Il Sole Domenica 20.5.18
Sei lettere sull’Italia
La denuncia di Pareto
Nei
 testi ora in italiano, curati da Alberto Mingardi, l’economista 
documenta gli abusi di potere e il carattere illiberale dello Stato 
crispino
di Sabino Cassese
Com’era l’Italia in 
quello che Croce nel 1928 chiamò “periodo crispino” (1887 – 1896)? Può 
dirsi che fiorirono in quegli anni ideali liberali, perché larga parte 
della classe dirigente si proclamava liberale? Benedetto Croce, nella 
sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, osservava che Crispi «non mai […] 
si propose o vagheggiò un governo autoritario» e che anzi durante il suo
 governo si avviò la «trasformazione liberale del socialismo». Abbiamo 
ora, per la prima volta tradotta in italiano, la testimonianza di un 
osservatore di eccezione, Vilfredo Pareto (raccolta e presentata con 
grande cura, dottrina e intelligenza da Alberto Mingardi,), che, in sei 
“lettere” scritte nel triennio 1888 – 1891 a una rivista americana, 
presenta l’Italia crispina come un regime statalista, protezionista, 
militarista, corruttore.
Lasciamo la parola a Pareto. Egli spiega 
ai suoi lettori d’oltre Atlantico che «la borghesia regna e governa in 
Italia senza che nessuno la contrasti; il suo potere è così solido che 
non ha nemmeno bisogno di ricorrere alla forza per mantenerlo». «La 
borghesia è al potere e ne abusa» perché i partiti popolari sono divisi.
 Non è solo per il «rispetto per l’autorità fortemente radicato nelle 
persone», che il governo ha un ruolo dominante, ma anche perché «gli 
interessi di tutti i cittadini italiani dipendono dallo Stato centrale».
 «Nei piccoli paesi il governo controlla completamente le elezioni». La 
legge non è rispettata, tanto che vengono istituite nuove tasse senza 
autorizzazione legislativa e arrestate persone per solo ordine della 
polizia, senza decisione dei giudici. I funzionari governativi non 
possono essere perseguiti, quando violano la legge, perché solo i 
ministri possono farlo, mentre «la magistratura è sostanzialmente 
dipendente dal potere esecutivo». «La maggioranza dei borghesi è 
indifferente […] fintanto che il numero dei posti pubblici messi 
annualmente a disposizione dei loro figli non diminuisce, fintanto che 
possono continuare ad arricchirsi grazie al protezionismo, a 
speculazioni il cui conto viene presentato a tutto il Paese, e a 
monopoli garantiti loro dal governo, e perché vengano date loro a spese 
dello Stato tutte le ferrovie che desiderano». Tra i sostenitori del 
governo e il governo «si stabilisce una sorta di scambio di favori: 
quest’ultimo lascia loro avere i denari dei contribuenti, mentre loro 
mettono al suo servizio la loro influenza in tutto il paese». Continua 
Pareto dicendo che Crispi non era stimato neppure dai suoi sostenitori: 
«costoro lo hanno sostenuto semplicemente perché era al potere e perché 
avevano bisogno di lui o per i propri affari privati o per difendere il 
partito conservatore contro i radicali».
Due delle sei “lettere” 
di Pareto riguardano la questione meridionale. Pareto osserva che «le 
condizioni sociali ed economiche della popolazione nella parte 
settentrionale della penisola sono molto diverse da quelle che 
prevalgono nella parte meridionale, incluse le isole, Sicilia e 
Sardegna». Un divario simile si trova solo in Irlanda. Il mezzogiorno è 
oppresso dalla borghesia, che pratica l’usura. L’unica opposizione è 
quella del brigantaggio, «fenomeno sociale, non politico». Milano, 
Genova, Torino hanno una classe lavoratrice che «sente e pensa come in 
Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti». Nel Sud, invece, «la 
borghesia e la nobiltà sono strapotenti».
