il manifesto 30.5.18
1968
«Un nuovo soggetto politico tra le strade di Parigi»
Sessantotto. «Considerazioni sui fatti di maggio» di Lucio Magri e «L’anno degli studenti» di Rossana Rossanda. La manifestolibri ripubblica i due testi cinquant'anni dopo la loro prima apparizione
di Aldo Garzia
È a Parigi, in pieno ’68, che ha cominciato a prendere forma l’idea di dar vita a una rivista come luogo in cui raccogliere la riflessione della sinistra critica interna ed esterna al Pci. Un anno dopo, nel giugno 1969, quella rivista mensile sarebbe uscita in edicola con la testata il manifesto, esplicito riferimento al «Manifesto dei comunisti» di Marx ed Engels del 1848, andando incontro alla radiazione dal partito dei suoi promotori. Ma era da qualche tempo che nel Pci si era sviluppato un confronto inedito sui temi del neocapitalismo italiano e di un conseguente rinnovamento strategico che trovò nell’XI Congresso del 1966 il momento di più aspro confronto (furono le assisi in cui Pietro Ingrao pose il tema del superamento del centralismo democratico come metodo di vita interna e di un nuovo modello di sviluppo).
È QUESTA LA PRIMA riflessione che viene in mente rileggendo i due libri meritoriamente rieditati dalla manifestolibri cinquant’anni dopo della prima edizione della De Donato: Lucio Magri, Considerazioni sui fatti di maggio (pp. 176, euro 16); Rossana Rossanda, L’anno degli studenti (pp, 96, euro 12). Magri, allora giovane funzionario di Botteghe oscure, e Rossanda – in quel periodo deputata del Pci dopo aver diretto la Sezione culturale del partito – andarono insieme a Parigi nel 1968 per capire quello di nuovo che animava il maggio.
La lettura non ha perso di attualità. Si tratta infatti di due testi che, con uno stile a metà tra saggio e puntigliosa cronaca giornalistica, ricostruiscono gli eventi di quell’anno indimenticabile in Francia e in Italia con chiavi interpretative e di approfondimento. Scrive Magri, di cui si scorge l’influenza della Scuola di Francoforte di Marcuse e Adorno a rapporto con il marxismo più classico: «La forma di dogmatismo più diffuso è quella che usa una grande apertura metodologica e squillanti riconoscimenti delle novità della situazione solo per conservare l’essenziale delle proprie idee».
PER LUI, I FATTI a cui ha assistito impongono invece nuovi approcci e scelte non di routine. Rossanda – che analizza il ’68 italiano nelle università di Trento, Pisa, Torino, Venezia – socializza una convinzione: «Gli studenti non sono un soggetto a parte, con i quali solidarizzare, o da respingere, o semplicemente da comprendere; sono un aspetto del capitalismo maturo che esplode e domanda sbocco». Nella sua originale analisi del movimento italiano riecheggiano le lezioni non ortodosse di Louis Althusser e Jean-Paul Sartre.
Sta qui una prima convergenza politica e d’analisi tra Magri e Rossanda che avevano raggiunto una proficua e intensa collaborazione intellettuale destinata a durare per molti anni con reciproco arricchimento (i due libri s’intrecciano per questioni e domande). Per loro, il movimento degli studenti prodotto della scolarizzazione di massa è un soggetto politico nuovo che esprime una propria critica alla società capitalistica: bisogna indagarne dunque cultura e potenzialità, oltre alle forme di autorganizzazione (i due libri avviano tale ricerca in modo parallelo e intrecciato, perciò vanno letti in continuità).
È LA NUOVA stratificazione delle società mature inoltre che produce inespresse soggettività sociali, come dimostreranno l’intero ciclo sessantottino e gli anni successivi. Si presenta perciò anchilosata – secondo Magri e Rossanda – la lettura tradizionale della politica delle alleanze che viene dalla tradizione del Pci: operai e contadini più vaghe classi medie o indistinto ceto medio. Riprendendo la lezione di Antonio Gramsci, in Occidente il processo rivoluzionario di trasformazione sociale si conferma per Magri e Rossanda, proprio alla luce del ’68, complesso, di lunga durata, con la continua conquista di «case matte» che fanno crescere livelli di politicizzazione di massa.
A COLPIRE Magri e Rossanda è anche la diffidenza e la chiusura con cui il Partito comunista francese guarda agli avvenimenti del maggio, atteggiamento meno ostile seppure molto prudente avrà il Pci (da non dimenticare l’incontro nella sede di via delle Botteghe oscure tra il segretario Luigi Longo e alcuni esponenti del movimento tra cui Oreste Scalzone). I due autori traggono infine un’altra conclusione dalla loro ricerca: sembra non reggere più la tesi secondo cui il ruolo del Pci debba favorire lo sviluppo di un capitalismo italiano che resta arretrato senza criticarne indirizzi. Modi di produzione e valori. Su questo si era già avviata una discussione nel convegno del 1962 su «Le tendenze del capitalismo italiano» dell’Istituto Gramsci, dove Giorgio Amendola, Bruno Trentin e Lucio Magri avevano animato un dibattito non convergente negli approcci e nelle conclusioni.
IL TESTO DI MAGRI è prefato da un saggio di Filippo Maone, che aveva accompagnato lui e Rossanda nel viaggio parigino. Ci vengono dunque consegnati da Maone particolari umani e politici che hanno fatto da contorno a quella missione politica di cinquant’anni fa, oltre a ulteriori spunti di riflessione politica.
Quanto alla tesi che l’idea del mensile il manifesto nacque in Francia nel ’68, scrive a proposito Maone: «Quelle due settimane e mezza trascorse a Parigi accelerarono la scelta, già da qualche mese in maturazione, nella mente di Lucio e Rossana, di dare vita a una rivista». Al progetto si unirono Aldo Natoli, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Massimo Caprara, lo stesso Maone e molti altri.
Il testo di Rossanda è prefato invece da Luciana Castellina che mette in evidenza l’intuizione del fenomeno sessantottino da parte del futuro gruppo del manifesto: «Era una crisi della modernità capitalistica, non dell’arretratezza».
il manifesto 30.5.18
La speranza di Bauman in un altro mondo
Saggi. «Socialismo utopia attiva», un saggio del sociologo polacco scritto nel 1976 e finalmente tradotto da Castelvecchi
di Piero Bevilacqua
Ciò che innanzi tutto stupisce il lettore un po’ informato sulla vita di Zygmunt Bauman, nel leggere questo Socialismo utopia attiva, tradotto ora per la prima volta in Italia (Castelvecchi, pp.181, euro 17.50 ), è l’intatta passione ideale che l’ispira. L’autore, ebreo polacco, scrisse questo testo nel 1976, quando ormai viveva da 5 anni nel Regno Unito, dopo aver perso la cattedra all’Università di Varsavia. Di formazione marxista e politicamente attivo sin dalla giovinezza, egli aveva sperimentato sulla propria vita le durezze del regime comunista polacco.
E tuttavia, nulla della propria scomoda vicenda biografica – come accade solo ai grandi pensatori – fa ombra al nitore della riflessione teorica sulla necessità dell’utopia socialista. D’altra parte egli possiede tutti gli strumenti, sia teorici che storici, per comprendere i limiti giganteschi entro cui dovette muoversi la Rivoluzione d’Ottobre, e che il socialismo realizzato del suo paese e del blocco sovietico dovette pesantemente scontare. «Marx – ricorda Bauman – non credeva che il socialismo sarebbe arrivato prima che il capitalismo avesse “esaurito” il proprio potenziale creativo e riteneva che questo potenziale bastasse a elevare le forze produttive a livello dell’abbondanza.In questo senso, il socialismo può essere collocato direttamente nell’ambito politico e culturale dell’organizzazione sociale. Diventerà infatti possibile solo dopo che il capitalismo, alla sua maniera brutale e spietata, avrà liberato la società dalla scarsità economica e, di conseguenza, dall’asservimento alla Natura e alla necessità».
IL PRIMO ESPERIMENTO di rivoluzione marxiana della storia, condotto in un paese arretrato come la Russia, dovette tuttavia cercare strade non previste da Marx. Lenin e i suoi compagni dovettero far leva, per i propri scopi insurrezionali e per l’edificazione di una nuova organizzazione sociale, su una massa sterminata di contadini. Quei contadini, piccoli proprietari terrieri, la cui sparizione sociale era, nella previsione teorica di Marx, condizione del passaggio al socialismo.
BAUMAN SEGUE molto sinteticamente in un capitolo apposito, e a un livello teorico-culturale, il modo in cui il socialismo si afferma in Russia e nei paesi satelliti. E non manca di pervenire a una valutazione d’insieme, storica e attuale, sull’ Urss del suo tempo, di aperta disillusione: «Invece di aprire le finestre della storia su distese incredibilmente vaste di libertà umana, il socialismo sovietico non è riuscito nemmeno a conseguire la forma limitata e incompleta di libertà personale che la formula liberale della cultura capitalistica garantisce. Anche al più ben disposto, pronto a minimizzare i campi di lavoro e le cacce alle streghe come incidenti occasionali e atipici, la libertà presente nella vita quotidiana sovietica deve apparire misera e penosa».
E TUTTAVIA, proprio questa amara, profonda consapevolezza dei limiti e degli errori, anche tragici, di quella esperienza, fornisce oggi alle sue riflessioni sulle ragioni dell’utopia e del socialismo una freschezza sorprendente. Parlano un linguaggio di speranza e di liberazione in un mondo sprofondato nella confusione. Sarebbe più giusto dire un mondo in cui gli «invisibili vessatori» – espressione di un Bauman più recente – alzano cortine fumogene per confondere le tracce delle loro scorrerie e del loro dominio. La confusione sotto il cielo è creata ad arte da chi vuol nascondere la frattura profonda fra chi domina e chi è dominato.
Il sociologo polacco smonta l’uso negativo, tanto colto che banale, del termine immesso nella cultura dell’Occidente da Tommaso Moro. Utopia diventa il lemma per designare, col senno di poi, l’impresa troppo ardita e non riuscita, il progetto fallito, insomma l’aspirazione impossibile. Al contrario, essa alimenta, l’immaginazione del sociale possibile, oltre le condizioni del presente, infrange il dominio apparentemente schiacciante dell’ordine costituito. E oggi, aggiungiamo noi, consente di liberarsi dall’utopia negativa, dall’ideologia camuffata del «non c’è alternativa», di rompere le gabbie di un ordine sociale preteso immodificabile in quanto «naturale», l’unico possibile.
L’UTOPIA è dunque l’orizzonte che muove gli uomini, perché in grado di far sentire la propria vita sociale come progetto, proiezione creativa verso un possibile mondo migliore. In una società in cui il «futuro» delle ciance politiche e pubblicitarie ( hanno talora la stessa menzognera semantica) è affidato all’uscita sul mercato dell’ultimo modello di smartphone, il ritorno dell’utopia socialista costituisce un antidoto culturale e politico di prima grandezza. Si tratta, d’altra parte, di un aspetto ineliminabile della storia umana. Lasciamolo dire a Bauman: «Credo che non si possa comprendere realmente la vita sociale se non si presta la dovuta attenzione al ruolo fondamentale giocato dall’utopia. Le utopie si pongono, rispetto alla totalità della cultura – per parafrasare Santayana – come un coltello con la lama rivolta contro il futuro. Esse provocano costantemente la reazione del futuro sul presente producendo così la nota miscela nota come storia dell’umanità».
il manifesto 30.5.18
Toccato il fondo, c’è chi si è messo a scavare
Pensavamo di avere toccato il fondo con il disastroso esito elettorale del 4 marzo. Quindi magari di potere godere di qualche vantaggio dall’effetto rinculo. Invece no
di Alfonso Gianni
Pensavamo di avere toccato il fondo con il disastroso esito elettorale del 4 marzo. Quindi magari di potere godere di qualche vantaggio dall’effetto rinculo. Invece no. In diversi si sono messi a scavare. Ora ci si trova in fondo ad una crisi istituzionale dalle dimensioni e natura inedite con l’aggravante di una destra arrembante che annusa il profumo inebriante di una vittoria di proporzioni fino a poco fa imprevedibili. Ciò che non è accaduto in Francia, la vittoria del lepenismo, potrebbe accadere in Italia. Non a caso gli editorialisti de la Repubblica lamentano l’assenza di un Macron italiano in grado di evitare un simile esito.
Certo non possono contare, e da tempo, su un Renzi che alterna pop corn con proclami «antisfascisti», pallida caricatura di un radicale d’antan. A tutto ciò si è giunti con un precipitare di ora in ora, tra palesi furbizie e clamorose insipienze. La terza pessima legge elettorale ha offerto il contrario della governabilità. Chi l’ha propugnata e difesa ne porta tutta la responsabilità. Al posto del governo subito c’è la crisi profonda degli equilibri tra i poteri istituzionali previsti dalla Costituzione. Il sistema delle coalizioni senza programma, più simili a container che ad alleanze politiche, hanno facilitato lo scomporsi delle aggregazioni elettorali come non mai. Da qui, dopo un poco di melina e la più che prevedibile paralisi del Pd che avrebbe pagato con ulteriori fratture qualunque mossa, si è giunti ad un «contratto» di governo, espressione che già rivela la concezione privatistica di rapporti politici e istituzionali, fra Lega e M5Stelle.
I QUALI HANNO calpestato con disinvoltura tutti gli articoli costituzionali che regolano le modalità della nascita di un nuovo governo, presentando a Mattarella un pacchetto preconfezionato di «contratto», premier e ministri. Che non potesse essere accettato in quanto tale tutti lo sapevano. Che il capo dello Stato si incartasse in un diniego rispetto all’incarico di Savona a ministro dell’economia, era assai meno prevedibile. Ma è appunto questo che ha fatto da detonatore. Già si è ben detto sui limiti intrinseci alla moral suasion che un Presidente della Repubblica può esercitare avvalendosi del suo potere di nomina dei ministri. Non solo sono stati ampiamente superati ma le motivazioni fornite hanno inchiodato lo scontro politico tra no-euro ed entusiasti di Maastricht. Il terreno più fertile per fare crescere il nazionalismo populista. Tanto più che mass media, euroburocrati ed esponenti politici europei hanno gettato benzina sul fuoco con dichiarazioni sprezzanti e padronali, ultime quelle di ieri del commissario europeo al Bilancio, Hoettinger.
Eppure sia la Lega che il M5S avevano di molto attenuato il loro antieuropeismo. Per la prima in particolare il tema principe era ed è l’immigrazione e la sicurezza, come conferma uno spavaldo Salvini in queste ore. E persino Orfini si è accorto che le politiche e le parole di Minniti hanno portato acqua al mulino leghista. Nel «contratto» non compare l’uscita dall’euro e naturalmente neppure il piano B, che se ci fosse mai verrebbe reso noto prima di essere applicato per ovvi motivi.
È VERO, IL GIORNALE della Confindustria ha alimentato in tutta la campagna elettorale la tesi dello scontro fra le due Europe, quella di Maastricht (che loro chiamano di Ventotene) e quella di Visegrad. Ma i mercati se ne erano stati tranquilli, e lo spread è cominciato a salire a balzelloni, così come i rendimenti dei nostri titoli anche a breve, e le borse a scendere dopo la liquidazione della candidatura di Savona, non prima. La scelta di Cottarelli, l’uomo della fallimentare spending review, incarnazione ambulante del rigorismo più ostinato, a lungo direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale per Italia, Albania, Grecia, Malta, Portogallo, chiude il cerchio e dà il senso dell’operazione condotta da Mattarella. Ma non è detto che neppure questa fili liscia, visto che il primo incontro fra i due non ha ancora partorito alcunché e che si parla con insistenza in queste ore di elezioni in piena estate. Da queste ne guadagnerebbe solo la destra estrema. I sondaggi indicano una flessione del M5stelle e un balzo addirittura di dieci punti di Salvini. Il quale può ben lasciare ai primi la richiesta di messa in stato d’accusa del Presidente della repubblica per cui non esistono peraltro presupposti costituzionali né tempi attuativi.
MENTRE IL REGGENTE del Pd dichiara l’astensione di fronte al governo Cottarelli, c’è chi, nelle file del Mdp pensa (e speriamo abbia smesso) addirittura di fare peggio, votando a favore. Quel voto potrà anche avere un esito scontato, ma assume un senso politico discriminante. Si tratta di uscire dalla tenaglia dell’europeismo «angelicato» (nel senso di Anggela Merkel) e quella del ritorno allo stato nazione; di non confondere l’antifascismo con gli ammonimenti dei mercati finanziari; di mettere in campo concretamente una posizione che si è sentita troppo poco e flebilmente nell’ultima campagna elettorale. Come vaso di coccio tra vasi di ferro. Se la sinistra vorrà esserci, anche in caso di elezioni più che imminenti, dovrà trovare una dimensione unitaria attorno ad un programma che per quanto essenziale eviti di venire schiacciato in uno scontro che appartiene sì alla crisi del neoliberismo, ma non certo alla sua sconfitta.
il manifesto 30.5.18
Il vicolo cieco
di Norma Rangeri
Il Quirinale come la fossa delle Marianne. Chiunque si avventuri nella formazione di un governo rischia di scomparire. Cottarelli, l’uomo del Fondo, annaspa alla ricerca di generosi tecnici o politici in pensione purché disposti a fare la parte ingrata di chi sale sul palcoscenico per recitare una battuta tra i fischi della platea per poi tornarsene ai propri uffici spernacchiato e senza neanche la ricompensa di una candidatura alle elezioni.
Il presidente incaricato, con il suo troller ieri è tonato da Mattarella, non per consegnare la lista dei ministri ma per chiedere qualche ora supplementare per riuscire nell’impresa di completare l’elenco. La confusione è giunta al punto da rendere credibili anche le voci di una riesumazione in extremis dell’ex incaricato Conte.
Le voci, poi smentite, di una possibile rinuncia all’incarico hanno accelerato la corsa verso il big-bang elettorale tra fine luglio e i primi di agosto, per poi tornare in agenda alla casella di metà settembre. Del resto prima si apriranno le urne e prima si metteranno al riparo «i mutui degli italiani», come direbbe il presidente Mattarella. Anche perché evidentemente non era il professor Savona l’obiettivo del partito dei falchi tedeschi, dal quale continuano ad arrivare bastonate come quella del commissario al bilancio dell’eurozona, Oettinger («i mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto»). Con le agenzie di rating che danno una mano preparando l’artiglieria del declassamento del nostro debito mentre lo spread suona la tromba dell’escalation. È già successo e per di più oggi, a differenza del 2011, stiamo per infilarci in una campagna elettorale che, si voti a luglio o a metà settembre, provocherà un quarantotto, diverso e più forte del terremoto del 4 di marzo.
Tutte le principali forze politiche chiedono di andare al voto rapidamente, senza protrarre lo sfinimento di un governo votato da nessuno, neppure dal Pd. Il momento di estrema debolezza, politica e istituzionale, ci rende vulnerabili e esposti a tutti i venti, con i titoli bancari che sprofondano. Situazione ben presente al governatore di Bankitalia in prima linea sul fronte del credito, preoccupato per la «delicatezza e straordinarietà del momento».
C’è chi il voto lo vorrebbe già domani e chi è costretto a fare buon viso. Come il Pd che tenta di rimettere insieme i pezzi del centrosinistra irridendo al ruolo di LeU. Qualcosa si muove, invece, in casa grillina. Il M5S ascolta i consigli di Grillo, mette la sordina all’impeachment, e accoglie l’invito alla moderazione, a non esasperare i toni perché «l’intervento dell’establishment fa parte del gioco». Tanta improvvisa moderazione arriva al punto che Di Maio torna a chiedere l’aiuto di Mattarella per resuscitare il governo giallo-verde. L’esercito del 32% si muove su un terreno accidentato, complicato dal fatto che Salvini è l’unico ad avere due forni caldi e la spinta dei sondaggi. Il regalo di evitargli la prova del governo, avergli dato la patente di grande nemico dell’austerità tedesca lo ha messo ancora più al centro della scena nella parte della vittima dei cosiddetti poteri forti.
