede all’interno degli stati sovrani; tutto il resto sono “affari esteri” o “relazioni internazionali”, anche in quest’epoca di profonda integrazione finanziaria e tecnologica. In tutti i paesi del mondo compriamo gli stessi prodotti e usiamo Google e Facebook, ma curiosamente la politica è ancora fatta di cose diverse in ogni paese e conserva l’antica fede nei confini nazionali.
Certo, oggi c’è la consapevolezza che il populismo stia emergendo in forme simili in luoghi diversi. Molti hanno notato le somiglianze tra le idee e lo stile di leader come Donald Trump, Vladimir Putin, Narendra Modi, Viktor Orbán e Recep Tayyip Erdoğan. È come se nell’aria ci fosse qualcosa, una strana coincidenza di atteggiamenti e sentimenti. Ma non è tutto. E in realtà non si tratta neanche di una coincidenza. Oggi, infatti, tutti i paesi fanno parte dello stesso sistema e sono sottoposti alle stesse pressioni. Sono proprio queste pressioni che stanno soffocando e piegando la politica nazionale in tutto il mondo. E nonostante la disperata ostentazione delle bandiere nazionali, l’effetto di queste pressioni è l’esatto contrario della presunta “rinascita della stato nazione”. Al contrario, la novità più importante della nostra epoca è proprio l’erosione dello stato: la sua incapacità di resistere alle spinte del ventunesimo secolo e la sua catastrofica perdita d’influenza sulla condizione umana. L’autorità politica nazionale è in declino, e siccome non ne conosciamo al
tre, ci sembra la fine del mondo. Ecco perché oggi è in voga una strana forma di nazionalismo apocalittico. Tuttavia il machismo come stile politico, la costruzione di muri, la xenofobia, il mito e la teoria della razza e le mirabolanti promesse di restaurazione nazionale non sono i rimedi alla crisi, ma i sintomi di una realtà che si sta lentamente rivelando: in tutto il mondo gli stati nazione attraversano una fase avanzata di decadenza politica e morale da cui non possono uscire da soli. Ma perché sta succedendo tutto questo? Per farla breve, le strutture politiche del novecento affogano in un oceano fatto di deregolamentazione finanziaria, tecnologia sempre più autonoma, militanza religiosa e rivalità tra grandi potenze. Nello stesso tempo nel mondo ex coloniale stanno maturando le conseguenze a lungo represse dell’avventatezza novecentesca: le nazioni si spaccano, spingendo le popolazioni ad abbracciare schemi di solidarietà post-nazionali. Nascono così le milizie tribali itineranti, i sotto-stati e i super-stati etnici e religiosi. Infine la demolizione, da parte delle superpotenze, della vecchia idea di comunità internazionale (quella legata alla Società delle nazioni, fondamentale per la costruzione del nuovo ordine mondiale dopo il 1918) ha trasformato il sistema degli stati nazione in un far west senza regole, che sta provocando la reazione nichilista dei paesi storicamente più deboli e sfruttati. Qual è il risultato? Per un numero crescente di persone, le nazioni e il sistema di cui fanno parte sono incapaci di garantire un futuro plausibile e sostenibile. Tanto più che le élite finanziarie – e la loro ricchezza – si sottraggono sempre di più agli obblighi di fedeltà nazionale. La perdita di autorità della politica nazionale deriva in gran parte proprio dalla sua incapacità di controllare i lussi di denaro. È evidente che il denaro sta uscendo dallo spazio nazionale per confluire in un’area “offshore” sempre più ampia. La fuga di queste risorse indebolisce le comunità nazionali dal punto di vista sia materiale sia simbolico. Ed è causa, ma anche effetto, della loro decadenza. Gli stati nazione hanno perso la loro autorità mora le, ed è anche per questo che l’evasione fiscale è diventata una caratteristica ormai accettata del sistema degli scambi commerciali del ventunesimo secolo. Un fenomeno ancora più drammatico riguarda milioni di persone che non hanno più una nazione di appartenenza e sono precipitate in una specie di inferno. A sette anni dalla caduta della dittatura di Gheddafi, la Libia è controllata da due governi rivali, ognuno con il suo parlamento, e da milizie in lotta per il controllo del petrolio. Ma la Libia è solo uno dei tanti paesi che esistono esclusivamente sulla carta geografica. Solo il 5 per cento dei conflitti combattuti nel mondo dal 1989 ha coinvolto gli stati: i 9 milioni di morti nelle guerre degli ultimi trent’anni sono stati causati in massima parte da conflitti interni, non da invasioni. E, come è successo nella Repubblica Democratica del Congo e in Siria, il vuoto di potere che a un certo punto si crea finisce per attirare nel conflitto paesi di tutto il mondo, distruggendo vite