internazionale 6.5.18
La fine degli stati Il sistema basato
sullo stato nazione è in crisi. E il ritorno del nazionalismo in tutto
il mondo è l’ultimo sintomo del suo inarrestabile declino. L’analisi
dello scrittore angloindiano Rana Dasgupta
Rana Dasgupta, The Guardian, Regno Unito.
Cosa
sta succedendo alla politica degli stati nazione? Negli Stati Uniti la
realtà supera ormai la fantasia degli scrittori e il Regno Unito non
mostra ancora segni di ripresa dopo l’“esaurimento nervoso nazionale”
causato dalla Brexit, come ha scritto Philip Stephens sul Financial
Times. Alle elezioni del 2017 la Francia “ha evitato l’infarto per un
soffio”, ha commentato Le Monde, ma il risultato del voto non è servito a
scongiurare una “decomposizione accelerata del sistema politico”. In
Spagna, secondo El País, “lo stato di diritto, il sistema democratico e
perfino l’economia di mercato sono in discussione”, mentre in Italia “il
crollo dell’establishment” alle elezioni di marzo è stato paragonato
dall’edizione locale dell’Huington Post alla “calata dei barbari”.
In
Germania, intanto, i neofascisti si preparano a fare opposizione in
parlamento, portando un elemento di preoccupazione e imprevedibilità nel
bastione della stabilità europea. Ma le convulsioni della politica
nazionale non riguardano solo l’occidente. La stanchezza, la sfiducia e
la crescente inadeguatezza dei vecchi schemi sono i temi centrali del
dibattito politico in tutto il mondo. E le soluzioni muscolari e
autoritarie sono sempre più popolari: la guerra usata per distrarre
l’opinione pubblica (Russia, Turchia); la “purificazione”
etnico-religiosa (India, Ungheria, Birmania); l’ampliamento dei poteri
presidenziali e il corrispondente disconoscimento dei diritti civili e
dello stato di diritto (Cina, Ruanda, Venezuela, Thailandia, Filippine e
molti altri). Che rapporto c’è tra tutti questi sconvolgimenti? Di
solito tendiamo a considerarli separati perché le nazioni hanno una
visione egocentrica della politica. Ogni paese tende a dare la colpa
alla “sua” storia, ai “suoi” populisti, ai “suoi” mezzi d’informazione,
alle “sue” istituzioni, alla “sua” cattiva politica. È comprensibile,
perché gli organi che formano la coscienza politica moderna –
l’istruzione pubblica e i mezzi d’informazione di massa – si sono
affermati nell’ottocento sulla base dell’ideologia allora dominante,
secondo cui ogni paese ha un destino nazionale unico e diverso. Oggi
quando discutiamo di politica ci riferiamo a quello che succede
all’interno degli stati sovrani; tutto il resto sono “affari esteri” o
“relazioni internazionali”, anche in quest’epoca di profonda
integrazione finanziaria e tecnologica. In tutti i paesi del mondo
compriamo gli stessi prodotti e usiamo Google e Facebook, ma
curiosamente la politica è ancora fatta di cose diverse in ogni paese e
conserva l’antica fede nei confini nazionali.
Certo, oggi c’è la
consapevolezza che il populismo stia emergendo in forme simili in luoghi
diversi. Molti hanno notato le somiglianze tra le idee e lo stile di
leader come Donald Trump, Vladimir Putin, Narendra Modi, Viktor Orbán e
Recep Tayyip Erdoğan. È come se nell’aria ci fosse qualcosa, una strana
coincidenza di atteggiamenti e sentimenti. Ma non è tutto. E in realtà
non si tratta neanche di una coincidenza. Oggi, infatti, tutti i paesi
fanno parte dello stesso sistema e sono sottoposti alle stesse
pressioni. Sono proprio queste pressioni che stanno soffocando e
piegando la politica nazionale in tutto il mondo. E nonostante la
disperata ostentazione delle bandiere nazionali, l’effetto di queste
pressioni è l’esatto contrario della presunta “rinascita della stato
nazione”. Al contrario, la novità più importante della nostra epoca è
proprio l’erosione dello stato: la sua incapacità di resistere alle
spinte del ventunesimo secolo e la sua catastrofica perdita d’influenza
sulla condizione umana. L’autorità politica nazionale è in declino, e
siccome non ne conosciamo al
tre, ci sembra la fine del mondo.