Altro che un’arma in più nelle mani della destra, qui, purtroppo, gli stiamo offrendo un arsenale.
Repubblica 30.5.18
I filosofi
Remo Bodei
Pensare e scegliere Che cosa succede se la mente abdica
Chi controllerà l’intelligenza artificiale, dice Putin, conquisterà il mondo
Secondo una ricerca in futuro oltre 800 lavori “umani” saranno soppiantati dalle macchine
di Laura Montanari
Bodei: come cambia la coscienza destituita del potere di decidere Ferraris: Ma vogliamo davvero difenderci dalla mobilitazione totale?
Ci sarà ancora bisogno di noi?
Nelle fabbriche e più in generale nel lavoro, resteremo una risorsa, noi umani con le nostre piccole imperfezioni? Continueranno a essere utili le nostre mani? Ci dovremo rassegnare a dialogare con le macchine anche nella pausa pranzo?
Nella gabbia di queste domande davanti a società industrializzate che declinano il futuro in direzione dei robot e dell’intelligenza artificiale, il dibattito è aperto e l’ansia in crescita. Il mondo del lavoro ha sempre vissuto di rivoluzioni e cambiamenti. Ma adesso lo scenario è diverso: per secoli abbiamo creato macchine che erano nostre braccia, mai macchine che fossero anche il nostro cervello. «Nel mondo antico le macchine erano un giocattolo, qualcosa che generava stupore, con Galileo Galilei assumono invece un aspetto razionale, ma la svolta è con Leibniz perché per la prima volta nelle calcolatrici il pensiero umano diventa cieco, senza immagine. Un quadrato lo posso immaginare; un chiliagono, figura con mille lati, non riesco a immaginarmelo», racconta Remo Bodei, professore emerito di filosofia all’università di Pisa ed esperto di memoria e di identità nel tempo moderno. Bodei terrà una conferenza (2 giugno, sala Filarmonica ore 11) su “Quando il logos si fa macchina”, ovvero “Cosa succede alla coscienza degli individui quando facoltà umane essenziali come l’intelligenza e la decisione si trasferiscono alle macchine?”.
«Putin ha detto che chi possiederà l’intelligenza artificiale conquisterà il mondo», riprende Bodei.
«Infatti assistiamo a una corsa alla ricerca in questo campo. La grande differenza rispetto al passato è che gli uomini non sembrano più i soli depositari dell’intelligenza e della volontà, però questo non deve portare a una gigantomachia uomo-macchina per cui da un lato si ha il vittimismo di chi pensa che le macchine prenderanno il sopravvento, dall’altro quelli che pensano che le nuove macchine ci permetteranno di governare di più il mondo».
E il singolo lavoratore che ruolo avrà in questo sviluppo della tecnologia? Sarà soltanto un controllore? Di certo alcune mansioni sono esposte al rischio di estinzione, i traduttori per esempio, i conducenti di auto in un futuro prossimo, se arriveranno vetture con la guida automatica. Ci sono già robot in grado di sfornare 400 hamburger all’ora e macchine-polipo con otto tentacoli in grado di raccogliere rapidamente la frutta dagli alberi o i pomodori sulle piante.
«Secondo alcuni studi», continua Remo Bodei, «il 47 per cento dei nostri mestieri sarà sostituito. Una società americana di ricerca calcolava in oltre 800 i lavori “umani” che scompariranno perché soppiantati dalle macchine. Ma altri si affacceranno. Il problema consisterà nel vedere come sarà il saldo e prepararsi a una fase in cui i lavori vecchi spariranno e non verranno immediatamente sostituiti dai nuovi». Secondo uno studio del McKinsey Global Institute scomparirà, perché totalmente robotizzato, il 5 per cento degli attuali lavori.
Insomma prepariamoci ai cambiamenti. A certi siamo già allenati, per esempio gli smartphone, il web e la posta elettronica ci rendono di fatto sempre raggiungibili estendendo in qualche modo la nostra reperibilità sul lavoro. Di questo tema parlerà al Festival (3 giugno, sala Filarmonica , ore 11) Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica all’università di Torino con un intervento su “Tempo di lavoro, tempo di vita”. Viviamo nell’epoca della mobilitazione totale dove si annulla la distinzione tra tempo libero e tempo dedicato al lavoro: ci possiamo difendere?
«La vera domanda», spiega Ferraris, «è: vogliamo difenderci? Insieme ai telefonini sono cambiati i lavori. Un funzionario o un impiegato di vecchio stile difficilmente ci risponderà la sera o durante il weekend, ma quanti ne restano ancora? Gli altri sono soggetti alla mobilitazione totale e ovviamente se ne lamentano, come prima si lamentavano della noia della vita d’ufficio o della catena di montaggio, ma sono sicuro che non vorrebbero tornarci». La rintracciabilità significa che oggi con le tecnologie il lavoratore è più controllabile, anzi è teoricamente sempre controllabile. Basta un cellulare o un qualsiasi altro dispositivo Gps e da remoto si possono “vedere” gli spostamenti e altri parametri che vanno dall’efficienza, all’affidabilità. E questo controllo non è nemmeno un’esclusiva dei lavoratori: «In rete niente è gratis», dice Remo Bodei riferendosi al fatto che anche quando navighiamo in apparenza gratuitamente, stiamo pagando qualcuno. Chi?
Chi acquisisce con il nostro permesso i dati della navigazione e scopre per esempio cosa compriamo al supermercato quando diamo al cassiere una carta fedeltà, a quali pubblicità siamo sensibili e a quali no, come viaggiamo, quando viaggiamo, cosa in generale compriamo o quando ci fermiamo e non compriamo affatto. Ma tutto questo non è ineluttabile, possiamo ancora chiedere di prendere posto noi al volante della macchina anche se avrebbe un prezzo frenare tutto questo. Resta una domanda: è il mondo che vogliamo?
Repubblica 30.5.18
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi — anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere — sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare — interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita — ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti- parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
Repubblica 30.5.18
Le trattative per il governo
La tragedia greca
di Massimo Giannini
L’impensabile è infine accaduto. Nel giorno in cui fatica a nascere persino il governo balneare da ultima spiaggia di Cottarelli, l’Italia consuma il primo atto della sua tragedia greca. In poco più di dieci giorni, le follie sovraniste di Salvini e Di Maio ci sono costate 200 miliardi, tra lo spread oltre quota 300 e la Borsa che annulla i guadagni di sei mesi. Gli eroi del bi-populismo gialloverde sono dunque riusciti nel miracolo al contrario: portare sul Paese una cappa da default. È sfuggito loro Palazzo Chigi, per ora. Ma non lo scalpo dei risparmiatori.
Lasciamo pure stare editoriali corrivi e vignette indecenti della stampa tedesca, infarciti di cliché provinciali da Oktoberfest in Baviera. Paradossalmente, sono i migliori alleati del pentaleghismo tricolore che sta trascinando il Paese nel baratro, insieme agli avvoltoi populisti alla Steve Bannon e ai falchi rigoristi alla Gunther Oettinger, il volonteroso carnefice delle opinioni pubbliche europee convinto che la pedagogia dei mercati possa educare e infine domare la “bestia populista”.
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Purtroppo è vero l’opposto: più un burocrate evoca lo spread come “ angelo sterminatore”, più la bestia ruggisce, divora, ingrassa.
Basta parlare con un operatore di Londra, o leggere New York Times o Financial Times, per capire che da “laboratorio politico” siamo in realtà diventati la Mina Vagante d’Europa. E se persino il governo di Atene si preoccupa per la situazione italiana, abbiamo la misura di questo maleficio. Di Maio e Salvini ne sono gli artefici tragici. Con un mix di cinismo e dilettantismo, i “diarchi” di questa ennesima notte della Repubblica hanno giocato sulla pelle degli italiani la partita del governo. Di Maio per raggiungerlo a ogni costo, Salvini per fuggirne a qualsiasi prezzo.
Il risultato è lo stesso. Paghiamo noi. Paghiamo le contraddizioni di due leader che considerano un colpo di Stato l’ennesimo esecutivo “ non eletto”, dopo che una settimana fa loro stessi avevano indicato a Palazzo Chigi il mai-eletto avvocato Conte, consacrato dal nulla, e per contratto, anonimo “ ombudsman” degli italiani. Contestano “ l’abusivo” Cottarelli, dopo che tre mesi fa gli avevano offerto fior di ministeri, mutuandone « l’eccellente piano sulla spending review » . Annunciano la richiesta di impeachment di Mattarella, citando a vanvera Mortati e poi rimangiandosi tutto, tardivamente ma colpevolmente consci del fatto che il capo dello Stato ha semplicemente esercitato le sue prerogative costituzionali.
Paghiamo le bugie di due tribuni che hanno usato l’Italexit come feticcio e Paolo Savona come fantoccio. Se oggi Roma somiglia ad Atene non è per volontà dei soliti “poteri forti” che si oppongono al “ governo del cambiamento”, ma per gli atti e i misfatti di chi lo voleva rappresentare. Due settimane fa Huffington Post rendeva nota la prima bozza del “ contratto di governo”, che prevedeva « l’opt- out » dalla moneta unica, l’abbuono Bce da 250 miliardi di titoli sovrani, il ripensamento della « governance economica europea ( patto di stabilità e crescita, fiscal compact)». La bozza finale e solo parzialmente corretta (dal reddito di cittadinanza alla “dual tax”) prevede interventi per 128 miliardi, coperti per appena 600 milioni, e per il resto finanziati da un «ricorso al deficit». Prevede l’introduzione dei mini-Bot come “moneta parallela” e la riscrittura unilaterale delle direttive bancarie su bail in e Basilea III. Quel testo è una miccia euro- scettica innescata nel cuore del sistema. Alimenta i peggiori sospetti sulla reale strategia della nuova maggioranza, di oggi e soprattutto di domani.
Di Maio e Salvini non hanno mosso un dito per fugare quei sospetti. Al contrario, li hanno alimentati. Fino a costruire ad arte il “ caso Savona”, scagliato come una pietra contro il Quirinale e contro Bruxelles. Savona cultore del “piano B” che serve a tenere sotto schiaffo i partner. Savona teorico della Germania-Quarto Reich che usa la moneta per proseguire la guerra con altri mezzi. Savona buttato infine alle ortiche, insieme a un meraviglioso “governo rivoluzionario” che era già pronto a trasformare finalmente questo Paese. L’agognato Walhalla del popolo, perso per l’impuntatura su un nome? Troppo assurdo, per essere vero.
Eccolo, il Grande Inganno Sovranista. Fanno il gioco delle tre carte con l’Europa e l’euro, sfoggiando una tragica ambiguità su un tema così cruciale per la nostra vita quotidiana, fatta di salari e sussidi, di conti correnti e di mutui, di tasse e di ticket. Salvini lo fa per calcolo, perché in questo continuo alternarsi tra il gioco a nascondino e quello al massacro contro l’establishment rafforza i consensi di un Nord che in fondo dall’Europa non si vuole affrancare. Di Maio lo fa per confusione, perché non sa più neanche lui cosa volere e cosa non volere. Tutti e due scherzano col fuoco. Ma stavolta ci bruciamo tutti noi, cittadini e risparmiatori.
Senza unione politica l’euro è una «moneta zoppa », come diceva Ciampi. Senza un rafforzamento delle sue istituzioni rappresentative, questa Europa non può funzionare. Ma non è a colpi di scure che l’Italia può addrizzare il legno storto dell’Unione, come promette di fare la coalizione bi- populista. Fa bene il governatore di Bankitalia Visco a ricordare che « il nostro destino è quello dell’Europa », che per ridurre il nostro enorme debito pubblico « non ci sono scorciatoie » , che ignorare le compatibilità finanziarie « non sarebbe saggio » , che le norme entro cui operiamo possono essere criticate e migliorate, ma «non possiamo prescindere dai vincoli costituzionali » , cioè « la tutela del risparmio, l’equilibrio dei conti, il rispetto dei Trattati».
Per questo il capo dello Stato non può essere accusato di alcun “ tradimento”: si è fatto garante di questi « vincoli costituzionali » , e nient’altro. Per questo l’istituzione va difesa da qualunque spallata, nella giornata della sediziosa festa della “ Contro- Repubblica” del 2 giugno. Ma per questo, qualunque sarà la data del voto, bisognerà difendere anche i nostri risparmi, un tesoro da 5.300 miliardi. Che cosa accadrà, se dalle urne sempre più vicine prorompesse l’onda gialloverde, in un voto trasformato in un referendum su euro sì- euro no? Il “ fronte repubblicano”, purtroppo, rischia di essere troppo poco, e di arrivare troppo tardi.
Il Fatto 30.5.18
Salvini uno e bino. Gioca più partite e le vince tutte
di Peter Gomez
Matteo Salvini è stato spesso preso in giro per non aver mai lavorato. Un tribunale della Repubblica ha stabilito che non è diffamatorio definirlo un politico di professione. Il leader della Lega è stato per la prima volta eletto in consiglio comunale a Milano nel 1993, quando aveva 19 anni, e da allora è saltabeccato in Italia e in Europa da un’assemblea all’altra senza mai brillare per presenzialismo. In molti definiscono razziste le sue frasi e sue prese di posizione in materia di immigrazione. L’appoggio palese a Viktor Orban, il primo ministro ungherese, peraltro aderente al Partito popolare europeo, divenuto tristemente celebre per aver costruito muraglie di filo spinato per impedire il transito non ai migranti, ma ai profughi, gli ha giustamente tirato addosso critiche su critiche. Ma al di là dell’opinione che ciascun lettore può avere su Salvini, un fatto va onestamente ammesso. Il leader della Lega esce da questi mesi di post voto con addosso la casacca di unico fuoriclasse presente sulla scena politica italiana. Uno dopo l’altro ha messo nell’angolo alleati, avversari e persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Forte del suo 17 per cento dei consensi, conquistati grazie all’idea di trasformare la Lega da partito regionale finto secessionista a forza dichiaratamente nazionalista e sovranista, Salvini ha condotto le danze del post voto fino a mettersi in una posizione di win-win. O partiva l’esecutivo gialloverde con Paolo Savona ministro e Lega piazzata in molti dicasteri chiave, o si andava a nuove elezioni con il Carroccio ancora più gonfio di consensi.
Se si torna con la moviola della memoria agli accadimenti di queste settimane ci si può rendere conto di come Salvini abbia raggiunto questo risultato senza che nessuno dei suoi compagni di strada possa accusarlo di scorrettezze o incoerenza. Il suo peccato (ma in politica questa è una virtù) è semmai l’astuzia con cui ha saputo approfittare dei loro punti deboli. Così Salvini ha provato a governare con Luigi Di Maio senza rompere con Fratelli d’Italia e Forza Italia. I due partiti erano terrorizzati dal voto anticipato. Sondaggi alla mano temevano di essere fagocitati dalla Lega. Pensavano che i gialloverdi dopo pochi mesi, a causa delle tante promesse e aspettative, si sarebbero andati a schiantare perdendo consensi. Per questo non hanno denunciato l’alleanza elettorale pur preannunciando un voto contrario all’ipotetico governo. Allo stesso modo, Salvini ha procrastinato il vero inizio delle trattative con i penstantellati in attesa di elezioni regionali destinate a rendere psicologicamente più fragili Di Maio e i suoi. Poi sedendosi al tavolo con i cinquestelle ha fatto perdere loro appeal presso molti elettori provenienti da sinistra e per togliere a Di Maio quell’aurea di leader radicale, ma moderato, che tanto faticosamente si era riuscito a costruire durante la campagna elettorale. L’apoteosi è arrivata con il veto di Mattarella su Savona. I cinquestelle si sono ritrovati a proporre la messa in stato di accusa del Presidente assieme alla destra, mentre Salvini, dopo le bordate di rito, chiedeva solo nuove elezioni e ieri diceva esplicitamente: “Chi insulta e minaccia Mattarella non fa parte del futuro del mio Paese. Ha sbagliato, ma non chiedo l’impeachment”. Governare, certo è un’altra storia (e forse la giudicheremo presto), ma per ora va detto che in fatto di strategia, tattica e marketing, Salvini si dimostra un vero professionista della politica forgiato da 25 anni di esperienza. Tutti gli altri no.
Il Fatto 30.5.18
Povero Di Maio: sono riusciti addirittura a vendergli la Tour Eiffel
di Alessandro Robecchi
Era dai tempi de La Stangata (1973), con Paul Newman e Robert Redford, che non si vedeva un pacco così accurato e perfetto tirato al pollo di turno. Detto che la distanza tra Salvini e Paul Newman è quella che separa Orio al Serio da Plutone, il pacco è riuscito alla grande, i 5Stelle imbufaliti sono rimasti lì come la mucca che guarda passare il treno, e Salvini fa l’asso pigliatutto e la damigella più corteggiata del reame: ballerà ancora con Silvio? Non lo sa, ci sta pensando. Civettuolo.
Ci sono altre truffe famose, e una fa proprio al caso nostro: nel 1925 un tale Victor Lustig riuscì a vendere la Tour Eiffel a un commerciante di ferraglia, fingendosi funzionario governativo e dicendo che l’avrebbero presto smantellata. Quello fu così scemo da dargli 250.000 franchi (moltissimi), più una mazzetta per agevolare l’affare. Quando si accorse di essere stato truffato non sporse denuncia per evitare (lo dico in francese) la colossale figura di merda.
Ecco, credo che sarebbe un errore per i 5Stelle non denunciare il truffatore, cioè Salvini Matteo, di anni 45, noto alle cronache. È vero che ci sono mappe e cartine pubblicate dai giornali che ci dicono che se Matteo e Gigi si mettono insieme alle elezioni sbancano. Però un conto è fare un accordo di governo tra diversi, e un altro è spartirsi i collegi elettorali per vincere a man bassa. Cioè non si tratterebbe più di un “contratto” con due contraenti (uno decisamente più furbo dell’altro), ma di un accordo politico. Non denunciare il truffatore, e anzi mettersi con lui, produrrà delle crepe, dei mugugni e probabilmente degli smottamenti. Se così sarà, se Salvini romperà col centrodestra per inseguire il plebiscito, ci aspetta un’estate di terrorismo: e il mutuo? E lo spread? E che dirà Moody’s? Eh? Ci avete pensato?
Insomma, c’è lì davanti un trappolone ulteriore: dividere il Paese su un argomento (euro sì/euro no) che è più favoleggiato che reale (e anche piuttosto stupido), permettendo a Salvini di fare il difensore del popolo e della povera gente. Riassumo: quello che ha nel programma il più grande regalo ai ricchi che la storia ricordi, la flat tax, passerà per una specie di Robin Hood che ci difende dalle agenzie di rating. Se tutto va male (e tutto lo fa pensare) la contrapposizione sarà tra due destre economiche: quella dell’ennesimo regalo ai ricchi, alla rendita e al profitto di Salvini, e quella liberista, rigorista che esibirà in campagna elettorale i suoi carri armati: lo spread, il vostro mutuo, i severi moniti dalla Bce, lo spettro della Grecia, agitato come un fantasma nel castello che sta crollando, e il tradizionale “moriremo tutti”. Manca che scrivano Standard & Poor’s sulle bandiere, ma ci siamo quasi.
Staremo in mezzo a questi opposti estremismi costruiti ad arte, stritolati, a discutere e litigare su una cosa di cui nell’ultima campagna elettorale appena finita non si è parlato nemmeno per un nanosecondo.
