il manifesto 3.5.18
A quarant’anni dalla legge Basaglia
Fra normale e patologico una frontiera sensibilmente politica
A cura di Vittorio Lingiardi e Nancy Mc Williams, il «Manuale Diagnostico Psicodinamico», da Cortina
di Franco Lolli
A
quarant’anni dalla legge Basaglia, che venne varata il 13 maggio del
1978, uno sforzo ancora ci attende: riaffermare non solo la dimensione
soggettiva del fenomeno psicopatologico, ma anche il suo profondo legame
con la struttura macro-sociale di cui è espressione. Si tratta – come
scrive Mark Fisher, in Realismo capitalista – di «ripoliticizzare la
malattia mentale»: la diagnosi psicologica deve intrecciarsi a quella
sociale (e, più in generale, politica) del fenomeno psicopatologico e a
una simultanea analisi critica delle dinamiche (economiche, in special
modo) che ne sono, in parte, all’origine.
In assenza di questa
attenzione, gli operatori della salute mentale corrono il rischio di
mettersi al servizio di quelle che Günther Anders, già nella prima metà
del secolo scorso, definiva le «potenze conformanti» (e dalle quali,
inascoltata, metteva in guardia la psicoanalisi statunitense).
SAPPIAMO,
del resto, che lo strumento diagnostico può trasformarsi in uno
strumento di potere, della cui forza eventi drammatici della storia
recente hanno chiaramente dato testimonianza. La domanda dalla quale
partire riguarda sempre e comunque il limite oltre il quale l’eventuale
eccentricità di una condotta (o di un pensiero) è da valutare come
disturbo psichico. Questa questione investe i criteri che stabiliscono
il confine tra la «normalità» e la «malattia», e pone una questione di
enorme portata, perché pone le basi, per esempio, per stabilire (e
autorizzare) la necessità di un intervento psicofarmacologico, oppure,
l’opportunità di giustificare l’assenza dal lavoro causata da una
dichiarata condizione di sofferenza psichica o, ancora, la possibilità
di avviare una pratica assicurativa di riconoscimento del proprio stato
di malattia. Ora, i parametri che fissano questa soglia mutano al mutare
delle condizioni storiche, il che pone, evidentemente, questioni
cliniche ed etiche di straordinario rilievo. La recente uscita, a cura
di Vittorio Lingiardi e Nancy Mc Williams, della seconda versione del
Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2, Cortina editore, pp. 1142,
euro 89) offre lo spunto per una duplice riflessione sulla diagnosi in
ambito psicopatologico, costituendo la risposta al famoso Manuale
Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali e a quella che molti
considerano la sua tendenza a una eccessiva medicalizzazione.
LINGIARDI
e Mc Williams sembrano, in effetti, voler rettificare l’impostazione
del manuale voluto dall’American Psychiatric Association introducendo,
nella classificazione dei disturbi psichici, l’idea che espressioni
esistenziali «fuori norma», se in grado di assicurare una certa tenuta
dell’equilibrio della persona, non siano da iscrivere necessariamente
nel registro del patologico. In questa prospettiva, il concetto di
soglia della malattia tiene conto della particolarità di ciascuno di
noi, e della nostra capacità di trovare soluzioni (anche se, a volte,
bizzarre e non convenzionali) alla questioni che ci incalzano. Come
scrivono gli autori nell’introduzione al volume, il Manuale Diagnostico
Psicodinamico intende evidenziare «l’importanza di considerare chi è
quella persona e non solo che cosa ha quella persona»: ed è proprio
grazie a questa attenzione allo specifico funzionamento psichico di
soggetti diversi che la valutazione della diagnosi diventa uno strumento
di conoscenza, piuttosto che di catalogazione.
SPETTA AL CLINICO –
ed è questa la seconda riflessione che si impone – un uso ragionato e
ragionevole di questo strumento: un uso, cioè, che non colluda – anche
se inconsapevolmente – con la tanto silenziosa quanto insidiosa
richiesta del sistema socio-culturale dominante di medicalizzare a tutti
costi il disagio e di cancellare le differenze soggettive, per
uniformare gli esseri umani al modello del «cittadino consumatore» che
sostiene l’attuale regime economico. L’operazione diagnostica, in
psicoanalisi, non deve misurare lo scarto dalla norma: serve invece a
indicare il modo in cui ogni singolo essere umano «se l’è cavata» con le
sue questioni più radicali, con il desiderio e le attese dell’altro,
incarnato tanto nelle figure genitoriali, quanto nei messaggi
(educativi, culturali, valoriali, e così via) di cui ogni essere umano
è, sin dalla sua nascita, involontariamente destinatario. Come ci ha
ricordato Mark Fisher, il sistema «nutre e riproduce» strutture di
funzionamento collettivo che, inevitabilmente, riverberano i loro
effetti sul piano individuale.
LA DIFFUSIONE di sintomatologie
psichiche (per esempio i disturbi infantili dell’attenzione e
dell’apprendimento, le sindromi depressive, i quadri clinici bipolari,
il fenomeno degli attacchi di panico, l’ampio spettro delle dipendenze)
non può, dunque, essere correlata ai soli fattori costituzionali o
biografico-familiari, ma deve tener conto del sistema
economico-culturale nel quale quelle specifiche patologie proliferano.
Occorre prendere atto del contesto politico entro cui il disagio
psichico si produce: associare, cioè, la valutazione diagnostica in
senso psicopatologico a quella del sistema socio-economico del quale
esso è, in una certa misura, il prodotto.