Ecco perché oggi è in voga una strana forma di nazionalismo
apocalittico. Tuttavia il machismo come stile politico, la costruzione
di muri, la xenofobia, il mito e la teoria della razza e le mirabolanti
promesse di restaurazione nazionale non sono i rimedi alla crisi, ma i
sintomi di una realtà che si sta lentamente rivelando: in tutto il mondo
gli stati nazione attraversano una fase avanzata di decadenza politica e
morale da cui non possono uscire da soli. Ma perché sta succedendo
tutto questo? Per farla breve, le strutture politiche del novecento
affogano in un oceano fatto di deregolamentazione finanziaria,
tecnologia sempre più autonoma, militanza religiosa e rivalità tra
grandi potenze. Nello stesso tempo nel mondo ex coloniale stanno
maturando le conseguenze a lungo represse dell’avventatezza
novecentesca: le nazioni si spaccano, spingendo le popolazioni ad
abbracciare schemi di solidarietà post-nazionali. Nascono così le
milizie tribali itineranti, i sotto-stati e i super-stati etnici e
religiosi. Infine la demolizione, da parte delle superpotenze, della
vecchia idea di comunità internazionale (quella legata alla Società
delle nazioni, fondamentale per la costruzione del nuovo ordine mondiale
dopo il 1918) ha trasformato il sistema degli stati nazione in un far
west senza regole, che sta provocando la reazione nichilista dei paesi
storicamente più deboli e sfruttati. Qual è il risultato? Per un numero
crescente di persone, le nazioni e il sistema di cui fanno parte sono
incapaci di garantire un futuro plausibile e sostenibile. Tanto più che
le élite finanziarie – e la loro ricchezza – si sottraggono sempre di
più agli obblighi di fedeltà nazionale. La perdita di autorità della
politica nazionale deriva in gran parte proprio dalla sua incapacità di
controllare i lussi di denaro. È evidente che il denaro sta uscendo
dallo spazio nazionale per confluire in un’area “offshore” sempre più
ampia. La fuga di queste risorse indebolisce le comunità nazionali dal
punto di vista sia materiale sia simbolico. Ed è causa, ma anche
effetto, della loro decadenza. Gli stati nazione hanno perso la loro
autorità mora le, ed è anche per questo che l’evasione fiscale è
diventata una caratteristica ormai accettata del sistema degli scambi
commerciali del ventunesimo secolo. Un fenomeno ancora più drammatico
riguarda milioni di persone che non hanno più una nazione di
appartenenza e sono precipitate in una specie di inferno. A sette anni
dalla caduta della dittatura di Gheddafi, la Libia è controllata da due
governi rivali, ognuno con il suo parlamento, e da milizie in lotta per
il controllo del petrolio. Ma la Libia è solo uno dei tanti paesi che
esistono esclusivamente sulla carta geografica. Solo il 5 per cento dei
conflitti combattuti nel mondo dal 1989 ha coinvolto gli stati: i 9
milioni di morti nelle guerre degli ultimi trent’anni sono stati causati
in massima parte da conflitti interni, non da invasioni. E, come è
successo nella Repubblica Democratica del Congo e in Siria, il vuoto di
potere che a un certo punto si crea finisce per attirare nel conflitto
paesi di tutto il mondo, distruggendo vite umane e seminando ovunque
profughi traumatizzati. Niente descrive la crisi del sistema degli stati
nazione meglio dei 65 milioni di profughi che ci sono oggi nel mondo,
una “nuova normalità” che va ben oltre i livelli della “vecchia
emergenza” del 1945, quando i profughi erano in totale 40 milioni. Il
fatto di non essere disposti neanche a riconoscere questa crisi è
fotografato perfettamente dal disprezzo per i profughi che oggi
condiziona profondamente la politica nei paesi ricchi. Oltre l’utopia La
crisi non era inevitabile. Dal 1945 in poi abbiamo ridotto la politica
mondiale a una pericolosa parodia del sistema messo in piedi dal
presidente statunitense Woodrow Wilson e dai leader di altre nazioni
dopo il cataclisma della prima guerra mondiale. E oggi ne paghiamo le
conseguenze. Ma non bisogna avere troppi rimpianti. Questo sistema,
infatti, ha fatto molto meno di quanto immaginiamo per la sicurezza e la
dignità umana – sotto molti aspetti è stato un fallimento colossale – e
c’è un motivo se sta invecchiando più in fretta degli imperi di cui ha
preso il posto. Anche se volessimo ricostruire quello che c’era prima,
ormai sarebbe troppo tardi. Se lo stato nazione è riuscito a raggiungere
dei risultati – in alcuni casi davvero notevoli – è perché per buona
parte del novecento c’è stato un perfetto “incastro” tra politica,
economia e informazione, tutte organizzate su scala nazionale. I governi
avevano realmente il potere di controllare le energie economiche e
ideologiche e di indirizzarle verso ini lodevoli, a volte addirittura
utopistici. Quell’epoca è finita. Dopo decenni di globalizzazione,
l’economia e l’informazione ormai non dipendono più dall’autorità dei
governi. Oggi la distribuzione della ricchezza e delle risorse a livello
planetario è quasi totalmente svincolata da ogni meccanismo politico.
Ma riconoscere questa realtà vuol dire riconoscere la fine della
politica stessa. E se continuiamo a pensare che il sistema di governo
che abbiamo ereditato dai nostri padri non permette nessuna innovazione,
allora ci condanniamo a un lungo periodo di paralisi politica e morale.
Ci sono voluti cinquant’anni per costruire il sistema globale da cui
oggi tutti dipendiamo, e non possiamo tornare indietro. Senza una grande
innovazione politica, la tecnologia e il capitale globale ci
governeranno senza alcun tipo di controllo democratico, con la stessa
naturalezza e ineluttabilità con cui s’innalza il livello degli oceani.