Il rischio per i 5Stelle è di assistere a tutto questo basiti e sotto botta come quando ti muore un parente, e la bandierina del “ci hanno imbrogliato” – che sia riferita a Mattarella o a Salvini – non è mai un gran lasciapassare per il successo. La gente, in generale, pensa che il truffatore sia un bastardo, ma anche che il truffato sia un po’ fesso, e che se si è fatto fregare una volta ci cascherà di nuovo, che un po’ se lo merita.
In questo desolante scenario, chi volesse dire una moderata cosa di sinistra (che so: un welfare serio, una redistribuzione tra redditi da lavoro e rendite, una società diversa e migliore, fine della cuccagna per i grandi patrimoni) diserterà una battaglia che non lo riguarda, e in cui è evidente che perderà comunque. Si sentirà come la tartaruga liuto o il rinoceronte di Giava, cioè gente che non ha davanti a sé grandi prospettive, peccato.
La Stampa 30.5.18
Di Maio e l’impeachment
“Abbiamo sbagliato tutto”
I 5 Stelle propongono Moavero Milanesi per affiancare Savona
di Ilario Lombardo
Alla fine, prima di salutare tutti dal palco di Napoli, lo dice ed è come se mandasse il suo messaggio di scuse a Sergio Mattarella: «Se abbiamo fatto degli errori siamo anche disposti ad ammetterlo». Si è ritrovato solo, Luigi Di Maio, aggrappato a una decisione istintiva che nessuno condivideva. L’impeachment è rimasto un urlo di rabbia senza grande eco. E a un certo punto il leader si è reso conto che l’unico disposto a seguirlo, Alessandro Di Battista, stava per salire su un aereo per San Francisco.
Così, in poche ore, quando tutto sembrava perduto, matura l’impresa impossibile di riaprire la strada per il governo con la Lega. Grazie anche alla mediazione del presidente della Camera Roberto Fico (subito contrario all’impeachment)i riallacciano i contatti con il Colle, proprio mentre Carlo Cottarelli sta salendo con in tasca la lista dei ministri, e mentre i mercati martellano di angoscia l’Italia, nonostante l’incarico a Mr Spending Review. Lo spread fa paura, i fantasmi di un fallimento figlio dell’instabilità politica di un governo tecnico, neutrale, sfiduciato da tutti i partiti, ristabiliscono la necessità di una riflessione di emergenza. Tanto più se l’alternativo è il voto a luglio.
Di Maio si chiude con i suoi collaboratori. Incontra Salvini, ne parla con lui. E’ un tentativo disperato che si poggia su un ragionamento che fanno ai vertici di M5S: «Come fa il Capo dello Stato a sciogliere Camera e Senato se una maggioranza parlamentare di fatto esiste, blindata attorno a un contratto di governo?». È la frase che Di Maio consegnerà alla folla che lo attende a Napoli pronta a incendiare le piazze al suo segnale. È la frase che ripeteranno tutti i deputati: «Una maggioranza c’è, il governo del cambiamento è ancora possibile».
Annulla tutti gli appuntamenti tv previsti per ieri e per questa mattina. Laura Castelli va dal parrucchiere per prepararsi a sostituirlo. Il passo è compiuto e viene formalizzato a Napoli dove Di Maio frena l’agitazione dei fan accorsi in massa urlando contro Mattarella: «Calmi, il presidente è mal consigliato. Possiamo ripartire. Fateci ripartire!».
Come? Perché ancora resta il nodo Savona. Lo affronta con Salvini che resta granitico: «Savona resta il mio ministro dell’Economia». Lo staff dei 5 Stelle chiama l’economista. Un’ora di telefonata. Lui assicura: «Non voglio uscire dall’euro. Voglio solo un’Europa più politica e meno finanziaria». Promette che lo ribadirà, se necessario.
Di Maio non si opporrebbe a un suo eventuale passo indietro. Ma dovrà deciderlo l’economista assieme a Salvini. Se così non fosse i 5 Stelle sono pronti a proporre una mediazione: affiancare Savona con due ministri e due sottosegretari di peso. Un ministro, da quanto si apprende, sarebbe Enzo Moavero Milanesi, che andrebbe agli Affari europei come interlocutore privilegiato con Bruxelles. L’altro sarà il ministro degli Esteri, Luca Giansanti (anche se torna a circolare il nome di Massolo). Indirettamente, di rimbalzo dal Pd, circola anche la voce di un ruolo per lo stesso Cottarelli.
Rimane da capire chi farebbe il premier? Le telecamere del TgLa7 beccano il prof Giuseppe Conte che si aggira fuori da Montecitorio, ma la Lega adesso spera in un incarico per Salvini o Giancarlo Giorgetti.
Di Maio ha capito di aver sbagliato nei tempi e nei modi quando ha letto la lettera inviata da Beppe Grillo al Fatto. La messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica non convince nemmeno i deputati più fedeli alla linea del leader e a metà pomeriggio è già chiaro che l’impeachment è una pagina chiusa. Dopotutto, la lettera di Grillo viene vissuta come una sculacciata dentro il M5S da chi legge il riferimento a Di Maio in un passaggio: «Non siamo affetti dalla sindrome dell’adolescente ribelle che spera che, alla fine, il padre gli dia ragione».
Ma è anche lo scenario di un voto anticipato a luglio a convincere il capo politico a un incredibile u-turn. Il volto dei deputati 5 Stelle a Montecitorio è inespressivo, sconsolato. In meno di due giorni i segnali che sconsigliano il ritorno alle urne si moltiplicano. Per la prima volta il M5S è dato sotto il 30%, al 29,5%. Ma soprattutto: la Lega è oltre il 27%. È un trend e vuol dire che il M5S potrebbe calare ancora. Poi se si andasse a votare, Di Maio potrebbe essere sì ancora il candidato premier, ma un candidato logorato, e tallonato dal globetrotter Alessandro Di Battista, pronto a tornare per l’incoronazione.
Il Fatto 30.5.18
Gravi, serie (o ridicole): chiamale se vuoi situazioni
di Antonio Padellaro
Situazione grave: spread fuori controllo e Borsa giù. Ma non seria: “I mercati insegneranno a votare agli italiani” (Günther Oettinger, commissario Ue, subito insignito del coglione d’oro europeo anche per aver rinsaldato i rapporti tra Germania e Italia). Grave: Di Maio e Salvini che gridano al colpo di Stato. Ma non seria: e poi corrono a farsi un selfie dalla D’Urso. Molto, molto grave: se il governo Cottarelli non avrà la fiducia non potrà impedire l’aumento dell’Iva. Ma non seria: il governo Cottarelli è nato morto. Piuttosto seria: l’esecutivo Cottarelli deciderà la nuova governance di Cassa Depositi e Prestiti e Rai (non male per un governo mai nato). Grave e seria: Cottarelli sale al Colle senza la lista dei ministri.
Forse torna oggi. Forse non se ne fa niente e si vota alla fine di luglio. Forse. Grave assai: sul nome di Paolo Savona ministro dell’Economia, Sergio Mattarella manda all’aria il governo M5S-Lega. Però poco seria: “Stampare 8 miliardi di monete nel giro di poche settimane, operare nella massima segretezza, far scattare il D-Day, con relativo annuncio il venerdì sera a mercati chiusi per lanciare il lunedì mattina la Nuova Lira svalutata presumibilmente del 20-25 per cento, prevedere un parziale default del debito”, e vai col tango (Piano B attribuito al medesimo Savona. E non tratto dal film Vogliamo i colonnelli). Grave: il Quirinale che come via d’uscita avrebbe proposto al Mef il nome di Giancarlo Giorgetti braccio destro di Salvini. Ma buona questa: “Non ero io il nome giusto per il Tesoro, sono troppo leghista” (il medesimo Giorgetti riuscendo a rimanere serio). Grave da non crederci: “Di Maio da Fazio. L’ira di Orfeo per il monologo” (La Stampa). Ma grave anche l’ira di chi paga il canone a cui il servizio pubblico non ha dato uno straccio di diretta sulla crisi. E ha dovuto spostarsi su La7 (Mentana-Giletti) che naturalmente ha fatto il botto di ascolti. Grave: l’Italia da sei mesi senza un governo nel pieno delle funzioni. Ma non serious, oh yes: “Sono i poteri forti di Davos che hanno fermato la svolta” (Steve Bannon, che perfino Donald Trump ha cacciato dalla Casa Bianca. Uno Stranamore ora guru di Salvini).
Non grave e non seria: Luigi Di Maio che propone l’impeachment per Mattarella. Tra l’entusiasmo dei social che inneggiano all’impicment, impingement o come cazzo si dice. Grave: il tizio che augura la morte a Mattarella. Disgustosamente non seria: lo stesso tizio che interpellato dai giornali piagnucola, si scusa e se la fa sotto. Grave (speriamo di no): Cinque Stelle e Pd che mobilitano le rispettive piazze. Ma penosa: i sindaci leghisti che rimuovono dai loro uffici i ritratti del Presidente. Grave: “Siamo allo stadio dell’infantilismo anale” (Massimo Cacciari che commenta la situazione politica). E tutta da ridere: “Ora un fronte antisfascisti, io mediano” (Matteo Renzi che si crede Oriali). Grave: se si vota a settembre prevedibile astensione alle stelle. Non proprio seria: il nuovo Parlamento che, fatto unico, senza aver toccato palla se ne andrà in ferie per non tornare più. Gravissima: la campagna elettorale permanente che romperà i timpani agli italiani per tutta l’estate. Ma (fortunatamente) non seria: ad agosto tutti al maaaare.
Ps. Dell’aforisma: “La situazione politica italiana è grave ma non seria” siamo debitori a Ennio Flaiano che, settant’anni fa nei Diari notturni, aveva colto l’essenza tragicomica di chi ci governa.
Il Fatto 30.5.18
Lorenza Carlassare
“Mattarella non poteva mettere il veto su Savona”
La costituzionalista: “Il capo dello Stato può rifiutare una nomina solo per ragioni oggettive: le sue critiche erano tutte politiche”
intervista di di Silvia Truzzi
Lorenza Carlassare – professore emerito a Padova, una dei nostri costituzionalisti più autorevoli – risponde al telefono con l’abituale fermezza: “Non è difficile valutare alla luce della Carta i fatti di questi giorni. Si discute se il comportamento del capo dello Stato sia stato corretto. La risposta per un costituzionalista è facile, perché noi valutiamo le situazioni solo ed esclusivamente in rapporto al dettato costituzionale e a ciò che rientra nella tradizione del sistema parlamentare. La nostra non è una Repubblica presidenziale: da qui discendono molte conseguenze. Il presidente quando forma il governo non fa il suo governo, ma quello della maggioranza”.
E come si deve regolare?
Semplicemente tenendo conto di qual è l’orientamento della maggioranza parlamentare e di quale governo potrà ottenere la fiducia delle Camere. Quel governo dovrà avere la fiducia e conservarla, altrimenti dovrà dare le dimissioni. L’unica stella polare che deve guidare il cammino del presidente è questa valutazione sulla possibilità o meno che quell’esecutivo abbia la fiducia del Parlamento.
Dove risiede il potere decisionale del presidente?
Dopo le consultazioni, deve valutare qual è la persona maggiormente idonea a ricoprire la carica di presidente del Consiglio. È una valutazione che però non si basa su opinioni o convincimenti personali del capo dello Stato, ma sulla base delle consultazioni che altrimenti sarebbero inutili. Dopo aver individuato la persona e conferito l’incarico, la responsabilità passa al presidente incaricato che deve comporre la lista dei ministri del suo gabinetto. La proposta di cui parla l’articolo 92 della Carta vincola il capo dello Stato, che può esprimere valutazioni di cui il presidente incaricato può tenere conto se lo ritiene. Il diniego sul nome di un ministro può esserci per incompatibilità col ruolo, per conflitto d’interessi o indegnità causata, per esempio, da condanne penali, dunque solo per ragioni oggettive.
Il presidente può fare valutazioni politiche?
No. Perché non è organo di indirizzo politico. La dottrina – da Serio Galeotti a Livio Paladin, per citare due autorevolissimi costituzionalisti – è sempre stata concorde nel ritenere il presidente un organo di garanzia e non di indirizzo politico.
Si dice che il presidente si sia fatto garante della Carta, che all’art. 47 assicura la tutela del risparmio.
Mi fa felice riscontrare questo interesse per il risparmio degli italiani che per decenni non si è mai manifestato né da parte del presidente Mattarella, né dei suoi predecessori. Tanto è vero che tanti risparmiatori sono stati messi in ginocchio. E non mi riferisco solo a quelli truffati dalle banche: il risparmio è stato distrutto dai meccanismi attuali. È bene che il presidente se ne faccia carico, ma voglio far notare che nel programma di governo non erano previsti provvedimenti distruttivi del risparmio. La valutazione sulla linea economica è stata squisitamente politica. E questa sfugge alle prerogative presidenziali.
Ci sono punti del programma di governo che suscitano perplessità?
Credo quelli sulla sicurezza, citati anche in un’intervista a Gustavo Zagrebelsky qualche giorno fa su Repubblica, come l’autodifesa sempre legittima, o l’uso della pistola a onde elettriche considerata dall’Onu uno strumento di tortura, l’introduzione di reati specifici per i migranti clandestini o il trasferimento dei fondi destinati ai profughi ai rimpatri coattivi. Sono cose in evidente contrasto con la Carta: il presidente avrebbe potuto farlo notare e comunque respingere i singoli provvedimenti.
Cosa pensa della ventilata messa in stato d’accusa?
Mattarella ha certamente esorbitato dalle sue funzioni. Ma la messa in stato d’accusa è qualcosa di più complesso: bisogna dimostrare, anche con comportamenti reiterati, l’intenzione di sovvertire la Costituzione. Non è questo il caso. In ogni caso, nell’interesse del Paese è un discorso che va abbandonato perché paralizza il funzionamento delle istituzioni.
Si cita spesso il precedente di Napolitano, che ha interpretato in maniera vigorosa il suo ruolo: per Renzi anche imponendo il percorso di riforme costituzionali.
Le rispondo così: quando il presidente Cossiga esorbitava dalle sue funzioni, i costituzionalisti manifestavano le loro critiche continuamente proprio per evitare che si potesse parlare di una prassi consolidata.
La presidenza della Repubblica ne esce ammaccata?
Mi auguro con tutto il cuore di no.
Il Fatto 30.5.18
Barbara Spinelli
“I mercati non possono stare al di sopra della Costituzione”
Per la giornalista ed europarlamentare di sinistra “è molto grave che sia stato giudicato inaccettabile discutere dell’euro”
di Stefano Feltri
Barbara Spinelli, il Quirinale ha bloccato la nomina di Paolo Savona al Tesoro per timore delle reazioni dei mercati, che sono crollati comunque. Quanto devono contare i mercati nelle decisioni della politica?
Sicuramente contano ma non devono essere in competizione con le elezioni. Nel ’98, l’ex governatore della Bundesbank Hans Tietmeyer disse che ormai le democrazie si fondano su due plebisciti egualmente legittimi: quello popolare e quello permanente dei mercati internazionali. È una visione nefasta. I mercati non possono esser messi sullo stesso piano dell’articolo 1 della Costituzione, secondo cui la sovranità appartiene al popolo.
Il commissario Ue Oettinger ha detto: “I mercati insegneranno agli italiani a non votare per i populisti alle prossime elezioni”. Le prossime elezioni saranno lo scontro finale tra sovranisti e anti-sovranisti?
Non esistono scontri finali nella storia. Lo scontro in questione è d’altronde basato su una fake news: l’uscita dall’euro non era nel programma M5S-Lega. Né in quello di Savona.
L’uscita dall’euro era però in una bozza del contratto di governo.
Lega e Cinque Stelle l’hanno poi ritirata. Il Quirinale lo ha ignorato: mi sembra tra l’altro che abbia opposto il suo veto non al programma, ma a Savona. Detto questo, non ritengo di per sé uno scandalo che si possa parlare di uscita dall’euro. Da anni scenari simili sono allo studio, viste le grandi e irrisolte difficoltà dell’eurozona: sono contemplati, sia pur segretamente, non solo da Savona ma dalla Banca d’Italia, dalla Banca centrale, da massimi economisti tedeschi.
Come viene vista la situazione a Bruxelles: pericolo scampato o grande incertezza?
L’establishment comunitario ha pesato su Mattarella, con pressioni di vario genere. La preoccupazione resta, anche se l’Italia è oggi commissariata più esplicitamente ancora che negli ultimi anni: oggi tramite Cottarelli e Fmi, domani forse tramite Draghi. Ma le elezioni non sono abolite. Inoltre resta un grande “non-detto” nell’establishment europeo.
Cioè?
Cosa significa uscire dall’euro: implica anche uscire dall’Ue? Il non-detto può trasformarsi in pressioni aggiuntive. Personalmente non credo che le due cose si equivalgano. I pareri legali sono divisi su questo.
Tra gli elettori crescerà la voglia di cambiamento o prevarrà il timore dell’incertezza?
Le forti pressioni su Tsipras non impedirono ai greci, nel 2015, di votare contro il memorandum della Troika. La paura può produrre spinte alla ribellione. Anche in Germania l’euro-scetticismo è aumentato: si continua a parlare di un’eurozona ristretta. Trovo molto grave che ci sia stato un veto a Savona per le sue critiche all’unione monetaria: significa non riconoscere le conseguenze gravissime delle disfunzioni dell’eurozona, già segnalate agli esordi da Paolo Baffi. Le disuguaglianze sociali e geografiche che ha prodotto generano il rigetto presente. L’architettura e i parametri dell’eurozona vanno dunque cambiati. E i cambiamenti vanno negoziati in maniera efficace. Savona era il più adatto a questo compito. Non l’hanno voluto per questo.
Perché chi considera l’euro e l’Ue intoccabili non riesce ad argomentare le proprie posizioni con la stessa efficacia dei critici?
Le posizioni dei difensori dell’euro sono spesso ideologiche, del tutto allergiche alla dialettica. Le tesi si rafforzano attraverso il confronto con le obiezioni. Se Savona dice che lo statuto della Bce deve considerare prioritari non solo la stabilità dei prezzi ma anche l’occupazione a l’aumento della domanda, perché viene considerato eretico? Si parla di eresia quando c’è un’ortodossia religiosa. Il caso greco avrebbe dovuto far capire che esiste ormai una tragica sconnessione tra le sovranità popolari e la delega a poteri europei neoliberisti.
Il tema della sovranità popolare è però lasciato dai liberal a personaggi come Steve Bannon, che è a Roma in questi giorni.
Sono d’accordo. Ma chi ha consegnato il tema della sovranità popolare alle destre estreme? Le forze di sinistra classiche. Mattarella ha messo il veto sulla scelta di Savona, ma non aveva niente da dire sul capitolo migranti del programma? O su quello della sicurezza interna?
Qual è stato l’errore della sinistra?
Da decenni, la sinistra ha smesso di occuparsi dei diritti sociali ed economici concentrandosi su quelli civili. Questi ultimi sono indispensabili, ma se si rinuncia a quelli sociali ed economici finiremo col perdere anche quelli civili. Come si vede in Polonia, dove il governo approva misure di Welfare ma smantella diritti civili. Se la sinistra rinuncia, saranno le estreme destre a presidiare la questione sociale.
L’idea di un “fronte repubblicano” guidato da Gentiloni a difesa di istituzioni e Ue è incoraggiante?
