il manifesto 5.5.18
I destini incrociati di Karl Marx
Bicentenari.
La lunga stagione di una indagine teorica e di un pensiero che ha
voluto essere rivoluzionario. La locuzione ricorrente secondo cui «Il
capitale» sarebbe stato la «Bibbia» del movimento operaio è falsa e
vera. Niente era più estraneo agli intendimenti del filosofo di Treviri
di Paolo Favilli
L’8
maggio 1968, in occasione del centocinquantenario della nascita di
Marx, Raymonde Aron, sociologo liberale e critico di Marx (soprattutto
dei marxismi), nell’ambito della propria relazione al grande convegno
parigino organizzato dall’Unesco, mise in evidenza «il contrasto tra le
dure condizioni nelle quali visse l’esule a Londra, e il quadro
grandioso e ufficiale in cui professori togati, venuti da tutte le
università del mondo, si propone di intrattenere un dialogo cortese,
dopo aver ricevuto la consegna di attenersi al contributo scientifico di
Marx e di dimenticare il rivoluzionario – ma con l’intenzione (…) di
non rispettare affatto questa consegna».
IN EFFETTI LO SCENARIO
delle celebrazioni era davvero imponente: non solo per il numero e la
qualità dei professori intervenuti, ma anche di quelle che René Maheu,
direttore dell’Unesco, appellava come «Eccellenze», capi politici e di
istituzioni statali, tutti uniti per onorare colui che aveva, sempre
parole di Maheu, «profondamente modificato il rapporto tra realtà e
pensiero».
Le celebrazioni del bicentenario sono ben lungi
dall’avere quel carattere di grandiosità e ufficialità. Sono in corso,
ovviamente, convegni di studio, seminari, pubblicazioni ecc., ma in un
contesto assolutamente diverso rispetto, a quello dell’8 maggio 1968.
Tra l’altro il clima del 1968 non fu per niente determinante su un
evento che proprio per il suo gigantismo aveva avuto una lunga e
precedente preparazione.
Nel nostro contesto odierno forse Marx è
meno «attuale», rispetto a quello degli anni Sessanta del Novecento? Se
l’attualità consiste nella capacità di spiegazione dei meccanismi
profondi caratterizzanti le fasi di accumulazioni in atto, ebbene le
categorie marxiane sono certamente più attuali oggi che nell’«età
dell’oro».
LE TENDENZE GENERALI dell’accumulazione che avvengono
in una fase in cui il modo di produzione capitalistico può svilupparsi
senza antitesi, come nei nostri tempi, sono in particolare consonanza
con la costruzione analitica de Il capitale. Una consonanza senz’altro
molto minore le stesse categorie l’avevano rispetto alle possibilità
esplicative del capitalismo civilizzato (in Occidente) durante i «trenta
gloriosi». Eppure in questo nostro tempo un’iniziativa dell’Unesco come
quella di cinquant’anni fa appare del tutto impensabile.
Proviamo
a ragionare sull’apparente paradosso di un complesso teorico assai poco
operativamente diffuso in un contesto assai favorevole per le sue
possibilità euristiche, ed invece particolarmente pervasivo in età in
cui pareva esser contraddittorio con le magnifiche sorti e progressive
di un neocapitalismo sempre più democratico.
La distinzione tra
«marxiano» e «marxista», la continua ripetizione della nota frase di
Marx: «Io non sono marxista», hanno una storia molto lunga e sono ormai
luoghi comuni, ma dal punto di vista dell’indagine teorica hanno anche
ragioni determinanti per essere utilizzate nell’indagine critica interna
all’opera del pensatore di Treviri.
L’ESAME TESTUALE di tale
opera dimostra con chiarezza che egli non si sentì mai fondatore e capo
di un qualche «marxismo». «Sistemi» e «ismi» erano contraddittori con il
carattere critico-demistificante del suo metodo di lavoro. Al
professore tedesco di economia Adolph Wagner, che aveva scritto a
proposito del «sistema socialista» (sozialistisches System) di Marx,
rispose seccamente ch’egli non aveva mai costruito un «sistema
socialista» e che quelle di Wagner erano solo «fantasie». Inoltre non è
certo un caso che ne Il capitale non compaia mai il termine
«capitalismo».
