il manifesto 15.5.18
Strage di palestinesi, Netanyahu elogia tiratori scelti
Gerusalemme/Gaza.
Ieri mentre a Gerusalemme gli Stati uniti inauguravano la loro
ambasciata, a Gaza l'esercito israeliano apriva il fuoco sui dimostranti
palestinesi. 52 morti e oltre 2mila feriti. Tra le vittime anche
ragazzini. Per Netanyahu i soldati hanno protetto il confine di Israele
di Michele Giorgio
GERUSALEMME
«I nostri coraggiosi militari proteggono i confini di Israele anche
mentre stiamo parlando. Vi rendiamo onore!». La strage di Gaza è
avvenuta ad appena 50 km da dove Benyamin Netanyahu, i suoi ospiti
americani e i diplomatici anche di quattro Paesi dell’Unione europea,
stavano inaugurando, tra cerimonie, sorrisi e strette di mano,
l’ambasciata americana ad Arnona nella periferia meridionale di
Gerusalemme. Il premier israeliano ha avuto di nuovo parole d’elogio
per i suoi soldati che ieri hanno fatto il tiro al piccione colpendo a
morte oltre 50 palestinesi, alcuni quali dei ragazzini. E ciò che non
hanno fatto i cecchini l’hanno completato aerei e mezzi corazzati. Una
prestazione meritevole di onori speciali visto che la vita dei
palestinesi che non sembra aver più alcun valore. Non uomini, donne e
bambini ma “terroristi” a qualsiasi età, a 14 come a 30 anni. E non
importa che quei palestinesi uccisi e i 2410 feriti fossero disarmati,
ad eccezione di tre, uccisi, secondo il portavoce militare, mentre
piazzavano un ordigno sotto le barriere tra Israele e Gaza. «Hamas
vuole distruggere Israele e ha mandato migliaia di persone verso le
recinzioni, abbiamo il diritto di difenderci» ha proclamato Netanyahu
dando il via al coro di coloro che si affretteranno a confermare: sì,
erano tutti terroristi. Che due milioni di palestinesi vivano pure il
loro ergastolo a Gaza, come bestie in meno di 400 kmq, con poca acqua,
senza risorse, senza lavoro, senza elettricità, senza speranze.
Netanyahu
giustifica la strage di ieri con il diritto all’autodifesa e a
proteggere i confini del Paese. Ma lo stesso esercito israeliano dice
che non ci sono state violazioni alle frontiere durante le
manifestazioni. Ha parlato invece di (presunti) attacchi “concertati”
alla barriera nel tentativo di infiltrarsi. I soldati in ogni caso non
hanno esitato a sparare contro chi si avvicinava nel pieno rispetto,
hanno rimarcato comandi dell’esercito, delle “regole d’ingaggio”.
Dall’altra parte nel frattempo contavano i morti, minuto dopo minuto.
Le vittime sono tutte molto giovani, pochi avevano più di trent’anni.
Che la giornata sarebbe finita in un lago di sangue, il più grande
dall’offensiva israeliana del 2014, si è capito subito. Prima delle 14
c’erano già sette morti a Gaza. La carneficina è durata fino a sera
quando i manifestanti sono arretrati. Negli ospedali è stato l’inferno,
l’emergenza è andata avanti sino a notte fonda. I medici hanno fatto
il possibile per strappare alla morte i feriti più gravi, spesso non ci
sono riusciti. «Siamo sfiniti ma continuiano a lavorare, mentre i
materiali sanitari si stanno esaurendo» ci raccontava il dottor Said
Sehwel, dell’ospedale al Awda nel nord di Gaza. «Il nostro è un piccolo
ospedale eppure nelle ultime ore abbiamo soccorso circa 150 persone ed
effettuato diversi interventi d’urgenza» ha aggiunto «alcuni dei feriti
sono stati colpiti all’addome o al torace, uno al collo. Tre sono in
condizioni molto gravi. E non abbiamo abbastanza gasolio per garantire
che i generatori autonomi di elettricità possano funzionare nelle
prossime 48 ore».
Una situazione altrettanto grave la
raccontavano i medici di altri piccoli ospedali, cliniche e ambulatori
che ieri hanno aperto le porte per accogliere i feriti meno seri ed
evitare che si intasassero le sale operatorie degli ospedali più grandi
e meglio attrezzati per i casi più gravi, come lo Shifa e l’Europeo di
Khan Yunis. «Tutto il sistema sanitario di Gaza è al collasso eppure
va avanti e continua a fare del suo meglio per assistere i feriti,
alcuni sono poco più che bambini. Poco fa abbiamo rivolto un appello a
donare il sangue», ci diceva ieri sera Nasser al Qidwa, il portavoce
del ministero della sanità di Gaza. Fuori dagli ospedali madri in
lacrime e padri con il volto tra le mani in attesa di sapere delle
condizioni dei figli feriti gravi o morti e portati all’obitorio. Scene
strazianti che non si vedevano dal luglio 2018, come i funerali
improvvisati delle vittime alle quali le famiglie hanno preferito dare
una sepoltura immediata. Mohammed, Ezzedin, Alaa, Ismail, Fadel…Sono
alcuni dei nomi delle vittime di cui nessuno chiederà. Per Israele
erano solo terroristi.
Chissà se Jared Kushner, genero di Trump e
inviato speciale per il dossier israelo-palestinese, sa che a Gaza gli
ospedali possono lavorare solo grazie ai generatori. E che a Gaza si
può morire per malattie da noi considerate facilmente curabili a causa
del blocco. Questo giovane ricco americano dalla faccia da bambino al
quale Trump ha chiesto di risolvere il conflitto mediorientale, si è
permesso di affermare che «le manifestazioni di Gaza sono parte del
problema e non parte della soluzione». Anche Kushner è intervenuto con
un suo discorso alla cerimonia di 81 minuti con la quale gli Stati
uniti hanno inaugurato la loro ambasciata a Gerusalemme tra le proteste
dei palestinesi. Il presidente americano non c’era ma ha inviato un
videomessaggio di due minuti e mezzo alla folta platea di invitati
all’inaugurazione dell’ambasciata, molti dei quali esponenti di primo
piano dell’Amministrazione e del Congresso. «Gerusalemme è la capitale
d’Israele che è uno Stato sovrano e ha diritto di stabilire la
capitale dove vuole», ha detto Trump attribuendosi poi il merito di
aver realizzato ciò che i suoi predecessori, a suo dire, non avevano
avuto il coraggio di fare. Poi, dopo aver appiccato il fuoco, Trump
candidamente ha ribadito la volontà americana di «facilitare un
accordo per una pace duratura e di sostenere lo status quo dei luoghi
santi di Gerusalemme». Quindi la scena è stata tutta per il premier
israeliano Netanyahu che ha ringraziato Trump e ha parlato di «momento
storico» per Israele nel 70esimo anniversario della sua fondazione.
Solo
a fine giornata si è sentita la voce del presidente palestinese Abu
Mazen che ha condannato il massacro a Gaza e il trasferimento
dell’ambasciata Usa. «Quello a cui abbiamo assistito non è stata
l’inaugurazione di un’ambasciata a Gerusalemme ma l’apertura di un
insediamento coloniale americano», ha commentato. Un po’ poco per un
presidente che afferma di guidare un popolo che vive una delle fasi più
critiche dalla sua storia.