umane e seminando ovunque profughi traumatizzati. Niente descrive la crisi del sistema degli stati nazione meglio dei 65 milioni di profughi che ci sono oggi nel mondo, una “nuova normalità” che va ben oltre i livelli della “vecchia emergenza” del 1945, quando i profughi erano in totale 40 milioni. Il fatto di non essere disposti neanche a riconoscere questa crisi è fotografato perfettamente dal disprezzo per i profughi che oggi condiziona profondamente la politica nei paesi ricchi. Oltre l’utopia La crisi non era inevitabile. Dal 1945 in poi abbiamo ridotto la politica mondiale a una pericolosa parodia del sistema messo in piedi dal presidente statunitense Woodrow Wilson e dai leader di altre nazioni dopo il cataclisma della prima guerra mondiale. E oggi ne paghiamo le conseguenze. Ma non bisogna avere troppi rimpianti. Questo sistema, infatti, ha fatto molto meno di quanto immaginiamo per la sicurezza e la dignità umana – sotto molti aspetti è stato un fallimento colossale – e c’è un motivo se sta invecchiando più in fretta degli imperi di cui ha preso il posto. Anche se volessimo ricostruire quello che c’era prima, ormai sarebbe troppo tardi. Se lo stato nazione è riuscito a raggiungere dei risultati – in alcuni casi davvero notevoli – è perché per buona parte del novecento c’è stato un perfetto “incastro” tra politica, economia e informazione, tutte organizzate su scala nazionale. I governi avevano realmente il potere di controllare le energie economiche e ideologiche e di indirizzarle verso ini lodevoli, a volte addirittura utopistici. Quell’epoca è finita. Dopo decenni di globalizzazione, l’economia e l’informazione ormai non dipendono più dall’autorità dei governi. Oggi la distribuzione della ricchezza e delle risorse a livello planetario è quasi totalmente svincolata da ogni meccanismo politico. Ma riconoscere questa realtà vuol dire riconoscere la fine della politica stessa. E se continuiamo a pensare che il sistema di governo che abbiamo ereditato dai nostri padri non permette nessuna innovazione, allora ci condanniamo a un lungo periodo di paralisi politica e morale. Ci sono voluti cinquant’anni per costruire il sistema globale da cui oggi tutti dipendiamo, e non possiamo tornare indietro. Senza una grande innovazione politica, la tecnologia e il capitale globale ci governeranno senza alcun tipo di controllo democratico, con la stessa naturalezza e ineluttabilità con cui s’innalza il livello degli oceani. Se vogliamo riscoprire il senso della politica in quest’epoca di finanza globale, raccolta di dati senza freni, migrazioni di massa e sconvolgimenti climatici, dobbiamo immaginare forme politiche capaci di operare su questa stessa scala. Non c’è dubbio che il sistema politico attuale dev’essere integrato da una regolamentazione della finanza globale, e probabilmente anche da nuovi meccanismi politici transnazionali. È così che completeremo la globalizzazione, oggi pericolosamente incompiuta. Il sistema economico e tecnologico della globalizzazione è certamente spettacolare, ma per operare al servizio della comunità umana dev’essere subordinato a un’infrastruttura politica altrettanto formidabile, che non abbiamo ancora nemmeno cominciato a concepire. Inevitabilmente si obietterà che qualsiasi alternativa al sistema degli stati nazione è un’utopia irrealizzabile. Ma anche le conquiste tecnologiche degli ultimi decenni sembravano improbabili prima che arrivassero, e ci sono buoni motivi per sospettare di chi, dall’alto della sua posizione di potere, vorrebbe convincerci che l’essere umano è incapace di raggiungere traguardi simili nella sfera politica. In diverse fasi della storia la politica ha assunto una rilevanza ino a quel momento impensabile, a partire dalla creazione dello stato nazione. Come diventa ogni giorno più chiaro, la vera illusione è che le cose possano continuare ad andare avanti in questo modo. Il primo passo da fare è smettere di pensare che non c’è alternativa. Cominciamo quindi prendendo in esame la portata della crisi attuale. Promesse tradite Partiamo dall’occidente. L’Europa, naturalmente, ha inventato lo stato nazione: il principio della sovranità territoriale fu sancito dalla pace di Vestfalia, che nel 1648 mise ine alla guerra dei trent’anni. Dato che il trattato impediva di fatto conquiste su larga scala nel continente, le nazioni europee puntarono al resto del mondo. In patria, i dividendi del saccheggio coloniale si tradussero nella creazione di stati forti con solide burocrazie e sistemi politici democratici: in sintesi il modello della vita europea moderna. Alla ine dell’ottocento le nazioni europee avevano ormai