No comment sulla sinistra di Gentiloni o Renzi. Su alcune politiche – penso a quelle di Minniti sui rimpatri in Libia– non vedo differenze dal programma della Lega. Gentiloni si è congedato dicendo: ‘La stanza dei bottoni non me l’hanno mai mostrata’. Quindi chi comandava? Non andare fuori strada significa lasciare che nella stanza dei bottoni comandi il ‘plebiscito permanente dei mercati’? E cosa significa l’articolo 11 della Costituzione, quando si delegano sovranità a ordinamenti internazionali il cui scopo non è più ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’?
Il Fatto 30.5.18
“Mattarella ha fatto un assist e un regalo all’estrema destra”
“Mattarella ha fattoun regalo all’estrema destra”. Yanis Varoufakis – ex ministro greco delle Finanze, diventato simbolo della sinistra anti-austerity – lo scrive sul Guardian. Il riferimento è alla scelta di affidare a Carlo Cottarelli la guida di un governo di transizione. Per Varoufakis è una scelta “tecnocratica” e un assist a Matteo Salvini: così potrà presentarsi come il “difensore della democrazia di fronte all’establishment”.
Mattarella – scrive Varoufakis – “ha usato i poteri che gli ha conferito la Costituzione per impedire la formazione del governo. Ha consegnato invece il mandato a un tecnocrate, un ex dipendente del Fondo monetario internazionale che non ha alcuna chance di ottenere la fiducia in Parlamento”. “Il presidente ha fatto un grosso errore tattico: è caduto proprio nella trappola di Salvini – ha aggiunto Varoufakis –. Lui ha già l’acquolina in bocca al pensiero di nuove elezioni dove non combatterà da populista misantropo-xenofobo quale è, ma da difensore della democrazia contro il ‘sistema nascosto’”.
Il Fatto 30.5.18
La Grecia come modello pericoloso
di Filippomaria Pontani
“Alla fine ci siamo intesi” dice Angela Merkel evocando, a commento della crisi politica italiana, il parallelo delle trattative con Alexis Tsipras nell’estate 2015, dopo che l’Unione europea – spalleggiata dal vecchio establishment greco pronto a sollevare eccezioni di incostituzionalità – era intervenuta ad agitare spauracchi d’ogni sorta contro il referendum promosso dal premier appena eletto sul famigerato memorandum.
Tsipras allora non cedette, replicando alle minacce con una retorica serena ma determinata (tutt’altra cosa rispetto alle sparate del Salvimaio) che convinse il suo popolo al “No”. Ma l’Unione (questo il senso vero dell’intraducibile verbo sich zusammenraufen usato dalla Merkel, che vale “trovare un modus vivendi nonostante gli scontri e imponendosi autocontrollo”) impose poi il proprio diktat con le irriferibili minacce “al chiuso” nel drammatico vertice del 12 luglio, al termine del quale la linea politica di Tsipras fu stravolta, e rotolò la testa del ministro Varoufakis.
Keine sorge, troveremo un compromesso anche con gli italiani, dice la Merkel. Il commissario Oettinger, con il suo greve accento del Baden, ha solo il torto di parlare più chiaro quando professa fiducia nel nuovo “governo tecnocratico” di Roma e richiama il fatto – testuale – che “i mercati, le quotazioni dei bond, l’evoluzione dell’economia italiana potrebbero essere così drastici (einschneidend, propriamente “taglienti”) da fornire agli elettori l’indicazione di non votare populisti di destra o di sinistra”. L’applicazione è diversa, ma i criteri sono in fondo gli stessi (“l’impennata dello spread”, “le perdite in Borsa”, “l’allarme degli investitori”) richiamati da Mattarella nel suo discorso per silurare il governo Conte.
Singolari parallelismi. Nel 2013, per l’elezione del presidente della Repubblica, il Movimento 5 Stelle candidò con entusiasmo “uno dei vostri”, ovvero Stefano Rodotà, già presidente del principale partito della sinistra, e capace di intuire il potenziale di cambiamento e di aria nuova insito nel Movimento, se fatto reagire con le forze migliori del Paese: la risposta dell’establishment fu la chiusura a riccio; cinque anni dopo, la sinistra è ridotta a un ruolo di comparsa, e il Movimento è per metà in mano a Salvini. Nel 2018, nell’individuazione del ministro dell’Economia, la Lega propone “uno dei vostri”, ovvero Paolo Savona, già ministro nel governo Ciampi e vecchia (e discutibile) volpe della finanza, nonché capace di dire (da una prospettiva essenzialmente di destra) parole chiare sui difetti strutturali della moneta unica: la risposta dell’establishment è venuta domenica, e rischia di avere conseguenze ancor peggiori.
Si può sostenere che in ambedue i casi le forze proponenti giocassero in realtà un’altra partita, strumentale alla loro crescita ulteriore in termini di consenso dopo il prevedibile niet del sistema: può darsi. E del resto fra le due personalità corre un abisso – il governo Conte che si annunciava (come denunciato anche all’interno del Movimento da alcune voci libere) sarebbe stato sotto molti profili un incubo o una baraonda, e si sarebbe probabilmente incagliato in breve tempo, lasciando macerie. Tuttavia, la strategia di depotenziare il voto di milioni di italiani e di silenziare certe istanze col richiamo allo spread o al volere dei mercati, può pagare alla breve, per esempio evitando al Paese il trauma di ministri lepenisti pronti a effettuare rimpatri di massa – ma difficilmente funziona alla lunga. O si condivide la prospettiva di Oettinger (spaventare gli italiani per ridurli a più miti consigli nelle urne) oppure è una pia illusione che la destra “moderata” (per tale, ormai, viene fatto passare Silvio Berlusconi!) possa mantenere le posizioni in un Nord arrabbiato (lo mostreranno le imminenti elezioni comunali), o che la sinistra, desertificata dal perdurante renzismo e da mesi evanescente, possa davvero recuperare fiato drenando i “sinistrorsi delusi” di un M5S votato alla deriva gialloverde.
Si è creata una lacerazione istituzionale dolorosa; si è finito per aizzare la folla contro i giochi di palazzo e le agenzie di rating; si è schiacciato il M5S (fin troppo ingenuo di suo) sull’egemone Salvini; si è fornita una formidabile sponda a chi piccona il sistema seminando sfiducia nelle istituzioni e nell’Europa, o denigrando la democrazia rappresentativa.
Certo: la Grecia di oggi, imbambolata dalla sfiducia, svuotata di tutti i suoi asset strategici, umiliata e illusa con un misero avanzo primario di cui non si avverte alcun beneficio, vegeta in una cupa rassegnazione che forse, dopo anni, tornerà a premiare i vecchi partiti nelle elezioni del 2019. Ma non è affatto detto (ed è poi veramente auspicabile?) che in Italia accada lo stesso.
Il Fatto 30.5.18
Dai pestaggi ai blitz chirurgici: il vero volto di Casapound
Indagini - A Torino indagati 6 militanti per lesioni gravi e armi Violenze a Genova e a Milano. Trovati bastoni, lame e tirapugni
di Andrea Giambartolomei e Davide Milosa
n dubbio: oggi Casapound punta alla politica nazionale. Perché in fondo, proprio ora, il momento pare propizio per trovare spazi, in parte già conquistati a livello locale e soprattutto nel NNord Italia, grazie all’alleanza con la Lega di Matteo Salvini. Solo poche settimane fa, a certificare ancora una volta questo sodalizio, il leader del Carroccio, tifoso milanista, si è presentato in tribuna a Roma per la finale di Coppa Italia con la Juventus indossando un giacchetto blu della Pivert, azienda legata a doppio filo a Casapound. Il partito non dimentica, però, l’eredità degli ex sanbabilini. Recentemente, proprio una vecchia gloria dell’eversione nera milanese come Maurizio Murelli si è rivolto così ai giovani di Casapound: “Voi siete i miei figli, quelli venuti dopo, il successivo anello di una lunga catena d’acciaio agganciata all’Origine, al Mito”.
Insomma il passato non si cancella. La violenza, i pestaggi. Ieri come oggi. Diversi i fatti che recentemente hanno coinvolto rappresentanti di Casapound. L’ultimo, ieri, a Torino, dove sei militanti sono stati denunciati per un’aggressione avvenuta la sera del 5 aprile vicino al circolo “Asso di bastoni”. Poche ore prima i militanti (secondo la Digos sono una trentina quelli più attivi) avevano fatto un presidio contro i migranti africani che occupano palazzine dell’ex villaggio olimpico. Un simpatizzante 46enne, ubriaco, aveva avuto un diverbio col coordinatore provinciale Matteo Rossino ed era stato allontanato: “Questa qua la paghi”, diceva Euclide Rigato, portavoce del comitato di quartiere vicino a Casapound. Poche ore dopo l’uomo è stato picchiato con delle mazze e i sei ora sono indagati per lesioni aggravate in concorso. Ieri la Digos della Questura di Torino ha perquisito le abitazioni di alcuni di loro trovando un tirapugni con lama, un manganello di legno, un coltello e una torcia in metallo allungabile utilizzabile come manganello. Il coordinatore Rossino è stato denunciato perché nel circolo sono state trovate 14 mazze di legno, due tubi di ferro, bastoni in carta pressata e apparecchi per rilevare microspie ed evitare intercettazioni.
A Genova, il 7 maggio scorso, la violenza dell’estrema destra ha coinvolto un giovane svizzero. Succede nel borgo di Boccadasse. Qui tre persone vicine a Casapound, tra le quali una ragazza, pretendono che lo svizzero paghi loro da bere. Al diniego, la ragazza lo tempesta di domande politiche, addirittura estrae una foto di Hitler e chiede se lo riconosce. Davanti all’espressione esterrefatta dello svizzero, parte l’aggressione. Calci, pugni e una bottiglia spaccata in faccia. Protagonista del gesto proprio la ragazza denunciata per lesioni gravi. A Milano, invece, la mattina dell’11 maggio la Digos, agli ordini del dottor Claudio Cicimarra, ha perquisito 12 persone, tutte legate a Casapound.
Anche per loro l’accusa è di lesioni gravi, perché si sono rese protagoniste di un pestaggio nei confronti di due ragazzi, dopo una discussione avvenuta in un locale di corso Garibaldi. I fatti risalgono alla sera del 10 marzo. Nel corso delle perquisizioni sono stati sequestrati abiti e caschi utilizzati durante l’aggressione, coltelli, manganelli, e una bandiera della Repubblica Sociale Italiana. Buona parte degli indagati, scrive la Digos, è legata a doppio filo alla curva ultras che segue la squadra di hockey di Milano. Uno dei capi ultrà, anche lui vicino a Casapound, finirà indagato per estorsione proprio per questioni legate all’hockey. La cronaca disegna una quadro preciso dove la facile apologia fascista lascia spazio a blitz violenti e chirurgici.
Del fenomeno delle aggressioni Casapound, nel 2016, si è occupato il ministero dell’Interno stilando per la prima e unica volta un report con numeri inquietanti. Si legge: “Nel quinquennio 2011-2015 sono stati tratti in arresto 19 militanti o simpatizzanti di Casapound, mentre 336 sono stati deferiti a vario titolo all’Autorità Giudiziaria. A ciò si aggiunga che dall’inizio del corrente anno sono stati effettuati 1 arresto e 23 denunce”. Tradotto: un arresto ogni tre mesi e una denuncia ogni cinque giorni. E sempre per fatti di violenza collettiva o individuale.
il manifesto 30.5.18
La guida pastorale del nuovo Pcc di Xi
Potenze artificiali. Siamo ormai di fronte a un modello funzionale di capitalismo statale e neoliberista basato sull’autoritarismo
di Benedetto Vecchi
Senza scomodare i classici dell’economia politica (tra i quali va annoverato, tra gli italiani, lo studio di Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino, Feltrinelli) e ignorando il valore propagandista dei vari dirigenti cinesi, la Cina segnala una variante del capitalismo neoliberista ma dove lo stato-nazione rivendica un ruolo «pastorale» nel governare la società e il regime di accumulazione capitalista. Siamo cioè di fronte a una variazione del modello dominante di capitalismo che ha ambizioni egemoniche e che viene guardato con interesse da paesi emergenti nella globalizzazione, come l’India, il Sudafrica, il Brasile. Realtà nazionali che non vogliono importare passivamente nessun modello preconfezionato, ma che si apprestato a «tradurre» localmente dispositivi politici e economici che altrove hanno funzionato. Lo stesso cioè di quello che sta facendo la Cina rispetto al modello anglosassone. È la vecchia questione della compresenza di modelli diversi di accumulazione capitalista. La crisi del 2007-2008 ha messo in evidenza che nella globalizzazione economica è in azione un doppio movimento: omogenità del capitalismo – non può esistere un fuori ad esso – e allo stesso tempo, differenziazione dei modelli, in un continuo adattamento locale del modello dominante. Temi che sono tutti discussi a livello economico e nei centri di potere che «contano», ma che hanno un riflesso pallido, al limite dell’insignificante nella «provincia italiana».
Se si articolano meglio le astrazioni reali operanti in questi anni di crisi, il discorso diventa ancora più evidente. Il caso dei progetti cinesi sull’Intelligenza artificiale è esemplificativo dell’emergere di un modello sociale, politico e economico che vuol esercitare un potere globale nella globalizzazione. La Cina ha tre imprese di eccellenza che da anni investono in software che utilizzano tecniche e modelli derivati dalla ricerca sull’intelligenza artificiale.
Sono il motore di ricerca Baidu, la società di commercio Alibaba (che fa molte altre cose) e WeChat (ibrido tra Facebook e Twitter e molto di più) che negli anni hanno fatto una politica di catch up, cioè di reperimento di tecnologie e software sul mercato.
È stato l’anno nel quale il presidente Xi Jinping ha indicato nell’Intelligenza artificiale il settore strategico dove la Cina deve raggiungere una posizione egemone nel mondo intero. Narra la leggenda che l’accelerazione sia stato voluta dopo che era stata diffusa la notizia che Google, attraverso il suo Deep Mind (un insieme di hardware e soprattutto di software) aveva battuto due maestri di Go, il popolare gioco cinese di strategia da tavolo.
Finora tutti i tentativi della macchine di battere gli umani erano falliti. L’annuncio che una macchina aveva vinto ha costituito uno spartiacque nell’Intelligenza artificiale, assegnando al machine learning e ai Big data il palmares dell’Intelligenza artificiale. Per i cinesi, invece, ha costituito l’espediente retorico usato per mettere ordine a piani di ricerca e sviluppo attorno alla big technology.
I programmi di intervento statale nella tecnologia prevedono investimenti in ricerca e sviluppo, sostegno alle imprese, una politica di circolazione in tutto il settore economico delle conoscenze scientifiche acquisite e una normativa chiara sulla proprietà intellettuale. Su questo ultimo aspetto, la Cina, con l’entrata nel Wto, ha acquisito i trattati internazionale sulla proprietà internazionale. Per gli altri aspetti, nell’ordine: entro il 2020 la Cina investirà oltre 150 miliardi di dollari per formare ingegneri, fisici, matematici, computer scientists.
Altri 120 miliardi li investirà per sviluppare software, microprocessori capaci di far funzionare quei software. Il progetto avrà un coordinamento presso un National council, mentre i governi regionali e locali avranno il compito di monitorare e sorvegliare l’avanzamento del progetto laddove sono coinvolte imprese e università locali. Nel progetto sono previsti piani di finanziamento anche per le start up che si formeranno (1,5 miliardi all’anno), anche se non sono esclusi piani di reperimento fondi attraverso forme inedite di crowdsourcing basate sul partnership tra pubblico e privato. Infine una politica di rientro dei «cervelli» cinesi che hanno frequentato università americane o di un altro paese e progammi capillari di insegnamento dell’inglese, lingua ormai madre nella ricerca e sviluppo.
Un progetto ambizioso dunque. I cinesi sono convinti di recuperare il terreno perduto. Secondo gli standard internazionali, l’egemonia degli Stati uniti nell’intelligenza artificiale è indiscutibile. Secondo una speciale percentuale, gli Usa hanno il 33 per cento della performance globale, mentre la Cina il 17 per cento, il resto spetta a Europa (che ha lanciato un progetto comunitario che coinvolge i paesi dell’Unione europea), l’Inghilterra e il Giappone.
Sta di fatto – però – che quella della Cina si presenta come un modello inedito di «stato sviluppista» che coniuga libero mercato e ruolo protagonista di indirizzo da parte dello stato-nazione.
L’economista Mariana Mazzucato, considerata una delle migliori analiste del rapporto tra politica e economia nella ricerca scientifica, ritiene le scelte di Pechino lungimiranti, capace di costruire una egemonia economica nel corsa di un decennio. È questa la grande convergenza che la crisi del 2008 ha avviato: uno stato nazione rinnovato nelle sue funzioni e un’economia di mercato basata sull’intreccio tra materiale e immateriale con la predominanza di quest’ultimo. Tenuto conto che in questo frangente la democrazia è messa in secondo piano. Insomma, più che un socialismo di mercato, la Cina rappresenta un modello di capitalismo neoliberista basato sull’autoritarismo. Con una particolarità. A livello globale la Cina ama il soft power all’ostentazione di portaerei o missili intercontinentali. Almeno per ora.
il manifesto 30.5.18
La «nuova era» della Cina punta al nostro immaginario
Cina. Investimenti e «progetti pilota» stanno radicalmente cambiando la società cinese. E se la science fiction locale interpreta le mutazioni antropologiche, nella vita vera aumenta il rischio di «digital divide»
di Simone Pieranni
C’è un tema specifico, dirimente per il nostro futuro, che ha a che fare con la società della conoscenza, l’evoluzione tecnologica, il lavoro in una nuova epoca di automazione e conflitti globali. C’è poi un piano puramente immaginifico che la Cina – apparentemente così diversa e distante per i nostri occhi occidentali – sta scavando da tempo e con costanza.
In modo silenzioso, impercettibile, il modello cinese, un’economia pianificata ma inserita in un contesto globale e guidato da un partito unico, è apprezzato. Basti pensare alle sue declinazioni – politicamente parlando – con paesi più vicini alla nostra cultura, che pur mantenendo un’attrezzatura «democratica» fanno delle elezioni e del bilanciamento dei poteri degli obblighi necessari, ma risolti con estrema determinazione: si tratta di quelle che vengono chiamate le «democrazie illiberali».
Pechino nel corso dei tempi, e complice l’ascesa del confusionario Trump, ha guadagnato terreno proprio nella nostra immagine: ne tolleriamo ormai le storture, sottolineandone però i pregi, la lungimiranza. Ora immaginiamo che questo paese, la Cina, diventi anche leader nello sviluppo di quella scienza che avvicina le macchine all’uomo; e che questa scienza vada a sommarsi con un’altra, l’analisi millimetrica dei dati, il loro incorporamento in un unico gigantesco database. Se fosse possibile, potremmo avere delle telecamere talmente precise e sofisticate, in grado di riconoscere dal volto ogni persona e agganciarci ogni tipo di dato possa essere utile. In quel modo potremmo trovarci davanti a un sistema che potrebbe essere usato dalla polizia per «predire» dei crimini. Tutto questo è già ampiamente nel nostro immaginario, letterario e cinematogfrafico. In Cina, però, tutto questo esiste realmente, è già quotidianità per i suoi cittadini. I modelli predittivi sono già usati dalla polizia della regione cinese del Xinjiang, così come le prove fornite dall’Intelligenza artificiale sono già da considerarsi valide in alcuni palazzi di giustizia cinese.
Si dice che in Cina, lo ricorda Mei Fong, premio Pulitzer del 2007 e autrice di «Figlio Unico» (Carbonio editore), ogni vita valga come quella dei cani: un anno significa sette anni; questo perché i cambiamenti e le evoluzioni cinesi sono rapidissime, fenomeni capaci di sradicare precedenti eventi come niente fosse.