Se vogliamo riscoprire il senso della politica in quest’epoca di finanza
globale, raccolta di dati senza freni, migrazioni di massa e
sconvolgimenti climatici, dobbiamo immaginare forme politiche capaci di
operare su questa stessa scala. Non c’è dubbio che il sistema politico
attuale dev’essere integrato da una regolamentazione della finanza
globale, e probabilmente anche da nuovi meccanismi politici
transnazionali. È così che completeremo la globalizzazione, oggi
pericolosamente incompiuta. Il sistema economico e tecnologico della
globalizzazione è certamente spettacolare, ma per operare al servizio
della comunità umana dev’essere subordinato a un’infrastruttura politica
altrettanto formidabile, che non abbiamo ancora nemmeno cominciato a
concepire. Inevitabilmente si obietterà che qualsiasi alternativa al
sistema degli stati nazione è un’utopia irrealizzabile. Ma anche le
conquiste tecnologiche degli ultimi decenni sembravano improbabili prima
che arrivassero, e ci sono buoni motivi per sospettare di chi,
dall’alto della sua posizione di potere, vorrebbe convincerci che
l’essere umano è incapace di raggiungere traguardi simili nella sfera
politica. In diverse fasi della storia la politica ha assunto una
rilevanza ino a quel momento impensabile, a partire dalla creazione
dello stato nazione. Come diventa ogni giorno più chiaro, la vera
illusione è che le cose possano continuare ad andare avanti in questo
modo. Il primo passo da fare è smettere di pensare che non c’è
alternativa. Cominciamo quindi prendendo in esame la portata della crisi
attuale. Promesse tradite Partiamo dall’occidente. L’Europa,
naturalmente, ha inventato lo stato nazione: il principio della
sovranità territoriale fu sancito dalla pace di Vestfalia, che nel 1648
mise ine alla guerra dei trent’anni. Dato che il trattato impediva di
fatto conquiste su larga scala nel continente, le nazioni europee
puntarono al resto del mondo. In patria, i dividendi del saccheggio
coloniale si tradussero nella creazione di stati forti con solide
burocrazie e sistemi politici democratici: in sintesi il modello della
vita europea moderna. Alla ine dell’ottocento le nazioni europee avevano
ormai acquisito tratti comuni ancora oggi riconoscibili, tra cui una
serie di monopoli di stato gelosamente custoditi (per esempio sulla
difesa, le tasse e la legge) che mettevano sostanzialmente il destino
nazionale nelle mani dei governi. In cambio alla collettività veniva
fatta una promessa: lo sviluppo spirituale e materiale dei cittadini e
della nazione. Questa promessa si concretizzava in grandi progetti
pubblici nel campo dell’istruzione, della sanità, dello stato sociale e
della cultura. Il tradimento di questa promessa morale a cui abbiamo
assistito negli ultimi quarant’anni è un evento sconvolgente, di portata
quasi metafisica, e ha spinto i popoli occidentali a guardarsi intorno
in cerca di nuovi valori in cui credere. Quella promessa, infatti, aveva
rappresentato un momento fondamentale nell’evoluzione della psicologia
occidentale. Era parte di una profonda riorganizzazione teologica: la
rivoluzione francese aveva detronizzato non solo il sovrano, ma dio
stesso, i cui attributi superlativi – onniscienza e onnipotenza – erano
stati assorbiti nell’istituzione dello stato. Il potere dello stato di
sviluppare, liberare e redimere l’umanità diventò la fede laica su cui
lo stato stesso si fondava. Con la decolonizzazione del secondo
dopoguerra la struttura dello stato nazione europeo è stata esportata in
tutto il mondo. Per gli occidentali, tuttavia, quella promessa morale
ha conservato un valore particolare e specifico, soprattutto dopo la
creazione dello stato sociale e dopo decenni di crescita senza
precedenti. La nostalgia per l’età dell’oro dello stato nazione distorce
ancora oggi il dibattito politico occidentale, ma quell’epoca è stata
il frutto di un’improbabile coincidenza di condizioni che non si
ripeterà più. Era un’anomalia perfino la struttura stessa dello stato
postbellico, caratterizzata da una capacità di controllo sull’economia
interna storicamente eccezionale. I capitali non erano liberi di fluire
incontrollati oltre i confini e le speculazioni valutarie erano
trascurabili rispetto a oggi. I governi, in altre parole, avevano un
controllo sostanziale sui lussi monetari, e se parlavano di cambiare le
cose era perché erano effettivamente in grado di farlo. Il fatto che il
capitale fosse vincolato significava che i governi erano liberi di
imporre aliquote fiscali molto alte, grazie alle quali, in un’epoca di
crescita economica senza precedenti, potevano dedicare grandi energie e
risorse allo sviluppo del paese. Per alcuni decenni il potere dello
stato è stato monumentale – quasi divino – e ha creato le società
capitalistiche più sicure e più eque mai conosciute. La distruzione
dell’autorità dello stato a vantaggio del capitale ha rappresentato
l’obiettivo esplicito della rivoluzione finanziaria che definisce la
nostra epoca. Di conseguenza, gli stati si sono visti costretti a
tagliare le garanzie sociali per reinventarsi come custodi del mercato.