acquisito tratti comuni ancora oggi riconoscibili, tra cui una serie di monopoli di stato gelosamente custoditi (per esempio sulla difesa, le tasse e la legge) che mettevano sostanzialmente il destino nazionale nelle mani dei governi. In cambio alla collettività veniva fatta una promessa: lo sviluppo spirituale e materiale dei cittadini e della nazione. Questa promessa si concretizzava in grandi progetti pubblici nel campo dell’istruzione, della sanità, dello stato sociale e della cultura. Il tradimento di questa promessa morale a cui abbiamo assistito negli ultimi quarant’anni è un evento sconvolgente, di portata quasi metafisica, e ha spinto i popoli occidentali a guardarsi intorno in cerca di nuovi valori in cui credere. Quella promessa, infatti, aveva rappresentato un momento fondamentale nell’evoluzione della psicologia occidentale. Era parte di una profonda riorganizzazione teologica: la rivoluzione francese aveva detronizzato non solo il sovrano, ma dio stesso, i cui attributi superlativi – onniscienza e onnipotenza – erano stati assorbiti nell’istituzione dello stato. Il potere dello stato di sviluppare, liberare e redimere l’umanità diventò la fede laica su cui lo stato stesso si fondava. Con la decolonizzazione del secondo dopoguerra la struttura dello stato nazione europeo è stata esportata in tutto il mondo. Per gli occidentali, tuttavia, quella promessa morale ha conservato un valore particolare e specifico, soprattutto dopo la creazione dello stato sociale e dopo decenni di crescita senza precedenti. La nostalgia per l’età dell’oro dello stato nazione distorce ancora oggi il dibattito politico occidentale, ma quell’epoca è stata il frutto di un’improbabile coincidenza di condizioni che non si ripeterà più. Era un’anomalia perfino la struttura stessa dello stato postbellico, caratterizzata da una capacità di controllo sull’economia interna storicamente eccezionale. I capitali non erano liberi di fluire incontrollati oltre i confini e le speculazioni valutarie erano trascurabili rispetto a oggi. I governi, in altre parole, avevano un controllo sostanziale sui lussi monetari, e se parlavano di cambiare le cose era perché erano effettivamente in grado di farlo. Il fatto che il capitale fosse vincolato significava che i governi erano liberi di imporre aliquote fiscali molto alte, grazie alle quali, in un’epoca di crescita economica senza precedenti, potevano dedicare grandi energie e risorse allo sviluppo del paese. Per alcuni decenni il potere dello stato è stato monumentale – quasi divino – e ha creato le società capitalistiche più sicure e più eque mai conosciute. La distruzione dell’autorità dello stato a vantaggio del capitale ha rappresentato l’obiettivo esplicito della rivoluzione finanziaria che definisce la nostra epoca. Di conseguenza, gli stati si sono visti costretti a tagliare le garanzie sociali per reinventarsi come custodi del mercato. Questo fenomeno ha drasticamente ridimensionato l’autorità politica nazionale, a livello sia reale sia simbolico. Nel 2013 Barack Obama ha definito la lotta alle disuguaglianze “la sida centrale del nostro tempo”, ma dal 1980 in poi le disuguaglianze negli Stati Uniti sono cresciute senza sosta, nonostante le preoccupazioni di Obama o di qualsiasi altro presidente. Il quadro è lo stesso in tutto l’occidente: i redditi dei più ricchi continuano ad aumentare, mentre l’austerità imposta dopo la crisi ha azzoppato il welfare state socialdemocratico. Oggi l’ira dell’opinione pubblica si abbatte sui governi che si rifiutano di rispettare la loro antica promessa morale, ma la verità è che lo stato ormai non ha molta scelta. I governi occidentali non hanno più il controllo della vita economica del paese, e se continuano a promettere grandi cambiamenti lo fanno solo per accontentare l’opinione pubblica o per dare l’illusione di avere ancora la situazione sotto controllo. È molto probabile che la prossima fase della rivoluzione tecno-finanziaria sarà ancora più disastrosa per l’autorità politica nazionale. Assisteremo alla continuazione su scala nazionale dei processi tecnologici già in atto, che promettono nuovi tipi di governo basati su algoritmi, con una ulteriore delegittimazione della politica. Le aziende che sfruttano la raccolta di grandi quantità di dati (Google, Facebook, eccetera) hanno già assunto molte funzioni un tempo affidate allo stato, dalla cartografia alla sorveglianza. E sono diventate le principali custodi della realtà sociale: l’adesione a questi sistemi è una nuova forma privata e deterritorializzata di cittadinanza, in tutto e per tutto alternativa a quella nazionale. E come dimostra la crescita