In poco più di 40 anni – dalle Riforme a oggi – il paese ha sollevato dalla povertà oltre 300 milioni di persone, è cresciuto a ritmi vertiginosi, perfino al 14 per cento a metà degli anni Zero. Fino al 2008 la Cina era considerata quasi esclusivamente per le sue caratteristiche di «fabbrica del mondo» grazie alla sua economia basata sulla manifattura e sulle esportazioni. Nel 2008, dunque, un’altra incredibile svolta: la crisi occidentale comportò la diminuzione degli ordini e così Pechino si vide costretta a mutare il proprio modello, spingendo tutto sulla qualità e sulla creazione di un vasto mercato interno.
Nel frattempo la Cina cambia ancora: il censimento del 2011 stabilisce per la prima volta una maggioranza di popolazione urbana; la trasformazione era compiuta. Nel 2012 diventa segretario del Partito comunista Xi Jinping, nel 2013 è nominato presidente della Repubblica popolare. La Cina imprima una nuova svolta: viene lanciato il progetto «Made in China 2025» un nuovo piano industriale che punta tutto su Big Data, Intelligenza artificiale, robotica e in generale sugli investimenti nelle nuove tecnologie. Pur nelle sue contraddizioni, la Cina si proietta nel futuro con l’intenzione di diventare la numero uno al mondo per quanto riguarda proprio l’Intelligenza artificiale. E con questa mossa, forse senza neanche pensarci, finisce per essere «interessante» o vicina, davvero, anche ai nostri occhi. Nello specifico, esistono vari documenti che «sistematizzano» questa volontà di Pechino: il primo documento nel quale si fa un esplicito riferimento all’Intelligenza artificiale è il «Tredicesimo piano quinquennale per lo sviluppo strategico industriale cinese». In esso si chiarisce che tra i 69 impegni principali del periodo tra il 2016 e il 2020 un ruolo rilevante sarà dato proprio all’Intelligenza artificiale.
C’è un secondo punto fermo, chiamato «Internet Plus», una specie di piano triennale – che dovrebbe vedere la propria realizzazione finale proprio nel 2018: si tratta di un trattato specifico sull’Intelligenza artificale: lo scopo è potenziare l’industria dell’Intelligenza artificiale in un motore capace di produrre centinaia di miliardi di yuan. Lo scopo del piano è portare la Cina a diventare una potenza digitale.
Il terzo documento è il Piano per lo sviluppo dell’industria robotica (2016-2020). In questo caso siamo di fronte a obiettivi ben precisi: lo scopo è creare entro il 2020 un sistema in grado di produrre 100mila robot industriali all’anno, portando la Cina al primato mondiale nel settore.
Il quarto documento si chiama proprio Intelligenza artificiale 2.0 ed è affiancato da un quinto piano dal titolo Sviluppo di una nuova generazione di industrie per l’intelligenza artificiale. Naturalmente la Cina prevede parecchi investimenti e ritorni in piani economici che ad ora arrivano fino al 2030. Lo scopo finale – naturalmente – è superare gli Stati uniti.
Il peso della Cina in questo mondo comincia a farsi sentire, oggi è il secondo investitore al mondo nel settore, dopo gli Usa. A Washington lo sanno bene: l’Association for the Advancement of Artificial Intelligence, associazione americana, per fare un esempio, l’anno scorso ha inrviato il proprio meeting mondiale, perché cadeva negli stessi giorni del capodanno cinese. Gli organizzatori non volevano rischiare: cambiarono data per avere tra i relatori proprio i cinesi.
Gli Usa rimangono ancora al primo posto in termini di investimenti e ritorno economico dei progetti legati all’Intelligenza artificiale, ma Pechino sta freneticamente correndo contro il tempo e non senza risultati. Nel marzo del 2017 la dirigenza del paese ha rilasciato un «piano per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale» a seguito di una Assemblea nazionale che ha visto raccogliere la sfida anche dal premier Li Keqiang.
Dal fondatore di Baidu, il più importante motore di ricerca cinese, fino al proprietario di Xiaomi, per arrivare al fondatore di Geely Automobile che ha rilevato la Volvo: si tratta di persone che hanno partecipato anche alle «due sessioni» a Pechino, l’appuntamento legislativo annuale del gigante asiatico. In quella sede istituzionale hanno provato a spingere sull’acceleratore, perché possano arrivare e al più presto fondi per la ricerca e l’applicazione di modelli di intelligenza artificiale.
Come sostenuto da Lei, membro dell’Assemblea nazionale, al quotidiano di Hong Kong South China Morning Post «al contrario di altre rivoluzioni tecnologiche quella relativa all’intelligenza artificiale può davvero traghettare la Cina alla leadership nel mondo della tecnologia». Da segnalare poi che non pochi accenni sono stati fatti riguardo l’impatto che la «AI» potrà avere sui sistemi di sicurezza locali e nazionali; una sottolineatura particolarmente gradita alla leadership cinese, tenendo conto che gli Usa si sono già mossi per evitare investimenti di Pechino in materia di sicurezza nella Silicon Valley.
Dopo l’approvazione di tutti gli spunti relativi all’importanza della «AI», specie grazie alla mole di Big Data che le aziende cinesi collezionano attraverso le proprie attività «consumer», sono arrivati anche i soldi.
Solo l’anno scorso la Cina avrebbe fomentato la ricerca con almeno 2,6 miliardi di dollari. Ma non è sufficiente, perché gli Usa ne avrebbero investito ben 17. Secondo una ricerca Pwc, entro il 2030 lo sviluppo dell’«AI» potrebbe incidere in modo significativo sul prodotto interno lordo del paese, grazie all’incremento della produttività, con la robotica, e all’aumento dei consumi.
Date queste premesse, e in attesa dei primi progetti cinesi capaci di costituire una vera e propria novità capace di uccidere momentaneamente il mercato, il mondo del lavoro e quello della finanza (in Cina come spesso accade di fronte a investimenti rilevanti da parte dello Stato si parla già di «bolla») sono già intaccati da questa «rivoluzione». L’uso di robot e di sistemi automatizzati sta già permettendo a molte fabbriche di sostituire i lavoratori, o almeno una parte di essi, risparmiando in costi e problematiche di natura umana (in alcune zone oggi un operaio cinese guadagna quanto un operaio in Brasile) e aumentando la produttività. E proprio in relazione al mondo del lavoro, alcuni proprietari di aziende che si sono convertiti alla robotica, spiegano la decisione adducendo l’ampio turn over dei lavoratori cinesi. Si tratta di un caso classico: in Cina i lavoratori che operano nell’ambito delle mansioni più modeste hanno – giustamente – poca fedeltà: sono sempre alla ricerca di più soldi e migliori condizioni (soprattutto per quanto riguarda straordinari, malattie e infortuni). Ma dato che il costo del lavoro in Cina è ormai molto più alto rispetto ai tempi della «fabbrica del mondo», i padroni, lo stato o i privati, sono passati alle contromisure. In alcune aziende i robot sono già utilizzati nello smistamento di materiali all’interno di magazzini. Come si ebbe a dire quando Foxconn annunciò l’acquisto di un milione di robot (settore nel quale la Cina è ormai grande produttore) «i robot, al contrario dei lavoratori, non protestano e non si ammalano».
A cosa porterà questa spinta governativa? Secondo alcuni osservatori a nuove e inquietanti diseguaglianze nella società cinese. Il digital divide sarà ancora più grande e comporterà una nuova divisione in seno alla società.
Allo stesso tempo, però, tutto questo muterà per sempre il paese, avvicinandolo al nostro immaginario. È diventata nota la somiglianza del sistema cinese dei «crediti sociali» – idea che mette insieme AI, Big data, sorveglianza, controlli fiscali e giudiziari – con la puntata di Black Mirror, la popolare serie distopica prodotta da Netflix e intitolata «Nosedive». In quell’episodio il «punteggio sociale» di una persona, dato dall’interazione «social», determina il destino economico, lavorativo dei cittadini. In Cina stanno pensando a qualcosa di simile: allora a questo punto è giusto porsi una domanda dirimente. Se tutta questa ricchezza di dati che può arrivare dall’Intelligenza artificiale è in mano a uno stato autoritario, o simil tale, anziché ai privati, quanto l’avanzamento delle tecnologie sarà spinto dalla volontà di migliorare le condizioni di vita della popolazione e quanto invece sarà determinato dalla volontà di controllarlo?
Si tratta di una domanda che non va rivolta solo a Pechino, naturalmente; ma il tipo di società, quella cinese, nella quale si iscrivono queste «novità», costituisce una valida cartina di tornasole.
I cinesi dal canto loro sembrano osservare con attenzione quanto succede. Ci sono anche alcuni segnali importanti: esiste al momento in Cina una «new wave» di giovani scrittori di fantascienza il cui fulcro poetico è proprio l’indagine dell’impatto dell’AI e del modo di gestirla da parte del governo cinese, sulla popolazione. Non si tratta sempre di distopie: in alcuni casi la società prospettata da questi scrittori piega le tecnologie e i meccanismi di controllo sociale a un miglioramento delle condizioni di vista (come nel caso di un racconto nel quale si prevede l’esistenza di «robot confuciani» capaci di regalare una seconda vita alle persone anziane del continente cinese.
Naturalmente esistono esempi reali che ci raccontano un’altra storia: se la Cina è uno Stato dove la governance è sempre più associata al controllo sociale, a Pechino hanno pensato che – tutto sommato – al controllo sociale si possa venire «educati». Pechino spiegherà al mondo che l’obiettivo di certe «sperimentazioni» nulla è se non il miglioramento delle condizioni di vita. Sappiamo bene, però, che questi strumenti sono ambiti (e lo sono anche in Occidente di sicuro) proprio perché consentono un controllo sempre più sofisticato dei comportamenti attuali; e con elaborate e sofisticate tecniche si può anche arrivare ad analisi predittive: avere una camera puntata per tutto il tempo passato – ad esempio – a scuola abituerà i cinesi a vivere fin da piccoli sottoposti a un controllo e a un monitoraggio costante dei propri comportamenti. Si tratta di qualcosa che esiste già ad Hangzhou, in Cina.
il manifesto 30.5.18
Cina
La variegata cassetta degli attrezzi per il controllo sociale
Il termine «leninismo digitale» esprime al meglio le implicazioni securitarie della rinascita tecnologica avviata dal gigante asiatico a suon di investimenti
di Alessandra Colarizi
Tutte le volte che Adil esce di casa ogni cento metri trova ad attenderlo un posto di blocco attrezzato di scanner dell’iride e del corpo. Quando entra in banca telecamere per il riconoscimento facciale ne verificano in pochi secondi l’identità e se naviga su smartphone un apposito software ne traccia i movimenti online. Anche per il semplice acquisto di un coltello da cucina è costretto al rilascio del numero Id tramite QR code, il codice a barre bidimensionale con cui in Cina ormai ci si fa di tutto, dai pagamenti digitali allo scambio di amicizia su WeChat.
Adil non esiste, ma la sua distopica quotidianità è già realtà per molti uiguri, l’etnia turcofona di religione islamica che vive nella regione autonoma del Xinjiang. È qui, nell’estremo Ovest cinese, che Pechino applica i progressi compiuti nell’industria 4.0 alle più sofisticate tecniche di sorveglianza con l’obiettivo di debellare «i tre mali» (estremismo, terrorismo e separatismo).
Dalla scorsa estate un «Programma di registrazione popolare» impone la raccolta delle informazioni biometriche (compresi impronte digitali e Dna) per qualsiasi operazione che coinvolga l’hukou, il permesso di residenza necessario all’iscrizione in una scuola pubblica o all’ottenimento del passaporto.
Il passo successivo è quello, un giorno non troppo lontano, di integrare il bagaglio di dati personali al capillare sistema di videosorveglianza che già conta 176 milioni di telecamere in tutto il paese e aspira ad aggiungerne altri 500 milioni entro il 2020. Un traguardo non impossibile se si considera che in alcune stazioni ferroviarie la polizia già pattuglia in via sperimentale con occhiali per il riconoscimento facciale capaci di smascherare i viaggiatori in possesso di documenti falsi in soli 100 millisecondi.
Secondo la data company IHS Markit, con 6,4 miliardi di fatturato tra hardware e software, la Cina è già il primo mercato al mondo per la sorveglianza. Il termine «leninismo digitale» esprime al meglio le implicazioni securitarie della rinascita tecnologica avviata dal gigante asiatico. Ma si tratta tuttavia di una dicitura parziale che rischia di sminuire la versatilità del progetto. Tornando al Xinjiang, lo scopo conclamato del programma di registrazione è infatti quello di adottare un «processo decisionale scientifico» per promuovere «la riduzione della povertà», «una governance sociale più sistematica e innovativa» e – in ultimo – la «stabilità sociale».
Negli stessi giorni in cui la prefettura di Aksu riceveva le nuove linee guida, il Consiglio di Stato varava un piano strategico volto a rendere la Cina il centro globale dell’Intelligenza artificiale entro il 2030.
Allora il mercato interno dovrebbe raggiungere un valore di 1 trilione di yuan (148 miliardi di dollari). Il programma, articolato in tre fasi quinquennali, ha lo scopo di avviare una «quarta rivoluzione industriale» in grado di rilanciare la crescita nazionale. Se le proiezioni di PwC dovessero rivelarsi esatte, entro il 2030, l’Intelligenza artificiale avrà regalato alla seconda economia mondiale un’espansione del 26%. Giusto quel che ci vuole per ricalibrare il vecchio modello di crescita basato sul binomio export-investimenti.
Che la Cina faccia sul serio lo dimostra la portata dell’impegno economico: 16 miliardi di dollari soltanto per un fondo interamente dedicato alle tecnologie di nuova generazione nella città portuale di Tianjin.
Come sempre, la ricerca fa da apripista. Dal 2015, il gigante asiatico realizza almeno un 50% in più di studi sull’AI rispetto agli Stati uniti. Recenti corsi di formazione a guida statale puntano a colmare un deficit del personale specializzato aggiungendo 500 insegnanti e 5.000 studenti universitari, mentre il coding e l’AI finiscono persino sui banchi delle scuole primarie e secondarie. A oggi, l’Intelligenza artificiale viene già adottata in campo militare (spesso occultata dietro la più rassicurante dicitura dual-use), per la fabbricazione di autovetture autonome, la gestione del traffico così come nella conversione delle «smart city» e nella sanità, dove trova impiego nelle pre-diagnosi, scansioni TC, organizzazione delle cartelle cliniche e nel trasporto degli strumenti in sala operatoria.
Declinata in maniera più creativa, serve a testare la lealtà dei funzionari con programmi di realtà virtuali; combattere gli sprechi centellinando la carta igienica nei bagni grazie al riconoscimento facciale; monitorare il grado di attenzione degli studenti in classe attraverso l’espressione del viso; migliorare il rendimento dei lavoratori per mezzo dispositivi wireless in caschi e berretti capaci di controllare costantemente le onde cerebrali di chi li indossa.
Secondo il Financial Times, ormai il 10% dei contenuti caricati su iQiyi, il Netflix cinese, viene rimosso in automatico dagli algoritmi senza bisogno dell’intervento di censori in carne ed ossa.
Tutto questo è reso possibile dalla gigantesca mole di dati generata dagli oltre 770 milioni di netizen e dal crescente controllo dello Stato sulle informazioni grazie alla controversa partnership con i colossi dell’hi-tech. Per Feng Xiang, docente di legge presso la Tsinghua University, il coinvolgimento del governo è necessario per impedire che la nascita di un «capitalismo digitale» – dominato da un «oligopolio di supericchi» – sfoci in automazione selvaggia e conseguenti licenziamenti di massa. L’altra faccia della medaglia, tuttavia, è il controllo orwelliano dello spazio on e offline. Di pochi giorni fa la notizia della partecipazione di Huawei nell’apertura di un laboratorio per la «digitalizzazione della sicurezza pubblica» a Urumqi, capoluogo del Xinjiang.
C’è chi considera la regione autonoma laboratorio per la formulazione di politiche in futuro estendibili al resto del paese. Di più. Sfruttando la Belt and Road, la cintura economica tra Asia, Europa ed Africa, il «modello Xinjiang» rischia – nel bene e nel male – di farsi strada oltreconfine attraverso la cosiddetta nuova via della seta. Ad aprile, Cloudwalk, società con sede nel Guangdong, ha siglato un’intesa con il governo dello Zimbabwe per la realizzazione di un progetto di «sorveglianza intelligente», noto come Eagle Eye, debutto ufficiale dell’AI «made in China» nel continente africano. Come scrive il giornalista zimbabwiano Farai Mudzingwa, «come sempre, quando viene introdotto uno strumento di sorveglianza, dobbiamo chiederci se questo possa essere usato per scopi malvagi. In un paese come il nostro, dove nel corso degli anni si sono verificate molteplici violazioni dei diritti umani, temo sinceramente che la tecnologia non venga effettivamente utilizzata per introdurre un miglioramento».
il manifesto 30.5.18
Benvenuto, sorridi Sei su Sense Time
Cina. L’azienda ha accesso ai dati di tutti i cittadini: il cliente principale dell’app è il governo cinese
di Alessandra Spalletta
C’è una startup di Hong Kong specializzata nel riconoscimento facciale che sta facendo conquistare alla Cina il predominio nell’intelligenza artificiale: si chiama Sense Time.
A fondarla nel 2014 è stato un ambizioso professore universitario, Tang Xiaoou, il quale due anni dopo ha assegnato a un suo ex allievo il compito di lanciarla. Oggi Xu Li, 40 anni, dirige una società che vale oltre 3 miliardi di dollari (4,5 secondo Techcrunch). Un valore altissimo, specie in confronto alle rivali americani. L’ultimo finanziamento da 600 milioni è arrivato da una cordata di investitori guidata dal colosso dell’ e-commerce Alibaba. Jack Ma ha proposto a Xu Li di lanciare un maxi laboratorio di AI a Hong Kong, che punta a diventare hub globale di innovazione. A gran velocità, Sense Time si espande anche in altri settori, come il deep learning e la guida autonoma, scrive il Financial Times. Del resto può contare sul sostegno finanziario anche di altri solidi investitori, tra cui Qualcomm e Dalian Wanda.
Rifornisce oltre 400 società (Honda, Nvidia, China’s UnionPay, Weibo, China Merchants Bank, Huawei, Oppo, Vivo, Xiaomi). Sense Time incarna la visione del governo di Pechino che punta a trasformare l’AI in una industria da 150 miliardi di dollari entro il 2030, ribaltando la situazione attuale in cui a guidare sono gli Stati uniti. Stando ai dati del China Internet Network Information Center, a giungo di quest’anno oltre un quarto delle oltre duemila compagnie IA del mondo si trovano in Cina, con un numero di brevetti (15.700) che la pone al secondo posto dopo gli Usa.
L’azienda di Hong Kong ha accesso ai dati di tutti i cittadini grazie alla collaborazione con il suo maggior cliente: il governo cinese (30% del portfolio). Le autorità stanno sviluppando un database in grado di collegare in pochissimi secondi il volto di ciascun cittadino con la foto identificativa. Soprattutto – dicono – per rafforzare la sicurezza. E’ successo qualche settimana fa a un uomo sospettato di reati economici, finito in manette durante un concerto pop a Nanchang, nella Cina sudorientale: le forze dell’ordine sono state in grade di individuarlo in mezzo a 50mila persone. Nella corsa a immagazzinare i dati degli utenti, asset fondamentale nelle campagne pubblicitarie, finanche nel sistema di credito sociale, da tempo Alibaba, Tencent e Baidu trasferiscono alle forze dell’ordine le tracce elettroniche degli utenti. Il riconoscimento facciale sta rivoluzionando i più svariati settori, dal retail banking ai pagamenti online, sollevando diverse polemiche sul tema della privacy dei cittadini.
