domenica 20 maggio 2018

Il Fatto 20.5.18
I Dem e la loro base elettorale vanno in direzioni opposte
di Carlo Trigilia


Assistiamo a una grave crisi di rappresentanza che riguarda i rapporti del Pd con i gruppi sociali e i territori dove è più forte e più cresciuto il disagio sociale, e che dovrebbero avere nel principale partito del centrosinistra il loro referente. Come è potuto accadere?
Scarterei spiegazioni che tendono a sottovalutare la crisi di rappresentanza. Una di queste si limita a sottolineare che in Italia si sia semplicemente manifestata una tendenza già presente in altri Paesi europei: l’indebolimento dei principali partiti socialdemocratici, che perdono quote significative della loro base elettorale tradizionale (soprattutto operai e nuovi salariati dei servizi) a favore delle nuove formazioni di critica radicale al sistema politico. La tendenza si manifesta anche da noi, ma non sembra in grado di spiegare da sola la rapidità e la portata della crisi di rappresentanza del Pd. Non solo i principali partiti socialisti europei, con l’eccezione della Francia, non si sono indeboliti in modo paragonabile, ma nella loro base restano ancora componenti ben più elevate di operai e di salariati dei servizi, e anche di nuovi ceti medi, specie di quelli dipendenti più legati al settore pubblico.
Nella tornata elettorale del 2013 si manifesta un calo dei votanti del Pd legati alla base tradizionale del partito, in particolare salariati dell’industria e dei servizi. È probabile che soprattutto nei mesi precedenti alle elezioni, caratterizzati dagli interventi di emergenza del governo Monti, sia cresciuto il malcontento. Il nodo forse più rilevante è costituito dall’intervento drastico sul sistema pensionistico (la legge Fornero). Può essere utile il confronto con un’altra grave fase di emergenza finanziaria, quella della prima metà degli anni Novanta, con gli interventi intrapresi dai governi, anch’essi “tecnici”, di Amato e Ciampi. In quell’occasione prese forma una manovra pesantissima, con inasprimenti fiscali e compressione dei salari che fu però condivisa e negoziata con le organizzazioni sindacali. Le più drastiche misure prese dal governo Monti non vedono invece il coinvolgimento e l’accordo delle organizzazioni sindacali, mentre il Pd sostiene il governo e le sue proposte. In questo caso, dunque, i costi percepiti dai lavoratori dipendenti, salariati e impiegati, sono probabilmente apparsi non solo elevati, data la sensibilità al tema delle pensioni, ma anche non efficacemente negoziati dal partito che avrebbe dovuto rappresentare i loro interessi e che sosteneva il governo dall’esterno.
Nella legislatura che si apre nel 2013 e si conclude con le elezioni del 4 marzo il problema non solo non viene affrontato, ma sembra aggravarsi. A pochi mesi dall’insediamento della compagine governativa, con Matteo Renzi il Pd coglie un importante successo alle elezioni Europee superando gli undici milioni di voti: un risultato che si può leggere come una larga apertura di credito al giovane leader che mostra impazienza nei riguardi degli equilibri e delle liturgie interni al partito e manifesta forte determinazione a realizzare senza indugi le riforme capaci di imprimere una svolta al Paese. La parola chiave è “rottamazione”: la promessa di Renzi di liberare il partito dalla vecchia classe dirigente che lo bloccava. Il successo alle elezioni del 2014 è probabilmente il segno che questa prospettiva critica e polemica e l’impegno a favore delle primarie come strumento per formare una nuova classe dirigente incontra il favore di una vasta area dell’elettorato. La nuova leadership del Pd sembra dunque avere inizialmente successo proprio perché promette di affrontare i problemi di rappresentanza che investono il partito e insieme di allargarsi fuori dal perimetro tradizionale d’influenza.
Tuttavia, la strategia di affermazione all’interno del partito condizionerà anche le politiche condotte dal governo e le modalità di relazione con l’elettorato. La linea seguita per rafforzarsi all’interno si può definire di tipo maggioritario, avversa a intese e a compromessi tra le varie componenti (i “caminetti”). Le leadership si formano attraverso le primarie, sono dunque decise dall’elettorato con una forte personalizzazione che ne legittima il ruolo. Il leader, una volta scelto, deve poter decidere senza intralci.
Questa nuova prospettiva allontana anche il Pd dai modelli organizzativi prevalenti tra i grandi partiti socialdemocratici europei (con l’eccezione della Francia), che non utilizzano le primarie “aperte” e continuano a valorizzare il ruolo organizzativo del partito. Il nuovo modello che si prospetta guarda più al Partito democratico americano. Non a caso al modello di democrazia maggioritaria si ispira anche il disegno di riforma costituzionale proposto da Renzi e il correlato costituito dalla legge elettorale (Italicum), poi bocciata dalla Corte Costituzionale.
La democrazia maggioritaria configura una modalità di economia di mercato in cui il dinamismo convive con maggiori disuguaglianze sociali. Un modello molto diverso da quello adottato dalle democrazie negoziate o concertate nelle quali si muovono i principali partiti socialdemocratici sperimentando appunto pratiche di concertazione delle politiche con le organizzazioni di rappresentanza del mondo del lavoro e delle imprese.
Se il partito deve essere guidato in una prospettiva maggioritaria, non c’è spazio per negoziazioni e compromessi con un’area interna che è tradizionalmente più vicina alla rappresentanza di gruppi sociali e territori più disagiati, e che in genere è anche più legata alle organizzazioni sindacali (in particolare alla Cgil).
Accanto a rottamazione l’altra parola chiave è dunque “disintermediazione”: anche a livello di governo occorre puntare a un drastico ridimensionamento della negoziazione delle politiche con le organizzazioni di rappresentanza degli interessi. La “disintermediazione” ha contribuito a isolare il governo dalle domande di protezione sociale provenienti dai gruppi sociali e dai territori più disagiati. E l’attenzione negata si è presto trasformata, per alcune parti dell’elettorato del partito, come la classe operaia tradizionale, in aperta ostilità, specie in occasione di provvedimenti come il Jobs Act.
Quanto al consenso per il Pd, esso va cercato appunto in un’ottica maggioritaria, puntando ad attrarre non solo gli imprenditori, ma anche settori del ceto medio tradizionalmente più interessati a Berlusconi e Lega. Una volta ripartito lo sviluppo, sarà poi possibile ricostruire e rinsaldare un rapporto anche con settori del tradizionale elettorato di sinistra scontenti delle politiche del Pd al governo, ma che è necessario al momento contenere con la disintermediazione proprio per far ripartire la crescita. Così, sul terreno dello sviluppo, il governo a guida Pd è parso affidarsi al motore dell’industria del Nord come traino per portare il Paese fuori dalla crisi, sostenendolo con interventi centrati sulla creazione di condizioni più favorevoli dal lato del mercato del lavoro e del costo del lavoro, ma anche con misure di sostegno agli investimenti.
Da tutto questo è risultata una crisi di rappresentanza di grande portata che colpisce il Pd e con esso il tentativo di costruire un partito capace di legare insieme i ceti più dinamici e innovativi ma anche quelli più deboli in un disegno condiviso. Non è solo un problema per il Pd, ma per la democrazia italiana e per la sua capacità di rafforzarsi coniugando sviluppo e coesione sociale.