il manifesto 17.5.18
Istat, record di poveri assoluti: in un anno 261 mila in più
Rapporto
annuale. Sfondato il tetto di cinque milioni di persone. «Riformare i
centri per l’impiego». Movimento 5 Stelle rilancia il «reddito di
cittadinanza» nel «contratto di governo». Analisi delle ragioni che
spingono a istituire anche in Italia un sistema di "workfare" alla
tedesca. Per l'Istat siamo il "secondo paese più vecchio al mondo":
168,7 anziani ogni 100 giovani. La popolazione totale è diminuita per il
terzo anno consecutivo di quasi 100mila persone rispetto al precedente:
al 1° gennaio 2018 eravamo 60,5 milioni, con 5,6 milioni di stranieri
(8,4%)
di Roberto Ciccarelli
La crescita
dell’occupazione trainata dal lavoro precario e a termine ha portato
anche all’aumento della povertà assoluta. Nel 2017 ha riguardato poco
meno di 1,8 milioni di famiglie. Secondo il rapporto annuale dell’Istat
presentato ieri alla Camera. gli individui coinvolti sono circa 5
milioni, con un aumento di 154 mila famiglie e 261 mila individui in più
rispetto al 2016. A queste cifre bisogna aggiungere altri 6 milioni.
Tante sono «le persone che vorrebbero lavorare» senza riuscirci. Dal
punto di vista territoriale, la povertà assoluta aumenta nel Mezzogiorno
e nel Nord, mentre scende nel Centro. Ciò ha portato a un balzo delle
diseguaglianze economiche. Hanno raggiunto un livello di 6,4 (6,3 nel
2016). È il risultato di un’analisi effettuata a partire dagli
indicatori del Benessere equo e sostenibile (Bes) introdotti dal
Documento di economia e finanza (Def) 2018.
IL NUOVO RECORD si
registra in un paese dove quasi il 90% delle persone alla ricerca di un
lavoro si rivolge a « reti informali» dei conoscenti, di amici e
parenti. Poi arriva alle agenzie di intermediazione, annunci, università
e, infine, ai centri per l’impiego. Da qui la richiesta rivolta alla
politica dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, che ha chiesto «il
rafforzamento dei servizi per l’impiego» considerati come «un elemento
cruciale per realizzare politiche attive del lavoro efficaci, anche con
riferimento alle misure di contrasto della povertà e dell’esclusione
sociale».
IL MOVIMENTO 5 STELLE ha preso la palla al balzo e ha
sottolineato le dichiarazioni di Alleva. Nella bozza di «contratto» con
la Lega, resa noto ieri, ai centri per l’impiego il prossimo governo
destinerà 2 miliardi di euro. Più i 17 miliardi (stima Istat risalente
al 2015) per la truffa linguistica del «reddito di cittadinanza» – così è
ancora scritto nel documento anche se si tratta di un reddito
condizionato all’obbligo di accettare un lavoro. A cosa tende questa
rinnovata insistenza sull’istituzione di un «worfare» neoliberista sul
modello tedesco («Hartz IV») ? Per i senatori dei Cinque Stelle che
hanno commentato a caldo il rapporto Istat, questo sistema sarebbe il
modo per arrestare la «svalutazione del lavoro, dei diritti e delle
tutele». Sarebbe un’occasione per redistribuire le risorse in un paese
dove il «gap» tra ricchi e poveri si allarga. Difficile sostenere questa
posizione con un governo «carioca» che con la Flat Tax della Lega tende
a premiare la ricchezza, la proprietà e ad aumentare le diseguaglianze.
L’ipotesi per cui «un reddito minimo condizionato alla formazione e al
reinserimento lavorativo» (così è stato definito propriamente da
Pasquale Tridico, ministro del lavoro in pectore dei Cinque Stelle)
serva a una redistribuzione si regge sulla vecchia idea che
disoccupazione e precarietà siano uno stato momentaneo al termine del
quale torneranno a spendere. In realtà è la condizione strutturale in
cui si trovano almeno 8 milioni di poveri «relativi» e più di cinque
milioni di poveri «assoluti».
QUESTO RAGIONAMENTO si regge
sull’ipotesi, tutta da dimostrare, per cui il lavoro intermediato dai
centri per l’impiego sia a tempo indeterminato. Per questo il «reddito
di cittadinanza» farlocco dovrebbe diminuire fino a estinguersi, stando a
dichiarazioni di Di Maio. Considerata la natura precaria della ripresa
occupazionale questa è una scommessa rischiosa sulla vita di milioni di
persone. Senza contare le incognite legate al prometeico intento di
creare un sistema di «workfare» che impiegherà anni per essere creato
(se mai sarà creato). Per sostenere un simile scenario di lunga lena i
Cinque stelle hanno parlato di investimenti statali in «settori ad alto
ritorno occupazionale, il 34% dei quali da destinare al Mezzogiorno».
Senza, il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca. Resta da
vedere se riusciranno a mobilitare risorse Ue. È un’incognita. Per ora
si discute se cambiare i trattati europei o meno.
L’UNICO
«CAMBIAMENTO» in vista sul reddito – che non è di base né incondizionato
– è quello della monetizzazione della povertà e una messa al lavoro dei
poveri per aumentare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro.
Così inteso il «reddito» è un modo per creare una bolla occupazionale e
dire che il Lavoro esiste perché lo dicono le statistiche.
*** «Il secondo paese più vecchio al mondo»
Nel
rapporto annuale Istat l’Italia è il paese più vecchio del mondo dopo
il Giappone con un’aspettativa di vita di 81 anni per gli uomini e di 85
per le donne e con 170 over 65 ogni 100 bambini tra zero e 14 anni. Una
situazione rischiosa per il sistema previdenziale dato che il tasso di
occupazione pur in crescita (al 58% nel 2017) resta tra i più bassi in
Europa per la più alta precarietà delle donne. La qualità della vita è
diseguale. A Bolzano si guadagnano 10 anni (69,3 per gli uomini e 69,4
anni per le donne). Gli uomini della Calabria e le donne della
Basilicata 51,7 e 50,6 anni.
*** In 10 anni il lavoro operaio si è terziarizzato
In
un decennio la mappa del lavoro è cambiata e il lavoro manuale segna
una decisa contrazione: tra il 2008 e il 2017 sono scesi di un milione
gli occupati classificati come «operai e artigiani» mentre si contano
oltre 860 mila unità in più per le «professioni esecutive nel commercio e
nei servizi» in cui rientrano gli impiegati con bassa qualifica. Il
lavoro operaio, manuale, industriale non è finito ma si sta trasformando
seguendo una tendenza ormai storica verso un’economia terziarizzata e
proletarizzata. Lo ha rilevato l’Istat nel rapporto annuale:
nell’industria si sono perse 895mila «unità» di lavoro e nei servizi se
ne sono guadagnate 810mila.