Questo fenomeno ha drasticamente ridimensionato l’autorità politica
nazionale, a livello sia reale sia simbolico. Nel 2013 Barack Obama ha
definito la lotta alle disuguaglianze “la sida centrale del nostro
tempo”, ma dal 1980 in poi le disuguaglianze negli Stati Uniti sono
cresciute senza sosta, nonostante le preoccupazioni di Obama o di
qualsiasi altro presidente. Il quadro è lo stesso in tutto l’occidente: i
redditi dei più ricchi continuano ad aumentare, mentre l’austerità
imposta dopo la crisi ha azzoppato il welfare state socialdemocratico.
Oggi l’ira dell’opinione pubblica si abbatte sui governi che si
rifiutano di rispettare la loro antica promessa morale, ma la verità è
che lo stato ormai non ha molta scelta. I governi occidentali non hanno
più il controllo della vita economica del paese, e se continuano a
promettere grandi cambiamenti lo fanno solo per accontentare l’opinione
pubblica o per dare l’illusione di avere ancora la situazione sotto
controllo. È molto probabile che la prossima fase della rivoluzione
tecno-finanziaria sarà ancora più disastrosa per l’autorità politica
nazionale. Assisteremo alla continuazione su scala nazionale dei
processi tecnologici già in atto, che promettono nuovi tipi di governo
basati su algoritmi, con una ulteriore delegittimazione della politica.
Le aziende che sfruttano la raccolta di grandi quantità di dati (Google,
Facebook, eccetera) hanno già assunto molte funzioni un tempo affidate
allo stato, dalla cartografia alla sorveglianza. E sono diventate le
principali custodi della realtà sociale: l’adesione a questi sistemi è
una nuova forma privata e deterritorializzata di cittadinanza, in tutto e
per tutto alternativa a quella nazionale. E come dimostra la crescita
delle valute digitali, presto emergeranno nuove tecnologie capaci di
sostituire anche le altre funzioni fondamentali dello stato nazione.
L’utopia libertaria in cui delle burocrazie antiquate soccombono a
sistemi privati puri che prendono in mano la gestione della vita e delle
risorse è uno scenario futuro più probabile di qualsiasi fantasia su un
ritorno alla socialdemocrazia. L’autorità sotto attacco Governi
controllati da forze esterne e in grado di esercitare un’inluenza solo
parziale sulle questioni nazionali: nei paesi più poveri del mondo è
sempre stato così. Ma in occidente questa nuova situazione è vissuta
come un ritorno terriicante a un’antica vulnerabilità. L’attacco
all’autorità politica non è solo un fenomeno “economico” o
“tecnologico”. È uno sconvolgimento epocale che destabilizza e spoglia i
popoli occidentali. Il risultato è che ci sono esplosioni di rabbia
irrazionale, soprattutto contro gli immigrati, i capri espiatori
designati. Così crolla l’idea della nazione occidentale come casa
universale e crescono le identità tribali transazionali, considerate un
nuovo rifugio: tanto il suprematismo bianco quanto il radicalismo
islamico prendono le armi contro la contaminazione e la corruzione. La
posta in gioco non potrebbe essere più alta. È facile dunque capire
perché i governi occidentali tentino disperatamente di dimostrare quello
che tutti ormai mettono in dubbio, cioè di avere ancora il controllo
della situazione. Se Donald Trump si comporta come un amministratore
delegato sociopatico non è solo per il suo carattere. Nell’era della
globalizzazione i presidenti statunitensi hanno provato ripetutamente ad
ampliare il potere del governo, ma quel potere non basterà mai.
L’amministrazione Trump non avrà mai il controllo sulla vita degli
americani che aveva l’amministrazione Kennedy, per questo è costretta a
simularlo. Trump non può “far tornare grande l’America”, ma ha Twitter,
con cui può costruire un culto della personalità da pistolero solitario
dando la colpa dell’impotenza dello stato alle donne, a quelli di
sinistra e ai neri. Non può sanare le divisioni sociali degli Stati
Uniti, ma controlla ancora l’apparato di sicurezza, che sfrutta a suo
vantaggio per atteggiarsi a “duro”, dichiarando guerra alla criminalità,
espellendo gli stranieri e raforzando i conini. Trump non può dare
soldi ai poveri che lo hanno votato, ma può contare su una moneta
mitologica: anche gli elettori più poveri, infatti, possiedono una
risorsa importante – la cittadinanza statunitense – che Trump può
“vendere” come in passato ha venduto i suoi casinò e i suoi alberghi.
Come Putin e Orbán, Trump ammanta la cittadinanza di un nuovo potere
marziale, e si vanta di negarla a quelli che la desiderano. Ovviamente,
più una cosa scarseggia, più è preziosa. Così anche i cittadini che non
hanno nulla si convincono di avere molto. È una strategia sgradevole, ma
non possiamo semplicemente dare la colpa a pochi cattivi interpreti. La
situazione è questa: l’autorità politica è agli sgoccioli e i leader
non sono in grado di produrre cambiamenti materiali signiicativi. Per
questo devono alimentare e mettere in campo sentimenti forti: l’odio
verso stranieri e nemici interni, oppure l’entusiasmo per imprese
militari insignificanti (per esempio l’annessione della Crimea da parte
di Vladimir Putin). Alcuni pensano che queste strategie crolleranno
sotto il peso della loro inconsistenza e che magicamente la moderazione
tornerà di moda. Ma come ha dimostrato la Russia di Putin, lo
sciovinismo è più eicace di quanto non vogliamo ammettere. Anche perché i
cittadini vogliono disperatamente che l’inganno funzioni: sotto sotto
hanno paura di quello che può succedere se si scopre che il potere dello
stato è una bufala. Nei paesi più poveri del mondo il quadro è diverso.