La Cina ha già assunto una posizione dominante nel mercato mondiale della videosorveglianza: si contano 176 milioni telecamere di sicurezze, con un tasso di crescita annuale del 13% dal 2012 al 2017. Il 3% della crescita globale impallidisce a confronto.
Gran parte di queste telecamere, dalle carceri ai grandi magazzini, possiede un software sviluppato da Sense Time. Che attenzione: non è l’unica società ad avere avviato sperimentazioni con le forze di polizia. Deve fare i conti con le rivali, Megvii e Yitu; queste società hanno in comune l’altissimo valore di mercato. Nel febbraio scorso, in occasione del consueto esodo di massa per i festeggiamenti del Capodanno lunare, la polizia ferroviaria di Zhengzhou arrestò 7 ricercati e 26 truffatori in possesso di documenti falsi. Sugli occhiali degli agenti era stata installata una mini telecamera in grado di realizzare uno screening di massa quasi perfetto. In quel caso il dispositivo era stato realizzato da LLVision Technology Co.
Gli occhi di Sense Time sono ovunque. Se entri in un negozio di Suning, colosso dell’elettronica (quello che ha comprato l’Inter), è possibile che una telecamera di sicurezza stia registrando ogni tuo movimento: dentro c’è un software di Sense Time.
Se apri Rong360, app molto popolare in Cina che serve a farsi prestare soldi da altra gente (il cosiddetto peer-to-peer lending: un sistema di crowdfunding individuale che sopperisce alla carenza del credito finanziario), ti verrà chiesto di fare login con il riconoscimento facciale. Chi lo sviluppa? Sense Time.
Potrebbe poi venirti voglia di farti un video e mandarlo agli amici utilizzando Snow, app simile a Snapchat, indossando occhiali per la realtà aumentata, prodotti da Sense Time.
Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha un ruolo cruciale nel piano Made in China 2025 – bersaglio del presidente americano Donald Trump – che prevede massicci investimenti in dieci settori strategici con l’obiettivo di creare un’industria all’avanguardia. La lezione di Zte, finita nel mirino di Washington (potrà tornare a fare business negli Stati Uniti a patto che paghi una multa di 1,3 miliardi di dollari e modifichi il management) insegna alla Cina che deve affrettarsi a rendersi indipendente sul versante dello sviluppo tecnologico.
Mentre vanno avanti i negoziati tra Washington e Pechino, che hanno raggiunto una tregua sulle dispute commerciali, uno dei settori nei quali gli americani temono di perdere l’egemonia è proprio l’intelligenza artificiale. A partire dal settore militare dove Pechino può già rivendicare posizioni di vantaggio. L’innovazione è il terreno in cui si consuma uno scontro più ampio: la Cina ha già scavalcato il Giappone come seconda potenza al mondo per brevetti internazionali e l’Onu prevede il sorpasso sugli Usa in tre anni.
il manifesto 30.5.18
Visco: «Il destino dell’Italia è nella Ue»
Banca d'Italia. Nelle Considerazioni finali il governatore respinge l'ipotesi di una uscita dall'euro. Niente avventure, potrebbero minare la stabilità e i risparmi: ridurre il debito e non toccare le pensioni
di Mirco Viola
Nella bufera dello scontro istituzionale, infiammato dalle parole del commissario Ue Oettinger, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco indica deciso la via europeista. Nelle sue Considerazioni finali, evento consueto degli ultimi giorni di maggio a Palazzo Koch, Visco dice a chiare lettere che «il destino dell’Italia è quello dell’Europa» e che, di conseguenza, «è importante che la voce dell’Italia sia autorevole nei contesti dove si deciderà il futuro dell’Unione europea».
Europa vuol dire vincoli europei, per la stabilità economica: la barra del governatore è ferma sul rispetto dei parametri a partire dal debito e dalle pensioni, note dolenti dei conti italiani. «Non sarebbe saggio – ammonisce Visco – ignorare le compatibilità finanziarie», e «non per rigidità a livello europeo o minacce speculative, ma perché le nostre azioni, i nostri programmi forniscono i segnali che orientano l’allocazione delle risorse a livello nazionale e globale». Non dovrebbero dunque preoccuparci presunti diktat dei mercati internazionali, o le direttive della Commissione, ma è la stessa logica che dovrebbe dettare all’Italia la linea: «Non sono le regole europee il nostro vincolo, è la logica economica».
I vincoli europei, in ogni caso, il numero uno di Bankitalia li lega alla Costituzione, quasi a entrare nel dibattito che si è aperto in questi giorni rispetto allo stop posto dal presidente Mattarella a Paolo Savona, ma senza mai fare riferimenti alla stretta attualità: «Le norme (anche europee, ndr) entro cui operiamo possono essere discusse, criticate. Vanno migliorate. Ma non possiamo prescindere – dice Visco – dai vincoli costituzionali: la tutela del risparmio, l’equilibrio dei conti, il rispetto dei Trattati. Soprattutto, bisogna avere sempre presente il rischio gravissimo di disperdere il poco tempo e con poche mosse il bene insostituibile della fiducia».
Il governatore rileva in particolare «la fiducia nella forza del nostro paese che, al di là di meschine e squilibrate valutazioni, è grande, sul piano economico e su quello civile». E per le recenti bufere sui mercati, con le tensioni sugli spread, «non ci sono giustificazioni, se non emotive».
Ma appunto, quello di questi giorni può essere solo l’antipasto. Nella sua relazione, il governatore ammonisce sulla possibilità che si sposino «alternative» rispetto a quelle accettate dalle norme e dalla prassi internazionale: «Gran parte del risparmio finanziario accumulato dagli italiani trova corrispondenza, diretta o indiretta, nei 2.300 miliardi del nostro debito pubblico – spiega Visco – Se venisse meglio a repentaglio il valore della loro ricchezza reagirebbero fuggendo, cercando altrove riparo». E tra l’altro, a peggiorare, «gli investitori stranieri sarebbero più rapidi»: «La crisi finanziaria che ne conseguirebbe farebbe fare al nostro Paese molti passi indietro. Macchierebbe in modo indelebile la reputazione dell’Italia nel mondo».
Bocciate, in larga parte, le misure indicate da Cinquestelle e Lega, specie quelle che farebbero aumentare il debito: bisogna stare attenti, dice Visco, a «non compromettere il futuro delle prossime generazioni: accrescere il debito vuole dire accollare loro quello che oggi non si vuole pagare».
Il debito pubblico può scendere: il rapporto debito/Pil, oggi al 132%, può tornare secondo la ricetta indicata da BankItalia sotto il 100% «nel giro di dieci anni se venisse gradualmente conseguito un avanzo primario tra il 3-4%» del Pil».
L’ultimo monito del governatore è sulla legge Fornero: attenti a non «fare passi indietro» rispetto alle riforme pensionistiche, dice. «Nel lungo periodo il contenimento del disavanzo e del debito poggia in larga misura sulla capacità della finanza pubblica di fare fronte all’aumento della spesa sociale determinato dall’invecchiamento della popolazione, in particolare nella previdenza e nella sanità. Le riforme introdotte in passato rendono gestibile la dinamica della spesa pensionistica». Mettere mano a queste riforme, che «hanno posto l’Italia in una posizione favorevole nel confronto internazionale», sarebbe rischioso, e Visco suggerisce «estrema prudenza» per non alterare l’attuale equilibrio.
Il Fatto 30.5.18
Conti correnti poco trasparenti. I “segreti” per cambiare banca
I deposti sono sempre più cari. È uno slalom continuo fra commissioni e balzelli
di Patrizia De Rubertis
Non si è obbligati e non si dovrebbe restare clienti a vita della stessa banca. Come non si è obbligati ad accettare silenziosamente e senza discutere tutte le proposte, i servizi e i pacchetti che ci propongono. Così, nel caso ci si rendesse conto che il proprio conto corrente costa di più rispetto a quello di un amico o un parente, è possibile rivolgersi a un altro istituto. Diversificare i prodotti è il miglior sistema per risparmiare. Ma su 30 milioni di correntisti, pochi continuano a saperlo. Il livello di cultura finanziaria degli italiani, secondo un’indagine condotta da Banca d’Italia, Ivass, Consob, Covip, Fondazione per l’educazione finanziaria e il Museo del risparmio, è infatti inferiore rispetto agli altri paesi Ocse. Ci si interessa poco dei temi finanziari e, spesso, se ne scopre il significato solo quando se ne fanno le spese. I casi di risparmio tradito ne sono l’inevitabile conseguenza. Eppure i clienti hanno un’arma importante: la portabilità che si applica ai conti correnti e che consente la chiusura dei contratti a costo zero.
In particolare, la facoltà di trasferire i servizi di pagamento, e il saldo presente, presso un altro conto deve essere garantito nel giro di 12 giorni lavorativi e chi sfora deve risarcire il correntista con un indennizzo di almeno 40 euro. La portabilità è prevista dal decreto legge 3/2015 sulle Banche popolari, ma ha avuto bisogno di circa un anno e mezzo per diventare operativa. È dal 14 giugno 2017 che sono, infatti, entrate in vigore le nuove regole che dovrebbero impedire alle banche di non mettere più i bastoni tra le ruote a coloro che le vogliono abbandonare, con la scusa di lungaggini burocratiche, numerosi balzelli e informazioni fuorvianti date agli sportelli. Con l’unico scopo di tenersi il cliente per anni, se non decenni. L’unica accortezza da prestare durante la portabilità è di ricordarsi degli assegni già emessi: meglio attendere che vadano all’incasso per non lasciare scoperto il conto. Inoltre, cambiando le coordinate bancarie andrà comunicato il nuovo Iban per tutti i rapporti in essere (accredito stipendio, addebito delle utenze o delle rate di un mutuo, ordini di bonifico permanenti, ecc).
Del resto muoversi fra le commissioni, confrontare le medie di settore e scegliere il conto migliore per le proprie tasche è un girone infernale. Anche se tutti questi calcoli dovrebbero essere facil mente comparabili sul sito dell’Abi Comparaconti.it (l’ex Pattichiari), da un anno il motore di ricerca è sospeso, perché manca l’adeguamento alla nuova direttiva europea sui pagamenti (Payment Accounts Directive). Per comparare i conti si possono solo consultare i siti online privati. L’alternativa è cercarsi da soli i fogli informativi sui siti delle banche (bisogna cercare la voce “Trasparenza”), oppure chiederli nelle filiali.
E lì scoprire l’Isc, l’Indicatore Sintetico di Costo voluto da Bankitalia nella nome della trasparenza, che permette di confrontare il costo dei conti delle banche per 6 diversi profili di operatività (giovani, famiglie con operatività bassa, famiglie con operatività media, famiglie con operatività elevata, pensionati con operatività bassa, pensionati con operatività media) e per i conti a consumo a un unico profilo (operatività particolarmente bassa). Certamente un passo in avanti per i clienti, ma con un evidente limite: l’Isc, che somma i costi annuali, fissi e variabili, non tiene conto del ruolo del salvataggio delle banche che hanno spinto gli istituti a introdurre nuovi balzelli, magari una tantum, e contribuzioni straordinarie che non rientrano in quelle voci standard. Così, se secondo l’ultima indagine annuale di Bankitalia, nel 2016 è cresciuta leggermente la spesa di gestione di un conto corrente bancario (circa 1,1 euro) attestandosi a 77,6 euro – e, come ovvio che sia, i conti online costano appena 14,7 euro – leggendo il report pubblicato a febbraio dal Corriere della Sera, che ha calcolato anche le tasse e il costo annuo, si scopre che in media nel 2018 il conto corrente costa 134 euro (+1,5% sul 2017), mentre per quello online servono 106 euro (+3,8%).
“Una diatriba, questa sul costo dei conti, che va avanti da 15 anni e che dimostra solo come il settore sia ancora caratterizzato da poca, trasparenza, correttezza e contrantabilità”, spiega Fabio Picciolini, esperto consumerista, che solleva anche un’altra questione: “Quanti italiani conoscono il conto corrente di base?”. Introdotto nel 2011, consente di effettuare le operazioni più semplici a condizioni convenienti (imposta di bollo esente canone mensile azzerato) per i clienti con Isee inferiore a 8.000. Mentre i pensionati con reddito fino a 18mila euro lordi lo possono avere con canone mensile azzerato. A ribadirlo lo scorso gennaio alle banche, che lo tengono ben nascosto tra i prodotti che offrono, è stato anche il Consiglio di Stato.
il manifesto 30.5.18
Gaza sull’orlo di una nuova guerra
La spirale. Giornata di attacchi del Jihad islami dopo l’uccisione di tre militanti e di pesanti rappresaglie di Israele, che non si spingeva a tanto dai tempi di «Margine Protettivo»
di Michele Giorgio
Una notte carica di tensione è scesa ieri lungo le linee tra Gaza e Israele al termine di una giornata che ha riportato le forze armate israeliane sull’uscio del piccolo territorio palestinese, come mai era accaduto da quando è terminata quattro anni fa l’offensiva «Margine Protettivo». La guerra non è mai stata tanto probabile come in questo momento.
«SARANNO DECISIVE le prossime ore per capire se questa escalation innescherà un conflitto più ampio. Nessuno degli attori principali vuole una guerra ma con attacchi e rappresaglie senza sosta le cose potrebbero sfuggire di mano», ci diceva ieri sera Aziz Kahlout, un giornalista di Gaza.
La Freedom Boat salpa da Gaza con il suo carico di feriti. Verrà bloccata in mare e sequestrata dalla Marina israeliana (foto Afp )
Nelle stesse ore ieri la Marina israeliana ha bloccato in mare e sequestrato la Freedom Boat, la nave palestinese partita ieri mattina dal porto di Gaza city con l’intento di violare il blocco navale di Gaza imposto da Israele.
UN ESITO LARGAMENTE ATTESO: Israele non consentirà alcuna violazione del blocco di Gaza così come nelle settimane passate ha reagito con il pugno di ferro alle manifestazioni popolari della Grande Marcia del Ritorno, usando i tiratori scelti contro i dimostranti palestinesi. «Le forze israeliane hanno circondato e intercettato la nostra imbarcazione con a bordo dei civili, tra i quali alcuni feriti delle settimane passate. Chiediamo protezione internazionale», ha invocato uno degli organizzatori della protesta, Salah Abdul Atti.
L’escalation è cominciata in seguito all’uccisione domenica di tre militanti del Jihad islami con una cannonata sparata da un carro armato israeliano dopo la scoperta sulle recinzioni di demarcazione di un ordigno pronto ad esplodere. Un quarto palestinese, Mohammed al Radie, è stato ucciso nella notte tra lunedì e martedì in un altro raid israeliano.
IL JIHAD AVEVA ANNUNCIATO la sua reazione che è scattata ieri alle prime luci del giorno. Da Gaza hanno sparato una trentina di colpi di mortaio, nello stesso momento e da tre punti diversi. A Sderot e in tutta la regione di Shaar HaNegev sono entrate in azione più volte le sirene di allarme e migliaia di israeliani hanno dovuto raggiungere i rifugi. Gran parte dei colpi di mortaio sono caduti in zona aperte e disabitate, altri sono stati intercettati. Almeno due sono finiti nei centri abitati, in un caso a breve distanza da un asilo che in quel momento era vuoto.
La reazione israeliana è stata pesante. In poche ore l’aviazione e l’artiglieria hanno colpito o preso di mira almeno 35 obiettivi della Jihad e anche di Hamas, non coinvolto nei lanci di mortaio ma che il governo Netanyahu considera responsabile della situazione a Gaza. E se i colpi di mortaio sparati dal Jihad sono stati l’attacco palestinese più ampio dal 2014 a oggi, i raid israeliani a loro volta sono stati i più pesanti degli ultimi quattro anni.
LA SPIRALE DI ATTACCHI e rappresaglie è andata avanti per tutto il giorno. Alle incursioni dell’aviazione israeliana sono seguiti a un certo punto anche lanci di razzi da parte ancora del Jihad e delle «Brigate Salah Edin» dei Comitati di resistenza popolare, anche verso Ashqelon, a nord di Gaza. Israele ha azionato più volte il sistema Iron Dome intercettando una parte dei razzi. «Guardiamo in modo severo agli attacchi contro il Paese e contro le nostre comunità da parte di Hamas e della Jihad islamica dalla Striscia di Gaza. L’esercito risponderà con grande forza», ha avvertito il primo ministro Netanyahu, aggiungendo che «Israele farà in modo che chiunque cerchi di danneggiarlo paghi un prezzo pesante». Altrettanto dure le dichiarazioni del ministro della difesa Avigdor Lieberman che ha più volte ribadito la sua linea di scontro con Hamas, espressa in modo compiuto dal fuoco dei soldati sui dimostranti palestinesi che chiedono la fine del blocco di Gaza.
IN CASA PALESTINESE si ripete che la calma non tornerà sino a quando gli israeliani non revocheranno l’assedio. Ma ieri sera l’Egitto era impegnato in un intenso e difficile lavoro di mediazione per placare lo scontro ed evitare una nuova guerra che avrebbe conseguenze spaventose soprattutto per la popolazione palestinese.
Il Fatto 30.5.18
Gaza-Israele: razzi e raid. Resta soltanto la guerra
Ordigni di Hamas intercettati dal sistema antimissile poi i bombardamenti aerei
I contendenti: “Non ci fermeremo”
di Fabio Scuto
È stato un altro giorno di guerra nella Striscia di Gaza e nelle zone israeliane che la circondano. Gli abitanti delle aree agricole ma anche delle cittadine come Sderot, Ashdod, Ofakim, sono stati svegliati dalle sirene di allarme pochi attimi prima che, i mortai sparati da Gaza, venissero intercettati dalla batteria “Iron Dome”. Ed è andata avanti così per tutta la giornata. Le sirene hanno suonato decine di volte per allertare i residenti che hanno finito per passare la giornata nei rifugi anti-bomba. Oltre 60 i colpi sparati dalla Striscia e trenta gli obiettivi colpiti dai raid dei caccia con la Stella di Davide. Una scheggia di un missile è caduta nel giardino di un asilo a Sderot, per fortuna chiuso a quell’ora del mattino.
Tre soldati e due civili sono stati comunque feriti lievemente. Il premier Benjamin Netanyahu promette fermezza contro chiunque minacci Israele, questa fiammata militare non finirà qui. Per il ministro dell’Intelligence Israel Katz “siamo nel punto più vicino allo scoppio della guerra dal 2014”. “Non vogliamo la guerra e nemmeno loro”, ha detto Katz, “ma abbiamo le nostre linee rosse”. La maggior parte dei proiettili di sparati da Gaza – fa sapere l’Idf – è stata distrutta dall’ “Iron Dome“, altri non sono stati intercettati perchè destinati a cadere in zone agricole o disabitate.
I colpi di mortaio sparati contro le comunità israeliane che si affacciano sull’enclave rappresentano il primo incidente del genere dalla fine di marzo, quando sono iniziate le manifestazioni di massa palestinesi lungo la Barriera di sicurezza che separa il confine. Durante questo periodo, Hamas si è astenuto dal lanciare missili e ha proibito ad altre organizzazioni nella Striscia di effettuare attacchi per non danneggiare la narrativa di una lotta popolare contro i cecchini israeliani. E ha sostenuto la sua tattica nonostante il fatto che circa 100 palestinesi siano stati uccisi e migliaia feriti dal fuoco dell’esercito israeliano.
Tuttavia, un cambiamento si è verificato negli ultimi giorni. Domenica l’Idf ha risposto all’esplosione una carica piazzata vicino alla Barriera sul confine. Un carro armato dell’esercito ha sparato e ucciso 3 miliziani della Jihad islamica che erano vicini a un avamposto di Hamas lungo quel tratto della Barriera.