delle valute digitali, presto emergeranno nuove tecnologie capaci di sostituire anche le altre funzioni fondamentali dello stato nazione. L’utopia libertaria in cui delle burocrazie antiquate soccombono a sistemi privati puri che prendono in mano la gestione della vita e delle risorse è uno scenario futuro più probabile di qualsiasi fantasia su un ritorno alla socialdemocrazia. L’autorità sotto attacco Governi controllati da forze esterne e in grado di esercitare un’inluenza solo parziale sulle questioni nazionali: nei paesi più poveri del mondo è sempre stato così. Ma in occidente questa nuova situazione è vissuta come un ritorno terriicante a un’antica vulnerabilità. L’attacco all’autorità politica non è solo un fenomeno “economico” o “tecnologico”. È uno sconvolgimento epocale che destabilizza e spoglia i popoli occidentali. Il risultato è che ci sono esplosioni di rabbia irrazionale, soprattutto contro gli immigrati, i capri espiatori designati. Così crolla l’idea della nazione occidentale come casa universale e crescono le identità tribali transazionali, considerate un nuovo rifugio: tanto il suprematismo bianco quanto il radicalismo islamico prendono le armi contro la contaminazione e la corruzione. La posta in gioco non potrebbe essere più alta. È facile dunque capire perché i governi occidentali tentino disperatamente di dimostrare quello che tutti ormai mettono in dubbio, cioè di avere ancora il controllo della situazione. Se Donald Trump si comporta come un amministratore delegato sociopatico non è solo per il suo carattere. Nell’era della globalizzazione i presidenti statunitensi hanno provato ripetutamente ad ampliare il potere del governo, ma quel potere non basterà mai. L’amministrazione Trump non avrà mai il controllo sulla vita degli americani che aveva l’amministrazione Kennedy, per questo è costretta a simularlo. Trump non può “far tornare grande l’America”, ma ha Twitter, con cui può costruire un culto della personalità da pistolero solitario dando la colpa dell’impotenza dello stato alle donne, a quelli di sinistra e ai neri. Non può sanare le divisioni sociali degli Stati Uniti, ma controlla ancora l’apparato di sicurezza, che sfrutta a suo vantaggio per atteggiarsi a “duro”, dichiarando guerra alla criminalità, espellendo gli stranieri e raforzando i conini. Trump non può dare soldi ai poveri che lo hanno votato, ma può contare su una moneta mitologica: anche gli elettori più poveri, infatti, possiedono una risorsa importante – la cittadinanza statunitense – che Trump può “vendere” come in passato ha venduto i suoi casinò e i suoi alberghi. Come Putin e Orbán, Trump ammanta la cittadinanza di un nuovo potere marziale, e si vanta di negarla a quelli che la desiderano. Ovviamente, più una cosa scarseggia, più è preziosa. Così anche i cittadini che non hanno nulla si convincono di avere molto. È una strategia sgradevole, ma non possiamo semplicemente dare la colpa a pochi cattivi interpreti. La situazione è questa: l’autorità politica è agli sgoccioli e i leader non sono in grado di produrre cambiamenti materiali signiicativi. Per questo devono alimentare e mettere in campo sentimenti forti: l’odio verso stranieri e nemici interni, oppure l’entusiasmo per imprese militari insignificanti (per esempio l’annessione della Crimea da parte di Vladimir Putin). Alcuni pensano che queste strategie crolleranno sotto il peso della loro inconsistenza e che magicamente la moderazione tornerà di moda. Ma come ha dimostrato la Russia di Putin, lo sciovinismo è più eicace di quanto non vogliamo ammettere. Anche perché i cittadini vogliono disperatamente che l’inganno funzioni: sotto sotto hanno paura di quello che può succedere se si scopre che il potere dello stato è una bufala. Nei paesi più poveri del mondo il quadro è diverso. Molte nazioni sono nate nel ventesimo secolo dalle ceneri degli imperi euroasiatici. Oggi è diventato normale disprezzare gli imperi, ma per gran parte della storia sono stati il normale sistema di governo. L’impero ottomano, durato dal 1300 al 1922, garantì livelli di pace e di sviluppo culturale che sembrano incredibili quando si pensa al Medio Oriente di oggi. La Siria moderna non sembra poter durare più di un secolo senza disgregarsi, e non è stata quasi mai in grado di assicurare sicurezza o stabilità ai suoi cittadini. Gli imperi non erano democratici, ma erano costruiti per includere chiunque iniva sotto il loro dominio. Le nazioni, invece, si basano sulla distinzione fondamentale tra chi ne fa parte e chi no, e dunque portano in sé la tentazione della purezza etnica. Tutto questo le rende più instabili degli imperi, perché