Il Fatto 30.5.18
La Grecia come modello pericoloso
di Filippomaria Pontani
“Alla
fine ci siamo intesi” dice Angela Merkel evocando, a commento della
crisi politica italiana, il parallelo delle trattative con Alexis
Tsipras nell’estate 2015, dopo che l’Unione europea – spalleggiata dal
vecchio establishment greco pronto a sollevare eccezioni di
incostituzionalità – era intervenuta ad agitare spauracchi d’ogni sorta
contro il referendum promosso dal premier appena eletto sul famigerato
memorandum.
Tsipras allora non cedette, replicando alle minacce
con una retorica serena ma determinata (tutt’altra cosa rispetto alle
sparate del Salvimaio) che convinse il suo popolo al “No”. Ma l’Unione
(questo il senso vero dell’intraducibile verbo sich zusammenraufen usato
dalla Merkel, che vale “trovare un modus vivendi nonostante gli scontri
e imponendosi autocontrollo”) impose poi il proprio diktat con le
irriferibili minacce “al chiuso” nel drammatico vertice del 12 luglio,
al termine del quale la linea politica di Tsipras fu stravolta, e rotolò
la testa del ministro Varoufakis.
Keine sorge, troveremo un
compromesso anche con gli italiani, dice la Merkel. Il commissario
Oettinger, con il suo greve accento del Baden, ha solo il torto di
parlare più chiaro quando professa fiducia nel nuovo “governo
tecnocratico” di Roma e richiama il fatto – testuale – che “i mercati,
le quotazioni dei bond, l’evoluzione dell’economia italiana potrebbero
essere così drastici (einschneidend, propriamente “taglienti”) da
fornire agli elettori l’indicazione di non votare populisti di destra o
di sinistra”. L’applicazione è diversa, ma i criteri sono in fondo gli
stessi (“l’impennata dello spread”, “le perdite in Borsa”, “l’allarme
degli investitori”) richiamati da Mattarella nel suo discorso per
silurare il governo Conte.
Singolari parallelismi. Nel 2013, per
l’elezione del presidente della Repubblica, il Movimento 5 Stelle
candidò con entusiasmo “uno dei vostri”, ovvero Stefano Rodotà, già
presidente del principale partito della sinistra, e capace di intuire il
potenziale di cambiamento e di aria nuova insito nel Movimento, se
fatto reagire con le forze migliori del Paese: la risposta
dell’establishment fu la chiusura a riccio; cinque anni dopo, la
sinistra è ridotta a un ruolo di comparsa, e il Movimento è per metà in
mano a Salvini. Nel 2018, nell’individuazione del ministro
dell’Economia, la Lega propone “uno dei vostri”, ovvero Paolo Savona,
già ministro nel governo Ciampi e vecchia (e discutibile) volpe della
finanza, nonché capace di dire (da una prospettiva essenzialmente di
destra) parole chiare sui difetti strutturali della moneta unica: la
risposta dell’establishment è venuta domenica, e rischia di avere
conseguenze ancor peggiori.
Si può sostenere che in ambedue i casi
le forze proponenti giocassero in realtà un’altra partita, strumentale
alla loro crescita ulteriore in termini di consenso dopo il prevedibile
niet del sistema: può darsi. E del resto fra le due personalità corre un
abisso – il governo Conte che si annunciava (come denunciato anche
all’interno del Movimento da alcune voci libere) sarebbe stato sotto
molti profili un incubo o una baraonda, e si sarebbe probabilmente
incagliato in breve tempo, lasciando macerie. Tuttavia, la strategia di
depotenziare il voto di milioni di italiani e di silenziare certe
istanze col richiamo allo spread o al volere dei mercati, può pagare
alla breve, per esempio evitando al Paese il trauma di ministri
lepenisti pronti a effettuare rimpatri di massa – ma difficilmente
funziona alla lunga. O si condivide la prospettiva di Oettinger
(spaventare gli italiani per ridurli a più miti consigli nelle urne)
oppure è una pia illusione che la destra “moderata” (per tale, ormai,
viene fatto passare Silvio Berlusconi!) possa mantenere le posizioni in
un Nord arrabbiato (lo mostreranno le imminenti elezioni comunali), o
che la sinistra, desertificata dal perdurante renzismo e da mesi
evanescente, possa davvero recuperare fiato drenando i “sinistrorsi
delusi” di un M5S votato alla deriva gialloverde.
Si è creata una
lacerazione istituzionale dolorosa; si è finito per aizzare la folla
contro i giochi di palazzo e le agenzie di rating; si è schiacciato il
M5S (fin troppo ingenuo di suo) sull’egemone Salvini; si è fornita una
formidabile sponda a chi piccona il sistema seminando sfiducia nelle
istituzioni e nell’Europa, o denigrando la democrazia rappresentativa.
Certo:
la Grecia di oggi, imbambolata dalla sfiducia, svuotata di tutti i suoi
asset strategici, umiliata e illusa con un misero avanzo primario di
cui non si avverte alcun beneficio, vegeta in una cupa rassegnazione che
forse, dopo anni, tornerà a premiare i vecchi partiti nelle elezioni
del 2019. Ma non è affatto detto (ed è poi veramente auspicabile?) che
in Italia accada lo stesso.