Nei 4 anni dalla terribile “guerra dei 51 giorni” nel 2014, ci sono stati diversi momenti di escalation. I funzionari dell’intelligence israeliana sostenevano che Hamas non aveva il pieno controllo su Gaza e i razzi sparati dimostravano le sue difficoltà ad imporsi sulle fazioni palestinesi più piccole. Ma ora le circostanze sono diverse. Hamas ha dimostrato il suo fermo controllo sulla Striscia negli ultimi mesi e ha diretto le manifestazioni sul confine israeliano come desiderava, decidendo il tasso di violenza. Per gli islamisti restano due scelte: la guerra con Israele, ma le sue conseguenze intimoriscono Hamas, oppure altre manifestazioni al confine che spingeranno Israele a rispondere. Lo scopriremo venerdì.
Ieri sera gli Usa hanno chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza Onu. L’incontro è previsto per oggi pomeriggio. “Gli attacchi da Gaza sono i più importanti dal 2014” e hanno colpito “installazioni civili, tra cui un asilo”, ha denunciato l’ambasciatrice Nikki Haley, “il Consiglio di sicurezza dovrebbe essere indignato e rispondere a questo ultimo episodio di violenza contro innocenti civili israeliani”.
il manifesto 30.5.18
Ogni giorno un pogrom, a Kiev scorrazzano i nazi
Ucraina. Rinviato a giudizio killer di Rocchelli. Il governo ucraino richiama il nostro ambasciatore
di Yurii Colombo
MOSCA Un pogrom in piena regola quello avvenuto a Kiev la scorsa domenica contro alcuni negozi di venditori di origine caucasica, da parte di un nutrito gruppo di attivisti dell’estrema destra della capitale ucraina. Già il giorno precedente, nel tardo pomeriggio e poi al termine della finale di Champions League, gruppi di ultras ucraini legati a formazioni neonaziste avevano attaccato a freddo dei tifosi del Liverpool con coltelli e spranghe, ferendone alcuni e costringendone 2 alle cure ospedaliere.
NON CERTO UN CASO ISOLATO. La polizia, secondo l’Informator di Kiev, aveva già registrato ben 26 aggressioni contro cittadini stranieri nelle 48 ore precedenti l’incontro di calcio.
Il mattino successivo poi, circa 500 attivisti dell’estrema destra si sono presentati presso il centrale mercato «Lesnaya» decisi a punire i commercianti di origine caucasica che «avevano importunato degli ucraini». Secondo i neofascisti i commercianti di provenienza azera avrebbero malmenato qualche giorno prima una donna ucraina rea di aver tentato di rubare della frutta dai loro banchi.
IL CORTEO NEOFASCISTA, una volta dentro i padiglioni del mercato, al grido di «Straniero ricorda, qui siamo noi i padroni», ha distrutto e bruciato molte bancarelle di commercianti stranieri, come ha poi affermato lo stesso capo della polizia al giornale Segodnya.
Alcuni avventori che stavano filmando la scena sono stati minacciati da individui incappucciati appartenenti ai gruppi neofascisti S14, già passato alle cronache il 14 aprile scorso per l’assalto a un campo rom appena fuori Kiev che avevamo già denunciato sul manifesto, e Pravy Sektor. Solo più tardi la polizia è intervenuta fermando 37 presunti partecipanti all’assalto, poi rilasciati dopo un minaccioso presidio di militanti dell’estrema destra fuori dal commissariato di polizia. Si tratta solo dell’ultimo odioso caso di xenofobia contro stranieri o comunità locali non autoctone. Ormai in tutto il Paese scorrazzano liberamente gruppi della destra radicale. Solo 5 giorni fa a Ternopol, nell’Ucraina occidentale, un gruppo di estrema destra ha dato l’assalto a un accampamento rom. Per l’aggressione sono state arrestati 12 individui. E il 9 maggio vicino a Leopoli, a Rudny, si è ripetuto lo stesso macabro rito.
CHE IL POTERE CENTRALE e il governo di Poroshenko abbiano delle responsabilità per questa ondata crescente di violenze è dimostrato da come sta affrontando il caso giudiziario di Andrea Rocchelli. ll 24 maggio del 2014, il giornalista italiano e l’attivista dei diritti umani Andrey Mironov furono uccisi nei pressi di Slovyansk, una cittadina del Donbass, a causa di colpi di mortaio sparati contro l’auto su cui viaggiavano, durante la fase più calda della guerra tra l’esercito del Tridente e le milizie delle repubbliche ribelli del Donbass.
DIECI MESI FA, al termine di una lunga inchiesta, la polizia italiana arrestò a Bologna il presunto assassino di Rocchelli, Vitaly Markiv, allora membro della guardia nazionale ucraina. Da allora gruppi di estrema destra hanno tenuto vari presidi «di protesta» davanti all’ambasciata italiana a Kiev e a Roma. Ora, pochi giorni dopo che Markiv è stato rinviato a giudizio dal tribunale italiano, il ministero degli interni ucraino ha sentito perfino la necessità di convocare l’ambasciatore italiano a Kiev Davide La Cecilia: un evidente tentativo di intimidazione nei confronti della nostra magistratura e della nostra diplomazia
Repubblica 30.5.18
Innovazione
Uomini e robot la grande sfida del lavoro futuro
«Tra qualche anno i robot saranno in grado di guadagnare soldi che l’essere umano avrebbe potuto guadagnare per sé»
di Vito De Ceglia
La manifestazione di Trento, che si apre domani, analizza pericoli e vantaggi per l’occupazione della diffusione della tecnologia
Ci accolgono in hotel, assistono gli anziani, eseguono i lavori domestici, aiutano i medici negli ospedali, ci sostituiscono in casi di emergenza e fanno molto altro ancora. Mentre tutti si chiedono se ci ruberanno il lavoro o se ci miglioreranno la vita, i robot umanoidi hanno iniziato a lavorare per noi.
«Il numero non è ancora elevato, e la maggior parte dei prototipi oggi in circolazione ha una limitata intelligenza artificiale, ma i robot cresceranno velocemente dal punto di vista cognitivo e un giorno faranno le stesse cose degli esseri umani», premette Richard B. Freeman, docente di Economia alla Harvard University, conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sugli effetti dell’intelligenza artificiale e dei robot sul mercato del lavoro.
Non a caso, sarà l’esperto americano ad aprire domani il Festival dell’Economia di Trento (31 maggio - 3 giugno) con un intervento dal titolo emblematico: “Robot mania”.
Intervento che introduce il tema della manifestazione di quest’anno, focalizzata sull’impatto che avranno le nuove tecnologie nella società.
Un esempio concreto? «Le auto senza conducente: una rivoluzione epocale per il mondo del trasporto. Rivoluzione che però necessita di tempo per essere realizzata», risponde Freeman. «La sfida sarà quella di ottenere nei prossimi anni il massimo vantaggio da questo cambiamento per il bene della nostra società». Secondo i dati presentati dall’International Federation of Robotics (Ifr) nel 2025 il valore di mercato della robotica mondiale sarà di 70 miliardi di euro ed è prevista una crescita media annua di robot venduti nel mondo del 15 per cento. Il punto critico, secondo l’economista, sta nella gestione del cambiamento. Come dobbiamo comportarci? Cosa dovremo fare quando saranno le macchine a lavorare e guadagnare al posto nostro?
«Tra qualche anno i robot saranno in grado di guadagnare soldi che l’essere umano avrebbe potuto guadagnare per sé», spiega Freeman.
«L’affermazione “Chi detiene i robot governa il mondo” rappresenterà il mantra della società del futuro. Quindi, l’obiettivo deve essere quello di assicurarci che la gestione e la proprietà dei robot sia diffusa, così come i ricavi generati dalle macchine siano redistribuiti in modo uniforme, affinché questa enorme ricchezza non sia concentrata in poche mani».
Ma che cosa sono in grado di fare oggi i robot? «Già oggi vengono utilizzati spesso come forza lavoro in ambiti sanitari o nell’industria, ma devono essere perfezionati. Per migliorarne l’efficenza, dobbiamo però lavorare in modo da far convergere l’intelligenza cognitiva e l’intelligenza motoria della macchina. È possibile riuscirci entro 10-15 anni», risponde Roberto Cingolani, fisico “prestato alla robotica”, direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova, uno dei centri più importanti al mondo nell’ambito delle intelligenze e dei corpi artificiali. Cingolani è uno dei pochi che può spiegare, con cognizione di causa, che cosa vuol dire e che impatto avrà per l’umanità vivere insieme ai robot umanoidi. «Quando si affronta il rapporto uomo- macchina, ci vuole sempre il giusto equilibrio, che oggi non c’è», dice.
«Passiamo da momenti di esaltazione a un eccessivo catastrofismo, mentre dobbiamo essere realisti e pensare che negli ultimi vent’anni la ricerca ha fatto enormi progressi, ma escludo a priori che un giorno i robot sostituiranno i nostri affetti. Il concetto futuro è che queste macchine saranno come telefonini: con una sim molto veloce in grado di prendere e gestire tutte le app direttamente dal cloud per soddisfare ogni tipo di nostra richiesta».
Quello nato in casa Iit, - R1 - Your Personal Humanoid, risponde a queste caratteristiche. «R1 è paragonabile a una sorta di telefonino che in più è in grado di aiutarci», spiega il direttore. È un passo avanti fondamentale: perché si è passati da una robotica Formula 1 e si è arrivati a un’utilitaria. È il primo esempio del passaggio da una tecnologia di altissimo livello a una con una fruibilità maggiore». R1 nasce dallo sviluppo delle tecnologie del più noto iCub, il robot dal volto di bimbo sviluppato una decina di anni fa dall’Iit. «R1 non ha le performance di iCub ma è pensato per le prestazioni domestiche», conclude Cingolani. «L’idea è di mantenere l’umanoide al costo di uno scooter, come prototipo si andrà sui 10mila euro per poi scendere a seconda anche della produzione».
ààSecondo l’Ifr nel 2025 il valore di mercato della robotica mondiale sarà di 70 miliardi di euro GIi obiettivi saranno redistribuzione equa e uniforme dei ricavi generati dalle macchine e proprietà diffusa
Quasi umani
Nella foto grande, il dipartimento di robotica dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova.
Sotto, l’umanoide R1 e il robot iCub
il manifesto 30.5.18
Cannabis light: il ministero dà il via libera
Fuoriluogo. Dalle Politiche agricole una circolare che fornisce alcuni chiarimenti applicativi rispetto al mercato dei derivati della canapa
di Giacomo Bulleri
Dopo circa un anno e mezzo dall’entrata in vigore della legge per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa (L. 242/2016), il ministero delle Politiche agricole ha ritenuto opportuno fornire con una circolare alcuni chiarimenti applicativi rispetto al mercato dei derivati della canapa.
Appare evidente come tale intervento sia stato mosso dall’esigenza di regolamentare il fenomeno della cosiddetta cannabis light che, nell’arco di un anno, ha dimostrato di costituire un fenomeno mediatico, culturale e soprattutto economico. Si parla di circa 1000 nuove aziende – agricole e commerciali – sorte intorno a tale produzione con il conseguente indotto in termini occupazionali ed economici.
La circolare si propone di fornire chiarimenti su due tematiche che, a detta dello stesso Mipaaf, rappresentavano delle «zone grigie» della normativa, ossia il florovivaismo e le infiorescenze. La previsione sulle infiorescenze rappresenta sicuramente la nota positiva del provvedimento in commento.
La circolare, richiamando la norma comunitaria, ribadisce il valore dello 0,2% quale limite del tenore Thc (il principio attivo psicotropo della cannabis) nei prodotti di canapa, menzionando sia quella greggia (e quindi anche le infiorescenze), sia le sementi destinate sia alla semina che ad usi diversi. Dal tenore letterale della circolare si evince quindi come il ministero ritenga questo il limite di principio attivo, in conformità con la normativa comunitaria in materia sia di regime degli aiuti sia in materia di importazioni.
Quella prevista dall’art. 4 della legge, lo 0,6% di Thc, rappresenta dunque soltanto una soglia di tolleranza per l’agricoltore, a tutela del coltivatore per non incorrere in sanzioni in caso di sforamenti che in agricoltura si possono sempre verificare.
La circolare sancisce la legittimità delle infiorescenze precisando come «pur non essendo citate espressamente dalla legge» esse rientrano «nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo» purché tali prodotti presentino tre requisiti: derivate da varietà ammesse, iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole; con un contenuto di Thc non superiore ai livelli previsti dalla normativa di cui sopra; che non contengano sostanze dichiarate dannose per la salute.
Appare pertanto evidente come la circolare sancisca la liceità delle infiorescenze quali prodotti florovivaisti risolvendo e superando definitivamente gli escamotage sinora utilizzati. La circolare consente di chiamare le infiorescenze con il proprio nome: fiori prodotti da attività florovivaiste, ovviamente nel rispetto della normativa di settore relativa.
D’altro lato, con la ratio di garantire la tracciabilità fino al seme, viene vietata tout court la possibilità di riproduzione per via agamica (es. per talee) ai fini della loro commercializzazione e, soprattutto, la possibilità di acquistare talee per ottenere prodotti da essa derivati. In conclusione si può dire che la circolare, firmata dal Viceministro Olivero, si inserisce in un percorso in atto inerente regolamentazione e autoregolamentazione del settore. Un processo invocato dalle stesse associazioni di categoria che recentemente hanno presentato il disciplinare di produzione delle infiorescenze. Uno strumento volto a garantire quelle finalità di tracciabilità, qualità e tutela del consumatore menzionate dal Ministero stesso nella circolare, e che a breve verrà pubblicato ad uso e consumo degli operatori del settore che vi vorranno aderire su base volontaria.
Il commento integrale alla circolare del Mipaaf del 22.05.2018 dell’avv. Bulleri on line su fuoriluogo.it
Corriere 30.5.18
Bartali oltre il mito, un vero eroe
Personaggi
Stefano Pivato rievoca in un saggio (Castelvecchi) la fede che ispirò al campione la grande generosità umana
Non è esatto che vincendo il Tour evitò la guerra civile ma il ciclista aiutò centinaia di ebrei
di Gian Antonio Stella
Il terziario domenicano fra Tarcisio di Santa Teresa del Bambin Gesù, al secolo Gino Bartali, rifiutava di salire sulla bicicletta la domenica mattina, se non era prima andato alla Santa Messa. Tanto, ridevano gli amici fiorentini, «l’era bono de dare una cenciata a tutti pur partendo dopo». La storia della mitica vittoria al Tour de France del 1948, che lo santificò come patrono della riconciliazione per aver miracolosamente placato gli animi ribollenti dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, deve però essere riscritta. Almeno in parte.
Lo sostiene Stefano Pivato, già rettore a Urbino e autore di libri come Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda o Al limite della docenza. Tornando a un tema caro anni fa, cioè il ciclismo o meglio il «velocipedismo» degli albori osteggiato dai cattolici (che ci vedevano «non solo uno strumento eccessivamente moderno ma addirittura “una vera anarchia” assimilabile all’ermafroditismo») lo storico spiega in Sia lodato Bartali (Castelvecchi) che quel trionfo parigino merita sì di esser ricordato tra le memorie politiche del Paese, però...
Per cominciare, basta con la leggenda del Fausto comunista («Coppi accoppaci Bartali», si leggeva sui muri) e del Gino baciapile. Che «fra Tarcisio» fosse cattolico, intendiamoci, non si discute. Se tutti i campioni si ritrovarono cuciti addosso soprannomi tipo «Diavolo rosso (Gerbi), L’airone (Coppi), La locomotiva umana (Guerra), Il fornaio volante (Bergamaschi), Il signore della Montagna (Binda), Il leone delle Fiandre (Magni)», spiega Pivato, quelli bartaliani (eccezion fatta per Ginettaccio) «fan tutti riferimento alla sua fede: Il pio, Il magnifico atleta cristiano, L’arcangelo della montagna, L’arrampicatore divino...».
Fotografato «a un polveroso quadrivio mentre inghirlanda un Tabernacolo» spiega: «Ho pregato la Madonna di Lourdes che mi facesse vincere ancora e mi ha esaudito». Lo stesso Pio XII lo esalta: «Guardate il vostro Gino Bartali, membro dell’Azione cattolica: egli ha più volte guadagnato l’ambita “maglia”. Correte anche voi in questo campionato ideale, in modo da conquistare una ben più nobile palma».
Ma Fausto Coppi, prima di finire fra i «cattivi» per il rapporto con la Dama bianca, era davvero comunista? Risponde «La voce del parroco» di Coriano, Rimini: «Alcuni che pur volentieri simpatizzerebbero per Bartali, sostengono però Coppi per il semplice motivo che il Fiorentino, essendo dell’Azione cattolica, puzza un po’ troppo di prete e non sanno che, se puzza di prete Bartali, Coppi puzza come Gino, se non di più, perché non solo è iscritto all’Azione cattolica, ma è addirittura vicepresidente dell’Associazione Uomini di Azione cattolica della sua parrocchia».
Di più ancora: alla vigilia del 18 aprile 1948 ha firmato col rivale un appello promosso da Luigi Gedda nel quale gli «uomini del pedale» ricordano «a tutti gli amici il richiamo che il Santo Padre, nel giorno della Pasqua, ha lanciato al popolo italiano: “La grande ora della coscienza cristiana è suonata”». Macché, la devozione a «Gino il Pio» e gli estasiati racconti dei giornali cattolici per «la saldezza dei suoi garretti, la semplicità del suo sorriso, la schiettezza della sua fede», finiscono per schiacciare Fausto dall’altra parte. Gino è bianco? Fausto dev’esser rosso.
Eccoci al giorno fatale. Ricorderà il cantastorie Marino Piazza ne L’attentato a Togliatti, ballata poi ripresa da Francesco De Gregori e Giovanna Marini: «Le ore undici del quattordici luglio/ dalla Camera usciva Togliatti,/ quattro colpi gli furono sparati/ da uno studente vile e senza cuor». A sparare al segretario del Pci, che si salverà grazie a un intervento chirurgico, è un giovane nazionalista fanatico, Antonio Pallante. Allarme in tutto il Paese: «Hanno sparato a Togliatti, è la rivoluzione».
In realtà, scrive Pivato, «né il 14 luglio e neppure nei giorni successivi ci sarebbe stata la rivoluzione». Certo, scoppiano scontri sanguinosi e il bilancio sarà pesante: da 14 a 44 morti (e già l’abisso tra le cifre la dice lunga sui dubbi...) a seconda delle stime. Ma, contrariamente a quanto teme chi pensa a un complotto, «è fuor di dubbio» si tratti «di una rivolta spontanea, una forma di jacquerie che coglie di sorpresa il Partito comunista ma anche la Cgil che si adoperano per far rientrare quelle proteste». Fatto sta che 48 ore dopo l’attentato al leader comunista «la situazione nel Paese è tornata alla normalità. Il 16 luglio l’ordine è ripristinato».
E la mitica vittoria al Tour? «L’impressione è quella di una memoria costruita a posteriori attorno al ruolo taumaturgico di Bartali», risponde lo storico. Occhio alle date: «Il 14 luglio, il giorno in cui Togliatti viene ferito, coincide con l’anniversario della presa della Bastiglia e il Tour osserva un giorno di riposo. Il giorno successivo, il 15 luglio, Bartali si aggiudica la Cannes-Briançon e Luison Bobet conserva la maglia gialla che aveva vestito il 5 luglio. Il 16 Bartali vince la Briançon-Aix-les-bains e indossa la maglia di leader che porterà fino a Parigi, il 25 luglio». È a questo punto che «la stampa, soprattutto quella cattolica, saluta Bartali come salvatore della patria. Ma fra il giorno dell’attentato e la vittoria finale di Bartali sono trascorsi undici giorni e le piazze sono pacificate da tempo».