queste caratteristiche possono sempre essere cavalcate da qualche demagogo nativista. Nonostante questo, nel secolo scorso a un certo punto si è stabilito che gli imperi appartenevano al passato e che il futuro era degli stati nazione. Questo cambiamento rivoluzionario ha fatto poco o nulla per colmare il divario economico tra colonizzati e colonizzatori. Anzi, ha costretto molte popolazioni post-coloniali a ingoiare un amarissimo cocktail a base di autoritarismo, pulizia etnica, guerra, corruzione e devastazioni ambientali. Se oggi solo poche ex colonie sono diventate nazioni paciiche, ricche e democratiche, la colpa non è dei “cattivi leader” che hanno rovinato paesi perfettamente funzionanti, come vorrebbe far credere l’occidente. Durante la decolonizzazione le nazioni sono state assemblate nel giro di pochi mesi. E spesso le loro popolazioni si sono fatte risucchiare in conlitti violenti per il controllo del nuovo apparato dello stato, del potere e della ricchezza che ne derivavano. Molti di questi nuovi stati erano tenuti insieme da un uomo forte che aveva aidato il sistema alla sua tribù o al suo clan e manteneva il potere alimentando rivalità settarie o sfruttando le diferenze etnicoreligiose come strumenti di terrore politico. La lista non è breve. Pensiamo a igure come Ne Win (Birmania), Hissène Habré (Ciad), Hosni Mubarak (Egitto), Mengistu Haile Mariam (Etiopia), Ahmed Sékou Touré (Guinea), Muhammad Suharto (Indonesia), lo scià dell’Iran, Saddam Hussein (Iraq), Muammar Gheddai (Libia), Moussa Traoré (Mali), il generale Zia-ul-Haq (Pakistan), Ferdinand Marcos (Filippine), i re dell’Arabia Saudita, Siaka Stevens (Sierra Leone), Mohamed Siad Barre (Somalia), Jaafar Nimeiri (Sudan), Hafez al Assad (Siria), Idi Amin (Uganda), Mobutu Sese Seko (Zaire) o Robert Mugabe (Zimbabwe). Questi paesi sono stati sostanzialmente con dannati a restare “quasi-stati”, secondo la deinizione del politologo Robert H. Jackson. Formalmente equivalenti alle vecchie nazioni con cui condividevano il palcoscenico internazionale, in realtà erano entità molto diverse, incapaci di garantire beneici paragonabili ai loro cittadini. Ma i dittatori non sarebbero mai riusciti a tenere insieme realtà così contraddittorie senza un aiuto dall’esterno. Lo spirito postimperiale, naturalmente, gli era congeniale: il rifiuto del dominio straniero da parte dell’Onu aveva come corollario l’imperativo universale a rispettare la sovranità nazionale, a prescindere dagli orrori commessi all’interno dei singoli paesi. La guerra fredda, inoltre, moltiplicava le risorse a disposizione dei regimi più brutali per difendersi da rivoluzioni e secessioni. Le due superpotenze hanno inanziato l’escalation dei conlitti post-coloniali ino a livelli di mortalità stupefacenti: le proxy wars, le guerre per procura scoppiate in quel periodo in paesi come Afghanistan, Corea, El Salvador, Angola e Sudan, hanno causato quasi 15 milioni di vittime. Per le superpotenze l’obiettivo di questa violenza era la costruzione di una rete stabile di alleati, o meglio clienti, in grado di sconiggere gli avversari interni. Contenere i conlitti In realtà non c’era nulla di stabile nella stabilità della guerra fredda: semplicemente le sue devastazioni erano coninate all’interno di stati-cuscinetto. Ma dopo il crollo del sistema delle superpotenze, con l’implosione dell’autorità dello stato, in molti paesi economicamente e politicamente impoveriti contenere i conlitti è diventato impossibile. La distruzione delle culture nazionali ha dato origine a preoccupanti forze post-nazionali, come il gruppo Stato islamico (Is), capaci di attraversare i conini nazionali e di difondere il caos in ogni angolo del pianeta. Negli ultimi vent’anni i postumi tossici della guerra fredda in Africa e in Medio Oriente sono stati sfruttati da queste forze, che prosperano grazie alla progressiva disgregazione di paesi come Yemen, Sud Sudan, Siria e Somalia e di altre nazioni che inevitabilmente seguiranno la stessa strada. I militanti delle nuove forze si sono liberati dall’incantesimo dei vecchi slogan sulla costruzione della nazione. Si basano su un’interpretazione carismatica della religione, e il futuro a cui aspirano guarda agli antichi imperi che esistevano prima dell’invenzione degli stati nazione. I gruppi religiosi militanti dell’Africa e del Medio Oriente sono sempre meno interessati alla conquista dell’apparato dello stato; preferiscono ricavarsi degli spazi nell’autorità statale, costruendo reti transnazionali per gestire la riscossione delle imposte, gli scambi commerciali e gli approvvigionamenti militari. Una di queste reti si estende, in