martedì 15 maggio 2018

il manifesto 15.5.18
Israele, 200 armi nucleari puntate sull’Iran
di Manlio Dinucci


La decisione degli Stati uniti di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano – stipulato nel 2015 da Teheran con i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania – provoca una situazione di estrema pericolosità non solo per il Medio Oriente.
Per capire quali implicazioni abbia tale decisione, presa sotto pressione di Israele che definisce l’accordo «la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran», si deve partire da un fatto ben preciso: Israele ha la Bomba, non l’Iran.
Sono oltre cinquant’anni che Israele produce armi nucleari nell’impianto di Dimona, costruito con l’aiuto soprattutto di Francia e Stati Uniti. Esso non viene sottoposto a ispezioni poiché Israele, l’unica potenza nucleare in Medioriente, non aderisce al Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, che invece l’Iran ha sottoscritto cinquant’anni fa.
Le prove che Israele produce armi nucleari sono state portate oltre trent’anni fa da Mordechai Vanunu, che aveva lavorato nell’impianto di Dimona: dopo essere state vagliate dai maggiori esperti di armi nucleari, furono pubblicate dal giornale The Sunday Times il 5 ottobre 1986.
Vanunu, rapito a Roma dal Mossad e trasportato in Israele, fu condannato a 18 anni di carcere duro e, rilasciato nel 2004, sottoposto a gravi restrizioni. Israele possiede oggi (pur senza ammetterlo) un arsenale stimato in 100-400 armi nucleari, tra cui mini-nukes e bombe neutroniche di nuova generazione, e produce plutonio e trizio in quantità tale da costruirne altre centinaia.
Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici, come il Jericho 3, e su cacciabombardieri F-15 e F-16 forniti dagli Usa, cui si aggiungono ora gli F-35. Come confermano le numerose ispezioni della Aiea, l’Iran non ha armi nucleari e si impegna a non produrle sottoponendosi in base all’accordo a stretto controllo internazionale. Comunque – scrive l’ex segretario di stato Usa Colin Powell il 3 marzo 2015 in una email venuta alla luce – «quelli a Teheran sanno bene che Israele ha 200 armi nucleari, tutte puntate su Teheran, e che noi ne abbiamo migliaia».
Gli alleati europei degli Usa, che formalmente continuano a sostenere l’accordo con l’Iran, sono sostanzialmente schierati con Israele. La Germania gli ha fornito quattro sottomarini Dolphin, modificati così da poter lanciare missili da crociera a testata nucleare. Germania, Francia, Italia, Grecia e Polonia hanno partecipato, con gli Usa, alla più grande esercitazione internazionale di guerra aerea nella storia di Israele, la Blue Flag 2017.
L’Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare (Legge n. 94, 2005), vi ha partecipato con caccia Tornado del 6° Stormo di Ghedi, addetto al trasporto delle bombe nucleari Usa B-61 (che tra non molto saranno sostituite dalle B61-12). Gli Usa, con F-16 del 31st Fighter Wing di Aviano, addetti alla stessa funzione.
Le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico Nato, nel quadro del «Programma di cooperazione individuale» con Israele, paese che, pur non essendo membro della Alleanza, ha una missione permanente al quartier generale della Nato a Bruxelles. Secondo il piano testato nella esercitazione Usa-Israele Juniper Cobra 2018, forze Usa e Nato arriverebbero dall’Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran.
Essa potrebbe iniziare con un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, tipo quello effettuato nel 1981 a Osiraq in Iraq. In caso di rappresaglia iraniana, Israele potrebbe far uso di un’arma nucleare mettendo in moto una reazione a catena dagli esiti imprevedibili.