Lo riconoscerà lo stesso Montanelli: la vittoria di Bartali «funzionò da calmante dei bollori, allentò la tensione, sviò l’attenzione» ma «la rivoluzione non sarebbe scoppiata in nessun caso. Non scoppiò perché Togliatti, lo sappiamo bene, non volle che scoppiasse». Eppure, alla vigilia del settantesimo anniversario di quel trionfo parigino che esaltò l’Italia intera, unendola intorno all’impresa, «Ginettaccio» merita un ricordo ancor più riconoscente: «Fra il 1943 e il 1944 il cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, allestisce una rete clandestina per il salvataggio degli ebrei rifugiati o profughi. Bartali, incaricato direttamente dal cardinale fiorentino, compie vari viaggi in bicicletta dalla stazione di Terontola-Cortona fino ad Assisi trasportando documenti e fototessere nascoste nei tubi della bicicletta. Bartali compie varie volte il percorso e, secondo le testimonianze, contribuisce al salvataggio di circa 800 ebrei».
Sapeva di rischiare grosso: nel 1939 Albert Richter, un ciclista tedesco campione del mondo tra i dilettanti, era stato fermato dalla Gestapo mentre tentava di portare in Svizzera, nascosti nei tubolari della bicicletta, migliaia di marchi destinati a una famiglia ebraica. Ed era stato «suicidato». Altri si sarebbero tirati indietro. Gino, che schedato dalla polizia mussoliniana come «esponente dell’Azione giovanile cattolica e non del fascismo», no. Senza mai vantarsi, in un dopoguerra stracolmo di sedicenti «antifascisti», di quei gesti eroici che lo avrebbero fatto riconoscere come «Giusto tra le nazioni» dallo Yad Vashem, l’Ente per la Memoria della Shoah. Restano di lui, oltre alle vittorie, una miriade di aneddoti. Uno su tutti, ricordato da Gianni Mura. Presentazione di un libro su Gianni Brera a Milano. C’è anche il vecchio Gino, sugli ottanta: «Uno degli organizzatori aveva allertato un autista: verso mezzanotte sarà stanco e vorrà andare a dormire. Esattamente alle 3:55 Bartali, dopo aver raccontato non so cosa a Fabio Capello, disse: “Oh, ragazzi, qui o salta fuori un mazzo di carte o me ne vo a letto”».
Corriere 30.5.18
Il film rinnegato di Bergman: spy story sulle torture in Urss
Girato nel 1950, escluso dalle rassegne. Il regista lo giudicava troppo rozzo
di Maurizio Porro
Non si finisce mai di scoprire Bergman. È appena venuto alla luce lo script scritto per la Rai sul Vangelo (che poi fece Zeffirelli) ed ecco che la Cineteca di Bologna per il Festival del cinema ritrovato (23 giugno-1 luglio) annuncia la prima proiezione in Italia, eccezionalmente concessa dalla Fondazione Bergman, di Ciò non accadrebbe qui, da un romanzo di Waldemar Brogger, film girato nel 1950 in clima da guerra fredda e mai apparso nelle retrospettive del maestro che disconobbe quell’opera ferocemente anti-comunista, quasi maccartista, commissionata dalla Svenk Filmindustri e girata di malavoglia e anche con la sinusite.
Il titolo dell’opera, che uscì il 23 ottobre 50, significa che in Svezia, così pacifica che non ricorda neppure cosa sia una guerra, come si dice, sarebbe impossibile una dittatura, perché ci sono gli anticorpi. È lo stesso concetto espresso dall’americano Sinclair Lewis nel libro Da noi non può succedere che sembrava una premonizione, scritta decenni prima, sul trumpismo.
Bergman firma un film che è un oggetto misterioso nella sua filmografia che poco si è occupata di politica (a parte La vergogna e L’uovo del serpente) o guerra. In questa storia, il Maestro nato il 14 luglio di cento anni fa a Uppsala (infatti l’omaggio bolognese comprende il restauro del Settimo sigillo e un documentario della Von Trotta) mostra invece i disastri che combina una dittatura, nello stato di Liquidatzia che assomiglia molto all’impero sovietico: minaccia la Svezia, tortura esuli e oppositori (il «trattamento» dura 24 ore), perseguita i fuggitivi, inventa le barriere elettriche da lager e minaccia la terza guerra mondiale. La rifugiata protagonista, tornata a Stoccolma (Signe Hasso, attrice lanciata in America come la «seconda Garbo») sposa un agente perfido che tiene sempre con sé una cartella coi nomi delle spie e degli informatori, ma resta pure in contatto con gli americani sperando in un futuro migliore.
Quando la donna uccide il marito, si scatena la caccia: gli oppositori si riuniscono come carbonari dietro lo schermo di un cinema dove si proietta Paperino, sgommano le auto nel centro di Stoccolma, finché il cattivo Akta Natas (vero Satana in anagramma) si suicida e la donna renitente alla dittatura è salvata per miracolo su una nave in partenza. Privo dei primi piani bergmaniani, dei suoi silenzi, pieno di fughe e corse in auto, potrebbe essere un qualunque film di spie anni 50 americano di Hathaway con Richard Widmark cattivo, invece lo firma di malagrazia un regista che già si era fatto notare per delicatezza di sguardi — e che nello stesso anno gira Un’estate d’amore.
Nel prologo di Ciò non accadrebbe qui, su biblici cieli tempestosi, si dice che ogni riferimento alla realtà non è puramente casuale, ma forse è proprio il tono manicheo e ultimativo che ha fatto disconoscere da Ingmar la sua opera in cui si leggono comunque in filigrana alcuni temi congeniali: i discorsi del pastore, le tavole di un teatro, la quotidiana congiura tra uomo e donna che rientra in un più vasto doppio gioco.
Ma su tutto domina la retorica sul popolo svedese e «il diritto di essere felici», si accusa il falso eroismo del regime, si dice che non si può cambiare il mondo così, e la filosofia è che alla fine di ogni rivoluzione in scena restano solo gli assassini.
Repubblica 30.5.18
Paolo Taviani “Andrò avanti senza Vittorio finché l’Italia non risorgerà”
intervista di Arianna Finos
ROMA Paolo senza Vittorio.
«È la prima volta che parlo di mio fratello...». Le frasi restano un po’ sospese, ora che non c’è l’altra metà dei Taviani a completarle. Un mese e mezzo fa, il 15 aprile, la morte di Vittorio, i funerali in forma privata, il riserbo. «Ci avete visto sempre insieme, lavorare e vivere.
La mancanza, il senso di vuoto che provo potete immaginarli, io non riesco a esprimerli».
In queste settimane Paolo Taviani ha accompagnato in Europa l’ultimo film Una questione privata, girato da lui ma firmato da entrambi. «Sono stato in Svizzera, a Barcellona, Siviglia, Londra. Ovunque le reazioni sono state entusiaste. È antipatico autocelebrarsi, ma è andata così».
La vita deve andare avanti.
«Molti mi chiedono: ma continui a lavorare? Ieri guardando le date di nascita mi sono accorto che sono più vecchio di mio padre, di mia madre, dei miei nonni e dei miei bisnonni. Ma non intendo dare le dimissioni e lasciare, almeno finché non vedrò risorgere dalle macerie questo nostro disgraziato paese».
Le è stato consegnato un Nastro speciale, anche in omaggio a Vittorio, per la regia di “Una questione privata”.
«A me piace questo Nastro d’argento che va al film. E quindi a Vittorio, a me e a tutti quelli che lo hanno realizzato. Ai collaboratori, alla produttrice, agli attori, ai tecnici, agli operai. Va a tutti.
Perché dico questo? In questo film la gente ha lavorato con passione.
Si dice sempre, lo so, ma questa volta è stata una passione dovrei dire speciale, perché non c’era Vittorio. E sul set tutti si davano da fare per aiutarmi e mi hanno aiutato. Ognuno a suo modo.
Durante i primi giorni uno di loro mi disse, con un sorriso complice, sottovoce: “Guarda che quando alla fine di una scena dici ‘Stop, buona’, ti volgi e guardi alle tue spalle come a cercare una conferma che la scena va bene. Cerchi Vittorio, Paolo, ce ne siamo accorti tutti”».
Il ricordo più forte di questo vostro ultimo film insieme, anche se lei era sul set in Piemonte e Vittorio a Roma?
«Ogni giorno il materiale girato veniva trasferito su dvd e inviato a Vittorio, che lo vedeva dopo un giorno o due. Ci telefonavamo e, come sempre, discutevamo, litigavamo, apprezzavamo quello che c’era. Come sempre abbiamo fatto per tutta la vita. Per me il momento più bello è stato quando Vittorio ha visto la scena in cui la bimba sdraiata che si crede morta si alza, va in cucina a bere dell’acqua e si rimette accanto alla madre morta perché non sa dove andare: “Malgrado sapessi tutto di questa scena di cui abbiamo parlato tanto mi sono commosso”, disse Vittorio, “spero che il pubblico faccia come me”».
Alla vigilia di Cannes, un festival che ha celebrato i vostri film, è scomparso Ermanno Olmi, un vostro grande amico e produttore di “Una questione privata”.
«Con Ermanno ci ha legato un antico rapporto di amicizia. Il film non sarebbe stato possibile senza il coraggio di una produttrice come Donatella Palermo, che crede in un cinema a volte difficile per il grande pubblico. Lei segue questa strada di rigore e ha il nostro affetto e riconoscenza insieme a Betta Olmi e a suo padre Ermanno. Il rapporto con Olmi è sempre stato stretto.
Io credo che nel Dopoguerra dopo il Neorealismo, che è stato il Rinascimento della cultura e del cinema italiano, solo alcuni film sono stati all’altezza di quella grandezza: L’albero degli zoccoli di Ermanno è uno di questi. La cosa speciale e buffa che succedeva è che a lui facevano i complimenti per Padre padrone e a noi invece li facevano per L’albero degli zoccoli, pensando che fosse nostro. I nostri erano film solo apparentemente
lontani, che in fondo avevano un legame forte».
“Una questione privata”, tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio, è ambientato nel passato ma coglie il clima che si respira oggi nel nostro Paese.
«All’inizio alcuni, leggendo il copione, ci dicevano: “Ma come, ancora i fascisti?”. Noi, mi ricordo, rispondevamo: “Quando abbiamo finito di girare La notte di San Lorenzo ci siamo detti che speravamo di non dover parlare più dei fascisti. Tucidide scriveva che per capire la guerra bisogna conoscere la storia delle guerre che accadono tra persone che si conoscono: quello è il senso più orribile del conflitto. Noi pensavamo, allora, che fosse finita, che di fascisti non avremmo parlato più. E invece, mentre si lavorava a questo film, abbiamo sentito un’aria di fascismo di ritorno.
Nel nostro Una questione privata si vedono i ragazzi della Repubblica di Salò, sono giovani, come i partigiani: è una battaglia tra ragazzi. I fascisti attaccavano sulle pareti dei paesi un manifesto in cui si vede un nero che allunga una manona su una bellissima donna bianca. Quel manifesto è stato ripreso nell’ultima campagna elettorale e attaccato nei paesi del Nord. Questo ci ha colpito, come ci hanno colpito gli insulti ad Anna Frank allo stadio. Abbiamo detto: non sembra, ma in forme non del tutto diverse il fascismo tenta di rinascere. Fenoglio non li chiamava scarafaggi, il nome scarafaggi neri glielo abbiamo dato noi. Raccontando quella storia sentivamo di parlare del nostro presente».
Parlando del presente, cosa pensa della figura del presidente Mattarella in questo momento politico?
«Ho una grande ammirazione per gli uomini che hanno coraggio.
Mattarella appartiene a quella categoria di uomini».
Repubblica 30.5.18
L’intervista
“Ora l’Opera è davvero finita: abbiamo visto oscillare i neutrini”
Giovanni De Lellis è professore di Fisica Sperimentale all’Università di Napoli
di Elena Dusi
Doveva cercare un ago in un pagliaio. Ne ha trovati dieci. Opera ha concluso la sua missione di “acchiappaneutrini”. L’apparato scientifico grande come un palazzo di tre piani costruito nei Laboratori del Gran Sasso aveva il compito di acciuffare “le particelle più vicine al nulla che esistano”, sparate in un fascio dal Cern di Ginevra verso la montagna abruzzese. In particolare, doveva confermare sperimentalmente un’intuizione di Bruno Pontecorvo del 1957: di neutrino non ne esiste un solo tipo, ma tre. E questo era stato dimostrato in passato. Ma Pontecorvo predisse anche che durante le loro peregrinazioni nel cosmo queste particelle si trasformano, saltando da una famiglia all’altra. È il fenomeno dell’oscillazione dei neutrini e Opera l’ha osservato per 10 volte. Oggi i suoi risultati escono su Physical Review Letters. Ma lo strumento, nei suoi 20 anni di vita, ha anche conquistato le prime pagine dei quotidiani per aver ipotizzato che i neutrini viaggiassero più veloci della luce. Si trattava però di un errore strumentale. Era il 2011 e nel commentare la notizia l’allora ministro Gelmini commise una delle più indimenticabili gaffe fra quelle dei politici impegnati a parlare di scienza. Dimenticando che i neutrini attraversano indisturbati la Terra, esaltò le prodezze ingegneristiche del tunnel di 732 km tra il Cern e il Gran Sasso. Tunnel che non esiste, ovviamente.
Giovanni De Lellis è professore di Fisica Sperimentale all’Università di Napoli, ricercatore di quell’Istituto nazionale di fisica nucleare che gestisce il Gran Sasso e dal 2012 coordinatore dei 180 fisici di 11 paesi che hanno lavorato in Opera. Nei Laboratori abruzzesi ha riassunto vent’anni di lavoro e stappato lo spumante di rito.
Come si cattura un neutrino?
« Abbiamo scelto una strada old fashion per il rilevatore, ma avanzatissima per l’analisi dei dati. Molti rilevatori, nel campo della fisica, oggi sono completamente elettronici. Opera invece è come una macchina fotografica che usa una pellicola con cristalli di bromuro d’argento. Anziché dalla luce, come le macchine fotografiche normali, le nostre lastre vengono impressionate dalle particelle, come quelle prodotte in alcuni casi per effetto del passaggio dei neutrini».
Suona un campanello?
« Ma no, possono passare mesi prima che ce ne accorgiamo. Le pellicole impressionate sono contenute in uno dei 150mila mattoncini che compongono l’esperimento. Un robot recupera il mattoncino e uno scanner legge le pellicole, ricostruendo le traiettorie delle particelle che le hanno attraversate. Il fascio di neutrini dal Cern è durato dal 2008 al 2012 e in questi cinque anni abbiamo raccolto 10mila interazioni di neutrini. Dopo averle analizzate una per una, abbiamo visto che solo 10 erano neutrini tau, cioè neutrini che si erano trasformati durante il tragitto da Ginevra ( dal Cern partivano solo neutrini di tipo mu). È stato a volte frustrante. Ma non quella sera».
Quale sera?
« Il 30 novembre 2009. Ero all’Università a Napoli e come al solito analizzavo tracce di particelle. All’improvviso apparve lei, nitida. Era la prima apparizione al mondo del neutrino tau. Si vedeva il punto in cui interagiva all’interno del mattoncino, dando vita a una cascata di nuove particelle, fra cui il leptone tau: la prova della oscillazione. In quella immagine c’era un intero corso di fisica delle particelle. Oggi la usiamo con gli studenti».
A Opera lavorava un gruppo nutrito di fisici giapponesi.
«Sì, loro sono stati pionieri dell’analisi automatica delle emulsioni e abbiamo condiviso il lavoro con loro. Un nutrito gruppo di fisici napoletani ha lavorato a lungo all’Università di Nagoya. Per disperazione il sabato sera andavamo a mangiare la pizza lì vicino».
Come andò invece la vicenda dei neutrini più veloci della luce?
« È stato un momento difficile per il nostro gruppo. Lo abbiamo superato concentrandoci sul nostro obiettivo primario: la ricerca del neutrino tau».
E ora? Cosa succede a un grande esperimento quando raggiunge il suo obiettivo?
« Lo strumento non c’è più, è stato smontato. Un altro apparato prenderà il suo posto, nella caverna sotto al Gran Sasso. Le emulsioni non sviluppate saranno recuperate per i prossimi esperimenti. Altri pezzi verranno usati dai cinesi per un rivelatore nuovo che stanno costruendo. Il piombo verrà riutilizzato direttamente al Gran Sasso».
E voi fisici?
«Ognuno sceglierà un nuovo esperimento a cui lavorare, al Cern, al Gran Sasso o altrove. In alcuni casi resteremo insieme. Io continuerò a occuparmi di neutrini, ma anche di materia oscura. In cerca di nuove piste per la fisica del futuro».
Repubblica 30.5.18
Big Bang
Tutte le stelle della galassia
di Gianfranco Bertone
È passato meno di un mese dall’attesissima pubblicazione dei nuovi dati di Gaia, il satellite dell’Agenzia spaziale europea che sta rivoluzionando la nostra comprensione dell’universo. In queste quattro settimane, astronomi di tutto il mondo hanno cominciato a setacciare quei dati, e già più di 60 articoli scientifici sono stati pubblicati su argomenti che variano dagli ammassi globulari alle galassie nane, e dalle scie stellari agli aloni di materia oscura. Tra i tanti risultati interessanti ce n’è uno particolarmente intrigante, che ha a che fare con una domanda che tutti ci siamo posti prima o poi nella vita osservando il cielo notturno: quante sono le stelle?
Ne vediamo ormai ben poche dai centri urbani in cui gran parte della popolazione in Italia vive: da poche decine a poche centinaia.
Ma con un cielo perfettamente buio e senza Luna, se ne potrebbero ammirare fino a circa cinquemila. Si tratta, con pochissime eccezioni, di stelle della nostra galassia, la Via Lattea, il cui disco ci appare come una striscia luminosa che attraversa tutto il cielo. Quella striscia è fatta anch’essa di stelle, come dimostrò Galileo Galilei quattro secoli fa, quando scrisse nel suo trattato Sidereus Nuncius che la Via Lattea «non è altro che una congerie di innumerevoli stelle disseminate a mucchi» il cui numero è «del tutto inesplorabile».
Per capire qualcosa in più si dovette aspettare il lavoro di astronomi come Jacobus Kapteyn e Edwin Hubble, che all’inizio del ventesimo secolo dimostrarono come la galassia in cui viviamo sia una sorta di “universo isola” in cui le stelle ruotano in maniera ordinata intorno a un centro comune. Misurando la velocità di rotazione delle stelle, e applicando le leggi di Newton, diventava così possibile calcolare la massa totale delle stelle della Via Lattea.
Finora questa quantità era rimasta relativamente incerta, ma un’analisi dei dati di Gaia sul movimento di alcuni agglomerati di stelle noti come “ammassi globulari” ha permesso risultati più precisi: entro un raggio di 65 mila anni luce dal centro della galassia la massa totale delle stelle, dalle piccole e abbondanti nane brune alle rare stelle giganti, è compresa tra 28 e 67 miliardi di volte la massa del Sole. Se siamo interessati a stelle come il nostro Sole, Gaia fornisce quindi una stima approssimata per eccesso del loro numero: 67 miliardi.
Cosa forse ancora più importante per gli astronomi, Gaia ha permesso anche di misurare la massa totale della Via Lattea fornendo risultati preziosi sulla quantità di materia oscura presente nella nostra galassia, la quale risulta essere, nella stessa regione, 4 volte superiore a quella delle stelle.