Quando scrive questo 
violento atto di accusa contro l’autoritarismo crispino, Vilfredo Pareto
 è un quarantenne ingegnere (era nato nel 1848), lavorava a San Giovanni
 Valdano, dove era stato anche consigliere comunale dal 1876 al 1882, 
nonché candidato senza successo alla Camera dei deputati. Era direttore 
generale della Società ferriere italiane ed aveva stretto legami con 
l’ambiente intellettuale e politico fiorentino. Proprio negli anni in 
cui scrisse quelle lettere conobbe il grande economista Maffeo 
Pantaleoni, con il quale conserverà un rapporto stretto anche dopo, e 
nel 1893 si trasferirà a Losanna, dove iniziò la sua carriera più nota, 
dando contributi importanti sia all’economia e alla teoria economica, 
sia alla scienza politica e alla sociologia.
Le “lettere” 
paretiane (veri e propri lunghi articoli, da corrispondente estero), 
scritte nella lingua francese, quella che gli era più familiare, vennero
 tradotte in inglese dal direttore della rivista alla quale erano 
destinate o da suoi collaboratori, e vengono ora pubblicate per la prima
 volta in italiano grazie ad Alberto Mingardi, il quale le ha 
accuratamente presentate e annotate, ricostruendo l’ambiente di un 
gruppo individualista, anti-interventista e anti-statalista di Boston, 
allora il vero centro intellettuale degli Stati Uniti, un gruppo 
denominato “gli anarchici di Boston”, ispirato dall’azione di Benjamin 
Tucker, un attivissimo organizzatore di cultura. Tucker animò e diresse 
dal 1881 al 1908 la rivista «Liberty», alla quale erano destinate le 
lettere paretiane, oltre a pubblicare libri importanti, di politici e di
 scrittori, come Burke, Spencer, Wilde e Zola.
Su «Liberty» 
l’attenzione di Pareto era stata attirata da Sophie Raffalovich, autrice
 nel 1888 sul «Journal des Économistes» (al quale Pareto aveva 
collaborato) di un articolo intitolato «Gli anarchici di Boston» (ora in
 appendice a questo volume), nel quale spiegava che l’ideale del gruppo 
americano era la «distruzione dello Stato», per affermare la «sovranità 
individuale», un ideale manchesteriano in contrasto con quello dei 
socialisti. Evidentemente colpito dal resoconto della Raffalovich, 
Pareto si offrì di scrivere una serie di “lettere dall’Italia”.
Perché
 sono importanti questi scritti paretiani e perché è meritoria la 
presentazione che ne ha fatto Mingardi? Da un lato, perché queste 
lettere contengono le prime riflessioni di scienza politica di uno dei 
padri della teoria delle élite. In queste pagine Pareto fa riferimento a
 concetti che non erano certo comuni in quegli anni, come «classe 
dirigente» e «classe che regge il potere» e adopera costantemente un 
metodo comparativo. Dall’altro lato, perché le critiche di Pareto alla 
«borghesia funzionariale», all’«ignoranza del popolo» (dal quale fa 
dipendere «quasi tutti i mali della società»), allo statalismo crispino,
 al carattere illiberale dello Stato crispino, permettono di capire i 
motivi per cui il fascismo, trent’anni dopo, potette utilizzare tante 
istituzioni dell’Italia postunitaria, piegandole a sé e valendosi dei 
suoi funzionari. Gli anni 1901 – 1910, nei quali, secondo la 
ricostruzione crociana «si attua l’idea di un governo liberale», non 
furono sufficienti per mutare la natura dello Stato nato 
dall’unificazione. E la recente poderosa ricostruzione di Guido Melis 
(La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il 
Mulino) sta lì a dimostrare la disperata conclusione con la quale 
termina il saggio introduttivo di Mingardi sulla «corruzione e 
cialtroneria» come tratti costanti della classe dirigente italiana.
Vilfredo
 Pareto, L’ignoranza e il malgoverno. Lettere a “Liberty” , a cura di 
Alberto Mingardi, Liberilibri, Macerata, pagg. 112, € 17
 