direzione est-ovest, dalla Mauritania allo Yemen, e, secondo la traiettoria sud-nord, dal Kenya e dalla Somalia verso l’Algeria e la Siria. Questa nuova struttura erode dall’interno la vecchia architettura politica, rendendo gli stati nazione sostanzialmente impotenti (per esempio il Mali e la Repubblica Centrafricana) e creando ulteriori opportunità di consolidamento ed espansione. Nel frattempo, gruppi etnici come i curdi e i tuareg – che dopo la decolonizzazione sono rimasti senza una patria, abbandonati e perseguitati per anni – hanno sfruttato le crepe dell’autorità dello stato per mettere insieme i primi abbozzi di territori transnazionali. È nelle regioni più pericolose del mondo che si sperimentano le nuove possibilità della politica. L’impegno dell’occidente verso gli stati-nazione è stato opportunistico e parziale. Per decenni l’occidente si è disinteressato alle soferenze di vaste aree del pianeta, oppresse da spaventose parodie degli stati tradizionali, e oggi non può lamentarsi se quei popoli non mostrano nessun attaccamento all’idea dello stato nazione. Anche perché sono proprio quei popoli a dover sopportare le conseguenze più traumatiche del cambiamento climatico, un fenomeno di fronte al quale sono i meno responsabili ma i più vulnerabili. Il calcolo strategico dei nuovi gruppi militanti in queste regioni è per certi versi corretto: la transizione dall’impero agli stati nazione indipendenti è stata un fallimento continuo e totale, e dopo tre generazioni bisogna trovare una via d’uscita. Ma questa via d’uscita non può essere rappresentata da gruppi come Al Shabaab, i janjaweed, Seleka, Boko haram, Ansar dine, lo Stato islamico e Al Qaeda. La situazione richiede nuove idee per l’organizzazione politica e la ridistribuzione economica globale. Non esiste più nessuna superpotenza abbastanza forte da poter contenere gli efetti dell’esplosione dei “quasi-stati”. Irrigidire i conini non basterà sicuramente a tenere a bada il fenomeno. L’unica via d’uscita Pensiamo alla natura stessa dello stato nazione. L’ordine internazionale come lo conosciamo non è così vecchio. Lo stato nazione è diventato il modello universale dell’organizzazione politica umana solo dopo la prima guerra mondiale, quando un nuovo principio – “l’autodeterminazione dei popoli”, come la deinì il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson – ebbe la meglio sugli altri progetti allora in discussione. Oggi, dopo un secolo di luttuose relazioni internazionali, l’unico aspetto di questo principio che ancora ricordiamo è quello a noi più familiare: l’indipendenza nazionale. Ma il piano originario di Wilson, elaborato da un gruppo di persone di cui facevano parte idealisti di ogni provenienza, da Andrew Carnegie a Leonard Woolf (marito di Virginia), aveva un obiettivo più ambizioso: la nascita di una democrazia allargata che superasse i conini degli stati, in grado di assicurare la cooperazione internazionale, la pace e la giustizia. Del resto, come potevano i popoli vivere al sicuro nelle loro nuove nazioni se queste non erano soggette a nessuna legge? Il nuovo ordine delle nazioni aveva senso solo in presenza di una “società delle nazioni”: un’organizzazione globale e formale dotata di istituzioni proprie, con il potere di sanzionare gli atti di violenza che i singoli stati non erano in grado di gestire da soli, cioè quelli commessi dagli stati stessi contro altri stati o contro i propri cittadini. La guerra fredda ha definitivamente seppellito questa “società internazionale”, e da decenni conviviamo con una versione fortemente ridimensionata del progetto originario. In questo arco di tempo le due superpotenze hanno volutamente eliminato ogni restrizione agli interventi internazionali, alimentando un livello di anarchia degno della “spartizione dell’Africa” che andò in scena tra la ine dell’ottocento e la prima guerra mondiale. Il loro potere, liberato da ogni restrizione, ha prodotto esattamente quello che ci si poteva aspettare: il banditismo. La fine della guerra fredda non ha cambiato di una virgola l’atteggiamento statunitense: oggi il potere di Washington dipende dall’illegalità che vige nella comunità internazionale e dalla guerra perpetua contro i deboli che è una sua diretta conseguenza. Come un governo illegittimo non può durare a lungo senza che nasca un’opposizione, così l’ordine internazionale illegittimo con cui abbiamo convissuto per tanti anni sta rapidamente esaurendo il consenso di cui godeva un tempo. In molte parti del mondo nessuno s’illude più che questo sistema possa ofrire un futuro sostenibile. Non resta che uscirne. Alcuni puntano tutto su un passaporto