Molte nazioni sono nate nel ventesimo secolo dalle ceneri degli imperi
euroasiatici. Oggi è diventato normale disprezzare gli imperi, ma per
gran parte della storia sono stati il normale sistema di governo.
L’impero ottomano, durato dal 1300 al 1922, garantì livelli di pace e di
sviluppo culturale che sembrano incredibili quando si pensa al Medio
Oriente di oggi. La Siria moderna non sembra poter durare più di un
secolo senza disgregarsi, e non è stata quasi mai in grado di assicurare
sicurezza o stabilità ai suoi cittadini. Gli imperi non erano
democratici, ma erano costruiti per includere chiunque iniva sotto il
loro dominio. Le nazioni, invece, si basano sulla distinzione
fondamentale tra chi ne fa parte e chi no, e dunque portano in sé la
tentazione della purezza etnica. Tutto questo le rende più instabili
degli imperi, perché queste caratteristiche possono sempre essere
cavalcate da qualche demagogo nativista. Nonostante questo, nel secolo
scorso a un certo punto si è stabilito che gli imperi appartenevano al
passato e che il futuro era degli stati nazione. Questo cambiamento
rivoluzionario ha fatto poco o nulla per colmare il divario economico
tra colonizzati e colonizzatori. Anzi, ha costretto molte popolazioni
post-coloniali a ingoiare un amarissimo cocktail a base di
autoritarismo, pulizia etnica, guerra, corruzione e devastazioni
ambientali. Se oggi solo poche ex colonie sono diventate nazioni
paciiche, ricche e democratiche, la colpa non è dei “cattivi leader” che
hanno rovinato paesi perfettamente funzionanti, come vorrebbe far
credere l’occidente. Durante la decolonizzazione le nazioni sono state
assemblate nel giro di pochi mesi. E spesso le loro popolazioni si sono
fatte risucchiare in conlitti violenti per il controllo del nuovo
apparato dello stato, del potere e della ricchezza che ne derivavano.
Molti di questi nuovi stati erano tenuti insieme da un uomo forte che
aveva aidato il sistema alla sua tribù o al suo clan e manteneva il
potere alimentando rivalità settarie o sfruttando le diferenze
etnicoreligiose come strumenti di terrore politico. La lista non è
breve. Pensiamo a igure come Ne Win (Birmania), Hissène Habré (Ciad),
Hosni Mubarak (Egitto), Mengistu Haile Mariam (Etiopia), Ahmed Sékou
Touré (Guinea), Muhammad Suharto (Indonesia), lo scià dell’Iran, Saddam
Hussein (Iraq), Muammar Gheddai (Libia), Moussa Traoré (Mali), il
generale Zia-ul-Haq (Pakistan), Ferdinand Marcos (Filippine), i re
dell’Arabia Saudita, Siaka Stevens (Sierra Leone), Mohamed Siad Barre
(Somalia), Jaafar Nimeiri (Sudan), Hafez al Assad (Siria), Idi Amin
(Uganda), Mobutu Sese Seko (Zaire) o Robert Mugabe (Zimbabwe). Questi
paesi sono stati sostanzialmente con dannati a restare “quasi-stati”,
secondo la deinizione del politologo Robert H. Jackson. Formalmente
equivalenti alle vecchie nazioni con cui condividevano il palcoscenico
internazionale, in realtà erano entità molto diverse, incapaci di
garantire beneici paragonabili ai loro cittadini. Ma i dittatori non
sarebbero mai riusciti a tenere insieme realtà così contraddittorie
senza un aiuto dall’esterno. Lo spirito postimperiale, naturalmente, gli
era congeniale: il rifiuto del dominio straniero da parte dell’Onu
aveva come corollario l’imperativo universale a rispettare la sovranità
nazionale, a prescindere dagli orrori commessi all’interno dei singoli
paesi. La guerra fredda, inoltre, moltiplicava le risorse a disposizione
dei regimi più brutali per difendersi da rivoluzioni e secessioni. Le
due superpotenze hanno inanziato l’escalation dei conlitti
post-coloniali ino a livelli di mortalità stupefacenti: le proxy wars,
le guerre per procura scoppiate in quel periodo in paesi come
Afghanistan, Corea, El Salvador, Angola e Sudan, hanno causato quasi 15
milioni di vittime. Per le superpotenze l’obiettivo di questa violenza
era la costruzione di una rete stabile di alleati, o meglio clienti, in
grado di sconiggere gli avversari interni. Contenere i conlitti In
realtà non c’era nulla di stabile nella stabilità della guerra fredda:
semplicemente le sue devastazioni erano coninate all’interno di
stati-cuscinetto. Ma dopo il crollo del sistema delle superpotenze, con
l’implosione dell’autorità dello stato, in molti paesi economicamente e
politicamente impoveriti contenere i conlitti è diventato impossibile.