il manifesto 15.5.18
Strage di palestinesi, Netanyahu elogia tiratori scelti
Gerusalemme/Gaza. Ieri mentre a Gerusalemme gli Stati uniti inauguravano la loro ambasciata, a Gaza l'esercito israeliano apriva il fuoco sui dimostranti palestinesi. 52 morti e oltre 2mila feriti. Tra le vittime anche ragazzini. Per Netanyahu i soldati hanno protetto il confine di Israele
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «I nostri coraggiosi militari proteggono i confini di Israele anche mentre stiamo ‎parlando. Vi rendiamo onore!». La strage di Gaza è avvenuta ad appena 50 km da ‎dove Benyamin Netanyahu, i suoi ospiti americani e i diplomatici anche di quattro ‎Paesi dell’Unione europea, stavano inaugurando, tra cerimonie, sorrisi e strette di ‎mano, l’ambasciata americana ad Arnona nella periferia meridionale di ‎Gerusalemme. Il premier israeliano ha avuto di nuovo parole d’elogio per i suoi ‎soldati che ieri hanno fatto il tiro al piccione colpendo a morte oltre 50 palestinesi, ‎alcuni quali dei ragazzini. E ciò che non hanno fatto i cecchini l’hanno completato ‎aerei e mezzi corazzati. Una prestazione meritevole di onori speciali visto che la ‎vita dei palestinesi che non sembra aver più alcun valore. Non uomini, donne e ‎bambini ma “terroristi” a qualsiasi età, a 14 come a 30 anni. E non importa che ‎quei palestinesi uccisi e i 2410 feriti fossero disarmati, ad eccezione di tre, uccisi, ‎secondo il portavoce militare, mentre piazzavano un ordigno sotto le barriere tra ‎Israele e Gaza. «Hamas vuole distruggere Israele e ha mandato migliaia di persone ‎verso le recinzioni, abbiamo il diritto di difenderci» ha proclamato Netanyahu ‎dando il via al coro di coloro che si affretteranno a confermare: sì, erano tutti ‎terroristi. Che due milioni di palestinesi vivano pure il loro ergastolo a Gaza, come ‎bestie in meno di 400 kmq, con poca acqua, senza risorse, senza lavoro, senza ‎elettricità, senza speranze.
Netanyahu giustifica la strage di ieri con il diritto all’autodifesa e a proteggere i ‎confini del Paese. Ma lo stesso esercito israeliano dice che non ci sono state ‎violazioni alle frontiere durante le manifestazioni. Ha parlato invece di (presunti) ‎attacchi “concertati” alla barriera nel tentativo di infiltrarsi. I soldati in ogni caso ‎non hanno esitato a sparare contro chi si avvicinava nel pieno rispetto, hanno ‎rimarcato comandi dell’esercito, delle “regole d’ingaggio”. Dall’altra parte nel ‎frattempo contavano i morti, minuto dopo minuto. Le vittime sono tutte molto ‎giovani, pochi avevano più di trent’anni. Che la giornata sarebbe finita in un lago ‎di sangue, il più grande dall’offensiva israeliana del 2014, si è capito subito. Prima ‎delle 14 c’erano già sette morti a Gaza. La carneficina è durata fino a sera quando i ‎manifestanti sono arretrati. Negli ospedali è stato l’inferno, l’emergenza è andata ‎avanti sino a notte fonda. I medici hanno fatto il possibile per strappare alla morte ‎i feriti più gravi, spesso non ci sono riusciti. «Siamo sfiniti ma continuiano a ‎lavorare, mentre i materiali sanitari si stanno esaurendo» ci raccontava il dottor ‎Said Sehwel, dell’ospedale al Awda nel nord di Gaza. «Il nostro è un piccolo ‎ospedale eppure nelle ultime ore abbiamo soccorso circa 150 persone ed effettuato ‎diversi interventi d’urgenza» ha aggiunto «alcuni dei feriti sono stati colpiti ‎all’addome o al torace, uno al collo. Tre sono in condizioni molto gravi. E non ‎abbiamo abbastanza gasolio per garantire che i generatori autonomi di elettricità ‎possano funzionare nelle prossime 48 ore».
Una situazione altrettanto grave la ‎raccontavano i medici di altri piccoli ospedali, cliniche e ambulatori che ieri ‎hanno aperto le porte per accogliere i feriti meno seri ed evitare che si intasassero ‎le sale operatorie degli ospedali più grandi e meglio attrezzati per i casi più gravi, ‎come lo Shifa e l’Europeo di Khan Yunis. «Tutto il sistema sanitario di Gaza è al ‎collasso eppure va avanti e continua a fare del suo meglio per assistere i feriti, ‎alcuni sono poco più che bambini. Poco fa abbiamo rivolto un appello a donare il ‎sangue», ci diceva ieri sera Nasser al Qidwa, il portavoce del ministero della sanità ‎di Gaza. Fuori dagli ospedali madri in lacrime e padri con il volto tra le mani in ‎attesa di sapere delle condizioni dei figli feriti gravi o morti e portati all’obitorio. ‎Scene strazianti che non si vedevano dal luglio 2018, come i funerali improvvisati ‎delle vittime alle quali le famiglie hanno preferito dare una sepoltura immediata. ‎Mohammed, Ezzedin, Alaa, Ismail, Fadel…Sono alcuni dei nomi delle vittime di ‎cui nessuno chiederà. Per Israele erano solo terroristi.