Nello stesso tempo, però, egli ha sempre
considerato il suo lavoro «scientifico» come momento imprescindibile di
un programma di organizzazione pratico-intellettuale. Nel periodo in cui
si trovò di fatto ad essere il punto di riferimento principale
dell’Internazionale combatté» tutte le «sette», fossero «socialiste»,
«marxiste» o altro. Ma contemporaneamente i documenti che definivano i
caratteri dell’Internazionale erano tutti orientati dalle sue categorie
di pensiero. E tutta la sua opera-capolavoro, rigorosamente scientifica,
era concepita, lo disse esplicitamente, anche come «il missile più
terribile che sia stato ancora scagliato contro i capi della borghesia
(proprietari terrieri inclusi)».
Nella tensione tra questi due
poli, quello della scienza e quello del ruolo della scienza per
l’emancipazione dei subalterni, si definisce un campo di destini
incrociati. Non perché il secondo sia la verifica del primo, ma perché
comunque è un indicatore delle forme della sua fortuna. Anche se tali
forme non derivano dalla scienza, ne condizionano l’immagine
politico-culturale esterna alla ristretta cerchia degli specialisti, e
qualche volta anche all’interno di quella che viene chiamata «comunità
scientifica».
LA LOCUZIONE RICORRENTE nella pubblicistica secondo
la quale Il capitale sarebbe stata la «Bibbia» del movimento operaio e
socialista, è, insieme, falsa e vera. Falsa nel marxismo secondo testi e
filologia testuale. Niente era più estraneo agli intendimenti di Marx, e
soprattutto alla sua metodologia scientifica, della logica del libro
sacro. Vera, in parte non marginale, nei processi reali di un movimento
che aveva bisogno della conferma «scientifica» per la garanzia, «in
ultima istanza», del proprio «giusto» operare nella storia. Alla fine
dell’Ottocento, al momento cioè dell’incontro tra categorie marxiane e
movimento operaio, poteva succedere che la pubblicistica operaia
costruisse teorie «marxiste» del salario del tutto contraddittorie con
quelle «marxiane». Eppure si trattava di un momento di crescita e di
consapevolezza di sé dell’organizzazione.
Dall’ultimo quarto del
XIX secolo a gran parte del XX il «marxismo» assume forme strutturate.
Prima in organizzazioni di resistenza e partiti politici, poi
addirittura in «Stati marxisti». Vere e proprie potenze insomma, senza
le quali non sarebbe spiegabile il gigantismo del convegno Unesco del
1968.
STRUTTURATO o non strutturato il marxismo fuori dai testi di
Marx rimane un momento imprescindibile per un pensiero che ha voluto
essere rivoluzionario. Il fatto è che al Capitale resta stretta la
definizione di «classico». Nel 1981 Italo Calvino si esercitò a definire
un classico in 14 proposizioni. Il capitale può rientrare in tutte le
definizioni, ma solo parzialmente, perché tutte quante presuppongono
un’atmosfera pacificata nello svolgimento della lettura e della
riflessione del testo. Quel testo, invece, rimane, e rimarrà per tutta
l’età caratterizzata dal modo di produzione capitalistico, il «missile
terribile» evocato da Marx.
Il marxismo «potenza», il «marxismo
politico» è scomparso alla fine del Novecento, e senza tale dimensione
anche la filologia marxiana rischia di diventare solo un affare
analitico per professori. I modi in cui alla fine dell’Ottocento avvenne
l’incontro del movimento operaio con le varie «forme» marxismo sono
oggi irripetibili. Tra le molte e rilevanti differenze di contesto, su
una dobbiamo appuntare in particolare la nostra attenzione: allora
furono più il movimento, le organizzazioni di resistenza, ad andare
verso la teoria che l’inverso. Nel momento attuale è al «marxismo
politico» che sembra spettare l’onere di una ricomposizione.
Naturalmente in forme diverse, in forme nuove.
LA CATEGORIA DEL
«NUOVO» è cosa seria, ma nel dibattito politico, e non solo, viene
utilizzata alla maniera su cui ha ironizzato il grande storico economico
Ruggiero Romano: il nuovo non tanto come veramente nuovo, bensì come
«novello» al pari del beaujolais (o del chianti). Certamente non ci si
avvicina ai corrieri in bici di Foodora tramite citazioni di Marx. Se
però si riflette bene sui capitoli relativi alla giornata lavorativa del
I libro de Il capitale, si possono cogliere le ragioni di fondo, nella
logica dell’accumulazione nel nostro tempo, della necessità di tali
rapporti di lavoro. E su tale base, magari, elaborare categorie
politiche «nuove» davvero.
In tale prospettiva alla nostra
cultura, alla nostra politica, non basta, parafrasando Croce, rifugiarsi
nella generica formulazione del «non possiamo non definirci marxisti».
Bisogna entrare direttamente nel merito di nuove forme di «marxismo
politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali,
ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica
dell’economia politica.