occidentale: visto che in occidente il valore della vita è ancora tutelato dal sistema, è l’unica garanzia di una protezione costituzionale signiicativa. Ma avere un passaporto occidentale non è facile. Resta un’altra via d’uscita: imbracciare le armi contro il sistema degli stati. Il gruppo Stato islamico ha esercitato una forte attrazione perché ha promesso di cancellare dal Medio Oriente la catastrofe del secolo postimperiale. Si ricorderà che i proclami più trionfalistici dell’Is sono arrivati dopo la conquista del conine tra Iraq e Siria, presentata come una rivincita sui trattati del 1916 con cui il Regno Unito e la Francia si spartirono l’Impero ottomano, inaugurando un secolo di bombardamenti sulla Mesopotamia. Tutto questo nasce dal riiuto, perfettamente giustiicabile, di un sistema che per oltre cent’anni ha bollato gli arabi come “selvaggi” a cui non andava riconosciuta alcuna dignità o protezione. L’era dell’autodeterminazione dei popoli si è rivelata un’era di illegalità internazionale che ha minato la legittimità del sistema degli stati nazione. E mentre i gruppi rivoluzionari tentano di distruggere il sistema “dal basso”, le potenze regionali lo stanno distruggendo “dall’alto”, violando i conini nazionali nelle loro aree di inluenza. L’intervento russo in Ucraina dimostra che oggi c’è una sostanziale impunità per i capricci neoimperiali, e la possibilità che la Cina occupi Taiwan – il ventiduesimo paese più ricco del mondo – è ancora un rischio concreto. Ma la vera portata della nostra insicurezza si rivelerà nel momento in cui il potere degli Stati Uniti, già relativo, si ridurrà ulteriormente, rendendo Washington impotente di fronte al caos che ha contribuito a creare. Democrazie e denaro I tre elementi della crisi dello stato nazione qui descritti potranno solo peggiorare. Primo, la crisi esistenziale dei paesi ricchi causata dall’attacco delle forze globali al potere nazionale. Secondo, l’instabilità delle regioni e dei paesi più poveri, dopo che hanno mostrato la loro vera fragilità con la ine dei regimi legati alla guerra fredda. E terzo, l’illegittimità di un ordine internazionale che non ha mai aspirato a diventare una “società delle nazioni” governata secondo lo stato di diritto. Questi tre elementi sono il frutto di forze che le politiche nazionali non possono controllare, e per questo motivo sono sostanzialmente immuni a qualsiasi riforma interna agli stati (anche se nei prossimi anni assisteremo a molti tentativi in questo senso). Quindi, se non vogliamo vedere il sistema globale scivolare verso forme di crisi ancora più estreme, abbiamo l’obbligo di ricostruirne le traballanti fondamenta politiche. Non è un’impresa da poco: ci vorrà quasi un secolo. E ancora non sappiamo dove approderemo. Tutto quello che possiamo fare è ipotizzare una serie di direzioni. Sembreranno inconcepibili, perché inora abbiamo conosciuto esclusivamente il sistema attuale. Ma è così che cominciano i cambiamenti radicali. La prima direzione è chiara, ed è quella della regolamentazione della inanza globale. Oggi i grandi motori della crescita sono organizzati in modo da eludere i sistemi iscali nazionali (il 94 per cento delle riserve di liquidità della Apple si trova ofshore: 250 miliardi di dollari, più delle riserve in valuta estera del governo britannico e della Banca d’Inghilterra messe insieme). Questo sta indebolendo gli stati nazione, sia concretamente sia simbolicamente. Non c’è motivo di dare ascolto a chi, in modo interessato, giura che la regolamentazione della inanza globale è un’impresa impossibile: dal punto di vista tecnologico è molto più banale degli strabilianti meccanismi messi in piedi per consentire l’elusione iscale. Ripensare la cittadinanza La storia dello stato nazione è fatta di costanti innovazioni iscali, e la prossima innovazione sarà transnazionale: dobbiamo creare un sistema capace di tracciare i lussi internazionali di denaro e di trasferirne una parte al settore pubblico. Se non ci riusciremo, la nostra infrastruttura politica continuerà a inluire sempre meno sulla vita materiale delle persone. Allo stesso tempo dobbiamo pensare più seriamente a una ridistribuzione globale della ricchezza: non attraverso gli aiuti, che sono misure straordinarie, ma con il trasferimento sistematico di risorse dai ricchi ai poveri per migliorare la sicurezza di tutti, come succede nelle società nazionali. Il secondo punto è che serve una democrazia globale flessibile. Con il rafforzamento dei nuovi poteri locali e transnazionali, il rigido monopolio dello stato nazione sulla vita politica sta diventando sempre più insostenibile. Le nazioni