 Chissà se Jared Kushner, genero di Trump e inviato speciale per il dossier israelo-‎palestinese, sa che a Gaza gli ospedali possono lavorare solo grazie ai generatori. E ‎che a Gaza si può morire per malattie da noi considerate facilmente curabili a ‎causa del blocco. Questo giovane ricco americano dalla faccia da bambino al quale ‎Trump ha chiesto di risolvere il conflitto mediorientale, si è permesso di affermare ‎che «le manifestazioni di Gaza sono parte del problema e non parte della ‎soluzione». Anche Kushner è intervenuto con un suo discorso alla cerimonia di ‎‎81 minuti con la quale gli Stati uniti hanno inaugurato la loro ambasciata a ‎Gerusalemme tra le proteste dei palestinesi. Il presidente americano non c’era ma ‎ha inviato ‎un videomessaggio di due minuti e mezzo alla folta platea di invitati ‎‎all’inaugurazione dell’ambasciata, molti dei quali esponenti di primo piano ‎‎dell’Amministrazione e del Congresso. «Gerusalemme è la capitale d’Israele ‎che è ‎uno Stato sovrano e ha diritto di stabilire la capitale dove vuole», ha ‎detto Trump ‎attribuendosi poi il merito di aver realizzato ciò che i suoi ‎predecessori, a suo dire, ‎non avevano avuto il coraggio di fare. Poi, dopo aver appiccato il fuoco, Trump ‎candidamente ha ribadito la volontà ‎americana di «facilitare un accordo per una ‎pace duratura ‎e di sostenere lo ‎status quo dei luoghi santi di ‎Gerusalemme». ‎Quindi la scena è stata tutta per il premier israeliano Netanyahu che ha ringraziato ‎Trump e ha parlato di «momento storico» per Israele nel 70esimo ‎anniversario ‎della sua fondazione.
Solo a fine giornata si è sentita la voce del presidente ‎palestinese Abu Mazen che ha condannato il massacro a Gaza e il trasferimento ‎dell’ambasciata Usa. «Quello a cui abbiamo assistito non è stata l’inaugurazione di ‎un’ambasciata a Gerusalemme ma l’apertura di un insediamento coloniale ‎americano», ha commentato. Un po’ poco per un presidente che afferma di guidare ‎un popolo che vive una delle fasi più critiche dalla sua storia. ‎

il manifesto 15.5.18
Amnesty: «A Gaza commessi crimini di guerra»
Le reazioni. Il sindacato tunisino Ugtt pensa al boicottaggio delle navi statunitensi. Marines dispiegati nelle sedi diplomatiche Usa in Turchia e Giordania per timore di proteste


Se i governi del Medio Orriente tacciono, la gente si muove. Ieri erano centinaia i turchi scesi in piazza a Istanbul per protestare contro il massacro nella Striscia di Gaza. Gli Stati uniti hanno deciso ieri di dispiegare i marines a protezione delle proprie ambasciate in Turchia e Giordania, in previsione delle proteste.
In Nord Africa il primo a reagire è il sindacato tunisino Ugtt, nel 2015 vincitore del premio Nobel per la Pace insieme ad altre tre associazioni di categoria tunisine: ha annunciato ieri di voler lanciare un boicottaggio contro le navi statunitensi che attraccheranno nei porti della Tunisia. «Il sindacato – ha detto Mohammed Abbas, vice segretario di Ugtt – sta considerando la proposta di impedire lo scarico e il carico sulle navi americane che arriveranno nei porti tunisini».
Durissimo anche il comunicato di Amnesty International, ieri pomeriggio, quando la conta delle vittime era arrivata a 41 morti: «Una violazione vergognosa del diritto internazionale, in alcuni casi sono commessi quelli che appaiono come crimini di guerra. Le autorità israeliane devono fermare subito l’uso eccessivo della forza per impedire nuove morti», ha scritto su Twitter l’associazione per i diritti umani.
Più tardi ha parlato Philip Luther, direttore di Amnesty per Medio Oriente e Nord Africa: «Si tratta di un altro terrificante esempio dell’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano, con proiettili usati in modo intollerabile. Solo il mese scorso Amnesty ha fatto appello alla comunità internazionale perché fermasse la consegna di armi ed equipaggiamento militare a Israele. Quanto accaduto oggi mostra l’immediato bisogno di un embargo».