La distruzione delle culture nazionali ha dato origine a preoccupanti
forze post-nazionali, come il gruppo Stato islamico (Is), capaci di
attraversare i conini nazionali e di difondere il caos in ogni angolo
del pianeta. Negli ultimi vent’anni i postumi tossici della guerra
fredda in Africa e in Medio Oriente sono stati sfruttati da queste
forze, che prosperano grazie alla progressiva disgregazione di paesi
come Yemen, Sud Sudan, Siria e Somalia e di altre nazioni che
inevitabilmente seguiranno la stessa strada. I militanti delle nuove
forze si sono liberati dall’incantesimo dei vecchi slogan sulla
costruzione della nazione. Si basano su un’interpretazione carismatica
della religione, e il futuro a cui aspirano guarda agli antichi imperi
che esistevano prima dell’invenzione degli stati nazione. I gruppi
religiosi militanti dell’Africa e del Medio Oriente sono sempre meno
interessati alla conquista dell’apparato dello stato; preferiscono
ricavarsi degli spazi nell’autorità statale, costruendo reti
transnazionali per gestire la riscossione delle imposte, gli scambi
commerciali e gli approvvigionamenti militari. Una di queste reti si
estende, in direzione est-ovest, dalla Mauritania allo Yemen, e, secondo
la traiettoria sud-nord, dal Kenya e dalla Somalia verso l’Algeria e la
Siria. Questa nuova struttura erode dall’interno la vecchia
architettura politica, rendendo gli stati nazione sostanzialmente
impotenti (per esempio il Mali e la Repubblica Centrafricana) e creando
ulteriori opportunità di consolidamento ed espansione. Nel frattempo,
gruppi etnici come i curdi e i tuareg – che dopo la decolonizzazione
sono rimasti senza una patria, abbandonati e perseguitati per anni –
hanno sfruttato le crepe dell’autorità dello stato per mettere insieme i
primi abbozzi di territori transnazionali. È nelle regioni più
pericolose del mondo che si sperimentano le nuove possibilità della
politica. L’impegno dell’occidente verso gli stati-nazione è stato
opportunistico e parziale. Per decenni l’occidente si è disinteressato
alle soferenze di vaste aree del pianeta, oppresse da spaventose parodie
degli stati tradizionali, e oggi non può lamentarsi se quei popoli non
mostrano nessun attaccamento all’idea dello stato nazione. Anche perché
sono proprio quei popoli a dover sopportare le conseguenze più
traumatiche del cambiamento climatico, un fenomeno di fronte al quale
sono i meno responsabili ma i più vulnerabili. Il calcolo strategico dei
nuovi gruppi militanti in queste regioni è per certi versi corretto: la
transizione dall’impero agli stati nazione indipendenti è stata un
fallimento continuo e totale, e dopo tre generazioni bisogna trovare una
via d’uscita. Ma questa via d’uscita non può essere rappresentata da
gruppi come Al Shabaab, i janjaweed, Seleka, Boko haram, Ansar dine, lo
Stato islamico e Al Qaeda. La situazione richiede nuove idee per
l’organizzazione politica e la ridistribuzione economica globale. Non
esiste più nessuna superpotenza abbastanza forte da poter contenere gli
efetti dell’esplosione dei “quasi-stati”. Irrigidire i conini non
basterà sicuramente a tenere a bada il fenomeno. L’unica via d’uscita
Pensiamo alla natura stessa dello stato nazione. L’ordine internazionale
come lo conosciamo non è così vecchio. Lo stato nazione è diventato il
modello universale dell’organizzazione politica umana solo dopo la prima
guerra mondiale, quando un nuovo principio – “l’autodeterminazione dei
popoli”, come la deinì il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson –
ebbe la meglio sugli altri progetti allora in discussione. Oggi, dopo un
secolo di luttuose relazioni internazionali, l’unico aspetto di questo
principio che ancora ricordiamo è quello a noi più familiare:
l’indipendenza nazionale. Ma il piano originario di Wilson, elaborato da
un gruppo di persone di cui facevano parte idealisti di ogni
provenienza, da Andrew Carnegie a Leonard Woolf (marito di Virginia),
aveva un obiettivo più ambizioso: la nascita di una democrazia allargata
che superasse i conini degli stati, in grado di assicurare la
cooperazione internazionale, la pace e la giustizia. Del resto, come
potevano i popoli vivere al sicuro nelle loro nuove nazioni se queste
non erano soggette a nessuna legge? Il nuovo ordine delle nazioni aveva
senso solo in presenza di una “società delle nazioni”: un’organizzazione
globale e formale dotata di istituzioni proprie, con il potere di
sanzionare gli atti di violenza che i singoli stati non erano in grado
di gestire da soli, cioè quelli commessi dagli stati stessi contro altri
stati o contro i propri cittadini. La guerra fredda ha definitivamente
seppellito questa “società internazionale”, e da decenni conviviamo con
una versione fortemente ridimensionata del progetto originario. In
questo arco di tempo le due superpotenze hanno volutamente eliminato
ogni restrizione agli interventi internazionali, alimentando un livello
di anarchia degno della “spartizione dell’Africa” che andò in scena tra
la ine dell’ottocento e la prima guerra mondiale. Il loro potere,
liberato da ogni restrizione, ha prodotto esattamente quello che ci si