devono essere inserite in un’architettura di strutture democratiche stabili – alcune più piccole, altre più ampie – capace di far sì che le turbolenze a livello nazionale non portino al collasso del sistema. L’Unione europea è il principale esperimento in questo senso, ed è signiicativo che il continente che ha inventato lo stato nazione sia anche il primo che sta provando a superarlo. L’Unione ha fallito in molte delle sue funzioni, principalmente perché non ha creato uno spirito veramente democratico. Ma il libero movimento di persone e beni ha enormemente democratizzato le opportunità economiche all’interno del continente. E se l’Unione diventasse una “Europa delle regioni” – capace di comprendere la Catalogna e la Scozia, non solo la Spagna e il Regno Unito – potrebbe contribuire a stabilizzare le tensioni politiche nazionali. Oggi servono altri esperimenti politici di questo tipo, a livello continentale e globale. Gli stessi governi nazionali devono essere soggetti a un maggiore controllo: finora, infatti, si sono dimostrati le forze più pericolose nell’era dello stato nazione, dichiarando guerra ad altri paesi e opprimendo, uccidendo o comunque sottraendosi agli obblighi verso i loro popoli. Le minoranze nazionali oppresse devono avere una struttura legale sovranazionale a cui potersi rivolgere: questo è sempre stato uno degli obiettivi di Wilson, e il suo mancato raggiungimento è stato una sciagura per l’umanità. Terzo e ultimo punto: dobbiamo studiare una nuova concezione della cittadinanza. Oggi la cittadinanza è la prima forma d’ingiustizia nel mondo: funziona come un modello estremo di proprietà ereditaria e – come succede in altri sistemi in cui il privilegio ereditario è determinante – non fa scattare nessun meccanismo di fedeltà e identiicazione in chi non la può ereditare. Molti paesi hanno cercato, attraverso il welfare e l’istruzione pubblica, di neutralizzare le conseguenze dei vantaggi accidentali che derivano dalla nascita. Eppure questi “vantaggi accidentali” rimangono una forza dominante a livello globale: nel 97 per cento dei casi la cittadinanza è ereditaria, il che signiica che le variabili fondamentali della vita su questo pianeta sono già decise alla nascita. Chi nasce inlandese ha tutele giuridiche e aspettative economiche talmente diverse rispetto a un somalo o a un siriano che diventa diicile perino comprendersi a vicenda. Anche le opportunità di movimento di un finlandese sono completamente diverse. Ma in un sistema mondiale – più che in un sistema di nazioni – non può esserci giustiicazione per una diferenza così radicale. La liberalizzazione del movimento delle persone è un corollario essenziale della liberalizzazione dei capitali: non è giusto tutelare la libertà di spostare i capitali da un paese all’altro e contemporaneamente impedire alle persone di fare altrettanto. I sistemi tecnologici contemporanei mettono a disposizione modelli per ripensare la cittadinanza separandola dal territorio e distribuendo in modo più equo i suoi vantaggi. I diritti e le opportunità che spettano ai cittadini occidentali, per esempio, potrebbero essere rivendicati da persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza, senza bisogno di spostarsi in occidente. Potremmo anche partecipare a processi politici geograicamente lontani ma che comunque ci riguardano: se il compito della democrazia è dare agli elettori una qualche forma di controllo sulle proprie condizioni di vita, come possono le elezioni statunitensi non coinvolgere la maggior parte della popolazione del pianeta? Che forma prenderebbe il dibattito politico statunitense se dovesse rivolgersi anche agli elettori in Iraq o in Afghanistan? Alla vigilia del suo centesimo compleanno, il sistema degli stati nazione attraversa una crisi da cui al momento è incapace di tirarsi fuori. È il momento di pensare a come costruire una via d’uscita. Una risposta ancora non c’è. Ma abbiamo imparato molto dalla fase economica e tecnologica della globalizzazione, e oggi possiamo identiicare i concetti fondamentali della fase successiva: quella in cui costruiremo i meccanismi politici di un sistema mondiale integrato. Siamo di fronte a una sida dell’immaginazione politica altrettanto significativa di quella che ha prodotto i grandi ideali del diciottesimo secolo, e con essi la repubblica francese e quella americana. Ma oggi possiamo cominciare ad affrontarla.
L’autore
Rana Dasgupta è uno scrittore britannico di origine indiana. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Delhi (Feltrinelli 2015). Il suo prossimo lavoro in inglese uscirà nel 2019 e s’intitolerà After nations (Dopo le nazioni).