Profonda preoccupazione è espressa anche dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, alla cui voce si aggiunge il Comitato delle Nazioni Unite che ha chiesto a Israele l’immediato stop all’uso «sproporzionato di forza» contro i manifestanti palestinesi.

il manifesto 15.5.18
L’anima più concreta dello strutturalismo
Ritratti. La scomparsa di Gérard Genette, all'età di 87 anni, chiude la stagione più alta della teoria letteraria novecentesca. Dalla narratologia alla filosofia analitica, il suo è stato un percorso speculare a quello del coetaneo Derrida
di Pierluigi Pellini


C’è tutto Genette, con la sua sferzante (auto-)ironia, nella definizione scherzosa che ha dato, una decina d’anni fa, della narratologia, la disciplina che più di ogni altro ha contribuito a fondare negli anni d’oro della teoria letteraria, intorno al 1970: «una pseudo-scienza perniciosa», il cui «gergo ha indotto disgusto per la letteratura in tutta una generazione di analfabeti». Dove il sarcasmo colpisce in modo equanime le pedisseque applicazioni scolastiche del suo metodo di analisi strutturale del testo narrativo e i pigri pregiudizi di studenti di per sé poco inclini ai piaceri della lettura.
L’AUTORE DI «FIGURE III», il libro che per almeno tre decenni è stato la bibbia di ogni matricola in lettere (oggi sta scomparendo dai programmi universitari), era il primo a farsi beffe del narratologically correct imposto dalle sue stesse opere e sciaguratamente diffuso, in Francia come in Italia, nelle scuole di ogni ordine e grado: parlando con libertà e passione della Recherche, l’opera su cui più assiduamente ha lavorato, gli capitava di dire Proust e non Marcel, confondendo autore e narratore, e lasciando di stucco interlocutori tanto ottusi da trasformare, come i manuali scolastici, le sue distinzioni teoriche e le sue categorie operative in soggetti di un’ontologia fantasma.
Gérard Genette, scomparso a ottantasette anni lo scorso 11 maggio, è stato innanzitutto un maestro di metodo. In tutta la sua opera, altro non ha fatto che insegnare l’arte del distinguo: proprio per questo sapeva che è più importante evitare di confondere un saggio critico con una conversazione, o un adolescente con un dottorando, piuttosto che una sillessi con una metalessi, o un racconto eterodiegetico con uno omodiegetico. Del resto, il gusto del paradosso, sempre ricondotto, in un lampo d’intelligenza, alla più limpida razionalità, non è peculiare dei soli scritti della vecchiaia: dell’impresa ciclopica che si era proposto, quella di mappare «la totalità del virtuale letterario», conosceva il fascino utopico ma anche la smisurata aleatorietà. Esattezza e ironia: questo il binomio, solo in apparenza ossimorico, che informa la scrittura, svelta e elegante nonostante i tecnicismi, di tutti i suoi libri. Nei quali voleva descrivere non solo i testi storicamente esistenti, ma anche quelli logicamente immaginabili: esattamente come Claude Lévi-Strauss ambiva a censire le forme di tutte le possibili società umane.
INSIEME AL GRANDE antropologo, Genette ha incarnato, dello strutturalismo, l’anima più concreta e razionale; Roland Barthes quella più inquieta e creativa. Forse c’entra il fatto che era figlio di un operaio tessile (l’autore dei Miti d’oggi, invece, di un capitano della marina mercantile); e se è un luogo comune, oggi, ripetere che le opere di Barthes invecchiano meglio, di certo sono gli strumenti di laboratorio messi a punto da Genette a rimanere indispensabili per chi è ancora convinto che la critica, come la letteratura, sia innanzitutto nobile artigianato.
L’officina nomenclatoria di Genette, al tempo stesso pedante e ludica, ha lavorato senza sosta per mezzo secolo, producendo un’inflazione terminologica che accanto a categorie imprescindibili (anacronie, fenomeni di durata e frequenza, modi del racconto, voce narrativa: impensabile farne a meno), ne ha diffuse di inutili o infelici, destinate a precoce obsolescenza: così i suoi «ipertesti», che nel 1981 indicavano testi derivati, in modo più o meno palese, da altri testi, si sono arresi alla fortuna che il termine ha avuto, in altra accezione, nel linguaggio del web. E tuttavia, nel momento in cui la scomparsa di Genette (si può ben dirlo senza retorica) chiude definitivamente la stagione più alta della teoria letteraria novecentesca, l’onestà intellettuale dei posteri impone di riconoscere che la voga attuale della narratologia anglosassone (i nipotini James, Forster e Booth) e delle sue approssimazioni impressioniste, o di quella austriaca (gli allievi di Stanzel) e della sua duttilità, o peggio di quella cognitivista (la cosiddetta neuronarratologia), risponde a esigenze prettamente accademiche di (vero o presunto) rinnovamento dei metodi, se non di mera produzione di carta da concorsi. Chi vuole capire come funziona un romanzo, usa e continuerà a usare Figure III (1972) e il Nuovo discorso del racconto (1983).