poteva aspettare: il banditismo. La fine della guerra fredda non ha
cambiato di una virgola l’atteggiamento statunitense: oggi il potere di
Washington dipende dall’illegalità che vige nella comunità
internazionale e dalla guerra perpetua contro i deboli che è una sua
diretta conseguenza. Come un governo illegittimo non può durare a lungo
senza che nasca un’opposizione, così l’ordine internazionale illegittimo
con cui abbiamo convissuto per tanti anni sta rapidamente esaurendo il
consenso di cui godeva un tempo. In molte parti del mondo nessuno
s’illude più che questo sistema possa ofrire un futuro sostenibile. Non
resta che uscirne. Alcuni puntano tutto su un passaporto occidentale:
visto che in occidente il valore della vita è ancora tutelato dal
sistema, è l’unica garanzia di una protezione costituzionale
signiicativa. Ma avere un passaporto occidentale non è facile. Resta
un’altra via d’uscita: imbracciare le armi contro il sistema degli
stati. Il gruppo Stato islamico ha esercitato una forte attrazione
perché ha promesso di cancellare dal Medio Oriente la catastrofe del
secolo postimperiale. Si ricorderà che i proclami più trionfalistici
dell’Is sono arrivati dopo la conquista del conine tra Iraq e Siria,
presentata come una rivincita sui trattati del 1916 con cui il Regno
Unito e la Francia si spartirono l’Impero ottomano, inaugurando un
secolo di bombardamenti sulla Mesopotamia. Tutto questo nasce dal
riiuto, perfettamente giustiicabile, di un sistema che per oltre
cent’anni ha bollato gli arabi come “selvaggi” a cui non andava
riconosciuta alcuna dignità o protezione. L’era dell’autodeterminazione
dei popoli si è rivelata un’era di illegalità internazionale che ha
minato la legittimità del sistema degli stati nazione. E mentre i gruppi
rivoluzionari tentano di distruggere il sistema “dal basso”, le potenze
regionali lo stanno distruggendo “dall’alto”, violando i conini
nazionali nelle loro aree di inluenza. L’intervento russo in Ucraina
dimostra che oggi c’è una sostanziale impunità per i capricci
neoimperiali, e la possibilità che la Cina occupi Taiwan – il
ventiduesimo paese più ricco del mondo – è ancora un rischio concreto.
Ma la vera portata della nostra insicurezza si rivelerà nel momento in
cui il potere degli Stati Uniti, già relativo, si ridurrà ulteriormente,
rendendo Washington impotente di fronte al caos che ha contribuito a
creare. Democrazie e denaro I tre elementi della crisi dello stato
nazione qui descritti potranno solo peggiorare. Primo, la crisi
esistenziale dei paesi ricchi causata dall’attacco delle forze globali
al potere nazionale. Secondo, l’instabilità delle regioni e dei paesi
più poveri, dopo che hanno mostrato la loro vera fragilità con la ine
dei regimi legati alla guerra fredda. E terzo, l’illegittimità di un
ordine internazionale che non ha mai aspirato a diventare una “società
delle nazioni” governata secondo lo stato di diritto. Questi tre
elementi sono il frutto di forze che le politiche nazionali non possono
controllare, e per questo motivo sono sostanzialmente immuni a qualsiasi
riforma interna agli stati (anche se nei prossimi anni assisteremo a
molti tentativi in questo senso). Quindi, se non vogliamo vedere il
sistema globale scivolare verso forme di crisi ancora più estreme,
abbiamo l’obbligo di ricostruirne le traballanti fondamenta politiche.
Non è un’impresa da poco: ci vorrà quasi un secolo. E ancora non
sappiamo dove approderemo. Tutto quello che possiamo fare è ipotizzare
una serie di direzioni. Sembreranno inconcepibili, perché inora abbiamo
conosciuto esclusivamente il sistema attuale. Ma è così che cominciano i
cambiamenti radicali. La prima direzione è chiara, ed è quella della
regolamentazione della inanza globale. Oggi i grandi motori della
crescita sono organizzati in modo da eludere i sistemi iscali nazionali
(il 94 per cento delle riserve di liquidità della Apple si trova
ofshore: 250 miliardi di dollari, più delle riserve in valuta estera del
governo britannico e della Banca d’Inghilterra messe insieme). Questo
sta indebolendo gli stati nazione, sia concretamente sia simbolicamente.
Non c’è motivo di dare ascolto a chi, in modo interessato, giura che la
regolamentazione della inanza globale è un’impresa impossibile: dal
punto di vista tecnologico è molto più banale degli strabilianti
meccanismi messi in piedi per consentire l’elusione iscale. Ripensare la
cittadinanza La storia dello stato nazione è fatta di costanti
innovazioni iscali, e la prossima innovazione sarà transnazionale:
dobbiamo creare un sistema capace di tracciare i lussi internazionali di
denaro e di trasferirne una parte al settore pubblico. Se non ci
riusciremo, la nostra infrastruttura politica continuerà a inluire
sempre meno sulla vita materiale delle persone. Allo stesso tempo
dobbiamo pensare più seriamente a una ridistribuzione globale della
ricchezza: non attraverso gli aiuti, che sono misure straordinarie, ma
con il trasferimento sistematico di risorse dai ricchi ai poveri per
migliorare la sicurezza di tutti, come succede nelle società nazionali.
