il manifesto 19.5.18
Richard Falk: «Un massacro per dire ai palestinesi: la vostra è una resistenza impossibile»
Gaza.
Intervista al giurista ed ex relatore speciale delle Nazioni unite:
«Tel Aviv vuole convincere il mondo che non esista una soluzione. Ma i
popoli ora sanno che la resistenza popolare può supplire all’inferiorità
militare: dalla loro parte hanno la superiorità morale e un fine più
alto, l’autodeterminazione»
di Chiara Cruciati
La
brutalità della risposta israeliana alla Marcia del Ritorno palestinese
di Gaza ha generato uno sdegno che non si vedeva da tempo. Centinaia di
manifestazioni in tutto il mondo e inusuali condanne da parte di molti
governi. La Lega Araba si è risvegliata dal torpore e chiesto
un’indagine internazionale; il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha
votato per il lancio di un’inchiesta.
Ne abbiamo discusso con
Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale alla
Princeton University e dal 2008 al 2014 relatore speciale per le Nazioni
unite sulla questione palestinese.
In un suo articolo, scritto
dopo la strage di Gaza di lunedì scorso, parla di un «nuovo livello di
degradazione morale, politica e legale» israeliana. Un “salto di
qualità” nell’uso della forza?
Siamo di fronte a un nuovo livello
di quella che chiamo alienazione morale, visibile nella normalizzazione
dell’uccisione a sangue freddo di manifestanti disarmati, senza nemmeno
tentare di usare metodi alternativi per la messa in sicurezza dei
confini. Quello di Gaza ha i contorni di un massacro calcolato,
confermato dalle dichiarazioni della leadership israeliana. Parte dello
sviluppo di questa alienazione morale è la luce verde data dalla
presidenza Trump: qualsiasi cosa Israele voglia fare, può farlo. Sono
due le dimensioni del massacro: la motivazione interna israeliana
nell’affrontare la questione palestinese e la tolleranza esterna.
Richard Falk
Dice massacro calcolato: qual è l’obiettivo politico?
Le
ragioni ufficiali, Hamas e la sicurezza dei confini, non sono quelle
reali. Quello che Israele vuol fare è convincere i palestinesi di essere
impegnati in una resistenza impossibile. E mandare un messaggio
all’Iran e agli altri avversari nella regione: Israele non ha limiti
nell’uso della forza, questa sarà la reazione verso chiunque.
La legalità internazionale esiste ancora?
Le
regole ci sono, quel che manca è la volontà politica di applicarle.
Oggi prevalgono i fattori geopolitici. La questione palestinese è
l’esempio più ovvio di questo «veto geopolitico», che annulla qualsiasi
sforzo di far rispettare la legalità internazionale e di prendere misure
nel caso di violazioni. A ciò si aggiunge un altro elemento: Israele
sta provando a far passare l’idea che i palestinesi hanno perso la
battaglia della soluzione politica e che dunque non c’è ragione di usare
strumenti politici per proteggerli dalle politiche israeliane. Israele
vuole convincere il mondo che questo tipo di lotta non abbia più
significato e valore. La conseguenza è visibile: il veto geopolitico
protegge Israele e lega le mani all’Onu, incapace di offrire protezione.
Così si indebolisce l’intero sistema.
È dunque esercizio futile pensare a procedimenti legali per i crimini commessi da Israele?
Il
diritto penale internazionale è sempre stato un sistema imperfetto
perché non si applica agli Stati che godono di un certo livello di
impunità. Dopo la seconda guerra mondiale, i tribunali di Norimberga e
Tokyo giudicarono solo i crimini commessi dagli sconfitti, non quelli
commessi dai vincitori, penso alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Quei crimini non furono perseguiti, ma «legalizzati»: l’atomica si è
tradotta nella proliferazione di armi nucleari. La struttura del diritto
penale internazionale si basa su un doppio standard che si esprime sul
piano istituzionale nel potere di veto riconosciuto ai vincitori della
guerra, veto che li esenta dall’obbligo di rispondere delle proprie
azioni e che si estende ai paesi amici.
Possiamo chiederci da cosa
derivi l’impunità israeliana attuale: da una parte dai paesi arabi
preoccupati da quella che percepiscono come la minaccia iraniana e che
li spinge a normalizzare i rapporti con Israele; dall’altra
dall’amministrazione Usa che sta ringraziando i sostenitori interni
della campagna di Trump. Su questi altari si sacrifica la visione degli
ebrei liberali che vogliono una soluzione politica.
Lei ha spesso
parlato di regime di apartheid, nei Territori Occupati ma anche dentro
Israele. Un sistema unico: il palestinese è discriminato ovunque si
trovi (che risieda nei Territori o sia cittadino israeliano),
l’israeliano gode di privilegi ovunque esso viva, a Tel Aviv come in una
colonia.
Il cuore del conflitto non è la terra, ma i popoli.
L’intera idea di uno Stato ebraico implica lo svuotamento della
Palestina storica dai non ebrei. Ma a differenza del Sudafrica, Israele
intende anche porsi come democrazia. L’apartheid israeliana, dunque, non
passa per la negazione della cittadinanza ai palestinesi che vivono nel
territorio dello Stato, ma in una serie di leggi che distinguono tra
chi è ebreo e chi non lo è, dal diritto al ritorno fino alla proprietà
della terra. A ciò si aggiunge l’elemento della frammentazione del
popolo palestinese: l’apartheid passa per la divisione dei palestinesi
in territori separati e dunque in diversi status giuridici.
Vede
all’orizzonte un cambiamento positivo? L’ultimo secolo ha dimostrato che
l’impossibile a volte è possibile. Penso alla fine dell’apartheid in
Sudafrica o più recentemente alle primavere arabe. Lì a prevalere non
sono state le parti più forti ma quelle deboli. Dopo l’epoca coloniale
una delle trasformazioni a cui abbiamo assistito è la ridefinizione dei
rapporti di forza: non sempre la forza militare vince su quella
politica. Pensate al Vietnam. I popoli hanno imparato che la resistenza
popolare può supplire all’inferiorità militare perché dalla loro parte
hanno la superiorità morale e la capacità di elaborare le perdite per un
fine più alto, l’autodeterminazione. Condividi:
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