NON È TUTTAVIA IL TESTO, nella sua singolarità, a essere al centro delle preoccupazioni di Genette: che per questo non può essere considerato tout court un formalista, né semplicemente un narratologo, anche se ha indubbiamente contribuito a quello sbilanciamento dei valori che oggi induce il senso comune a identificare la letteratura con i soli generi narrativi.
La disciplina cui ha dedicato i suoi sforzi più costanti è la poetica (perciò il titolo della rivista fondata nel 1970 con Hélène Cixous e Tzvetan Todorov, «Poétique»): lo studio, cioè, dell’«insieme delle categorie generali e trascendenti – tipi di discorso, modi d’enunciazione, generi letterari, ecc. – cui appartiene ogni singolo testo». Di qui l’interesse per la riscrittura (parodia, pastiche, imitazione) e per i «dintorni del testo», studiati rispettivamente in due grandi libri come Palinsesti (1982) e Soglie (1987); e la costante riflessione sulla natura stessa del fatto letterario, affrontata con uno scetticismo mai rinunciatario. Esemplare l’incipit di Finzione e dizione (1991): «avrei potuto gratificare questo saggio di un titolo ch’è stato grossolanamente usato: Che cos’è la letteratura?». Dove la stoccata a Sartre si capovolge prontamente in autoironia («a domanda sciocca, nessuna risposta»), mentre il saggio imposta l’analisi di quei rapporti fra fiction e non fiction che diventeranno di attualità, anche militante, nel nuovo secolo. Non a caso, esaurita la stagione strutturalista, Genette scriverà un saggio di estetica in due volumi, L’opera dell’arte (1994 e 1997), fedele al partito preso di un pragmatismo razionalista che lo porta a scegliere come interlocutore privilegiato Nelson Goodman.
È la conclusione di un percorso – dalla letteratura alla filosofia analitica – per certi versi speculare a quello seguito dal coetaneo Jacques Derrida, che di Genette era stato collega e sodale nel 1959, quando entrambi insegnavano in un oscuro liceo di provincia, a Le Mans: due ‘vite parallele’ forse solo in apparenza antitetiche (strutturalismo e post-strutturalismo, tecnicismo scientista e decostruzione), emblematiche della cultura europea del secondo Novecento.
UNA PARABOLA fin troppo esemplare dell’ascesa e del declino non solo dello strutturalismo, ma della teoria letteraria tout court, è disegnata invece dalla ricezione dell’opera di Genette in Italia: il suo primo libro, Figure, del 1966, è stato tempestivamente tradotto tre anni dopo da Einaudi, che ha più o meno prontamente pubblicato anche i principali volumi degli anni successivi, fino a Soglie. I due libri di estetica, invece, sono usciti per i tipi di un piccolo editore universitario (Clueb di Bologna); le opere successive non sono mai state tradotte.
Dell’ultima fase di Genette, aperta nel 2006 con Bardadrac – ancora un neologismo, che allude giocosamente alla confusione di oggetti eterocliti buttati alla rinfusa in un sacco –, e proseguita a cadenze quasi regolari con Codicille (2009), Apostille (2012), Epilogue (2014) e Postscript (2016), nulla è pervenuto al lettore italiano: ed è un vero peccato, perché l’understatement dei titoli, che annunciano null’altro che codicilli, postille, epiloghi e poscritti, nasconde la ricchezza e la complessità di un moderno zibaldone, nato sotto il segno di Montaigne e misuratissimo nel mescolare con apparente nonchalance riflessioni filosofiche, ricordi autobiografici, giudizi fulminanti sulla letteratura e sul mondo. Perché Genette è stato, dagli anni Sessanta fino a ieri, non solo un teorico, ma anche un grandissimo critico: la finezza di tante sue osservazioni – su Proust, su Flaubert, su molti altri classici non solo francesi – smentisce ogni sospetto di arido tecnicismo; e come Barthes è stato, sia pure in modi diversissimi, anche uno scrittore: che in Italia quasi nessuno conosce.