Il secondo punto è che serve una democrazia globale flessibile. Con il
rafforzamento dei nuovi poteri locali e transnazionali, il rigido
monopolio dello stato nazione sulla vita politica sta diventando sempre
più insostenibile. Le nazioni devono essere inserite in un’architettura
di strutture democratiche stabili – alcune più piccole, altre più ampie –
capace di far sì che le turbolenze a livello nazionale non portino al
collasso del sistema. L’Unione europea è il principale esperimento in
questo senso, ed è signiicativo che il continente che ha inventato lo
stato nazione sia anche il primo che sta provando a superarlo. L’Unione
ha fallito in molte delle sue funzioni, principalmente perché non ha
creato uno spirito veramente democratico. Ma il libero movimento di
persone e beni ha enormemente democratizzato le opportunità economiche
all’interno del continente. E se l’Unione diventasse una “Europa delle
regioni” – capace di comprendere la Catalogna e la Scozia, non solo la
Spagna e il Regno Unito – potrebbe contribuire a stabilizzare le
tensioni politiche nazionali. Oggi servono altri esperimenti politici di
questo tipo, a livello continentale e globale. Gli stessi governi
nazionali devono essere soggetti a un maggiore controllo: finora,
infatti, si sono dimostrati le forze più pericolose nell’era dello stato
nazione, dichiarando guerra ad altri paesi e opprimendo, uccidendo o
comunque sottraendosi agli obblighi verso i loro popoli. Le minoranze
nazionali oppresse devono avere una struttura legale sovranazionale a
cui potersi rivolgere: questo è sempre stato uno degli obiettivi di
Wilson, e il suo mancato raggiungimento è stato una sciagura per
l’umanità. Terzo e ultimo punto: dobbiamo studiare una nuova concezione
della cittadinanza. Oggi la cittadinanza è la prima forma d’ingiustizia
nel mondo: funziona come un modello estremo di proprietà ereditaria e –
come succede in altri sistemi in cui il privilegio ereditario è
determinante – non fa scattare nessun meccanismo di fedeltà e
identiicazione in chi non la può ereditare. Molti paesi hanno cercato,
attraverso il welfare e l’istruzione pubblica, di neutralizzare le
conseguenze dei vantaggi accidentali che derivano dalla nascita. Eppure
questi “vantaggi accidentali” rimangono una forza dominante a livello
globale: nel 97 per cento dei casi la cittadinanza è ereditaria, il che
signiica che le variabili fondamentali della vita su questo pianeta sono
già decise alla nascita. Chi nasce inlandese ha tutele giuridiche e
aspettative economiche talmente diverse rispetto a un somalo o a un
siriano che diventa diicile perino comprendersi a vicenda. Anche le
opportunità di movimento di un finlandese sono completamente diverse. Ma
in un sistema mondiale – più che in un sistema di nazioni – non può
esserci giustiicazione per una diferenza così radicale. La
liberalizzazione del movimento delle persone è un corollario essenziale
della liberalizzazione dei capitali: non è giusto tutelare la libertà di
spostare i capitali da un paese all’altro e contemporaneamente impedire
alle persone di fare altrettanto. I sistemi tecnologici contemporanei
mettono a disposizione modelli per ripensare la cittadinanza separandola
dal territorio e distribuendo in modo più equo i suoi vantaggi. I
diritti e le opportunità che spettano ai cittadini occidentali, per
esempio, potrebbero essere rivendicati da persone che vivono a migliaia
di chilometri di distanza, senza bisogno di spostarsi in occidente.
Potremmo anche partecipare a processi politici geograicamente lontani ma
che comunque ci riguardano: se il compito della democrazia è dare agli
elettori una qualche forma di controllo sulle proprie condizioni di
vita, come possono le elezioni statunitensi non coinvolgere la maggior
parte della popolazione del pianeta? Che forma prenderebbe il dibattito
politico statunitense se dovesse rivolgersi anche agli elettori in Iraq o
in Afghanistan? Alla vigilia del suo centesimo compleanno, il sistema
degli stati nazione attraversa una crisi da cui al momento è incapace di
tirarsi fuori. È il momento di pensare a come costruire una via
d’uscita. Una risposta ancora non c’è. Ma abbiamo imparato molto dalla
fase economica e tecnologica della globalizzazione, e oggi possiamo
identiicare i concetti fondamentali della fase successiva: quella in cui
costruiremo i meccanismi politici di un sistema mondiale integrato.
Siamo di fronte a una sida dell’immaginazione politica altrettanto
significativa di quella che ha prodotto i grandi ideali del diciottesimo
secolo, e con essi la repubblica francese e quella americana. Ma oggi
possiamo cominciare ad affrontarla.
L’autore
Rana Dasgupta
è uno scrittore britannico di origine indiana. Il suo ultimo libro
pubblicato in Italia è Delhi (Feltrinelli 2015). Il suo prossimo lavoro
in inglese uscirà nel 2019 e s’intitolerà After nations (Dopo le
nazioni).