giovedì 10 maggio 2018

Il Fatto 10.5.18
Per Renzi ci vorrebbe Freud, ma forse basta pure Recalcati
L’ultima performance tv dell’ex premier lascia preoccupati per il suo stato psichico
di Daniela Ranieri


Ma lo psicanalista della Leopolda professor Recalcati, neo-conduttore della sua brava trasmissione lacaniana-pop su Rai 3, non può fare proprio niente per Matteo Renzi? Non è una battuta: bastava vederlo l’altra sera a Di Martedì, dove è andato a inaugurare l’ennesima campagna elettorale in qualità di leader che non è di un partito che non c’è più, per essere preoccupati circa il suo equilibrio mentale.
Da cosa o da chi è guidato Renzi? Se davvero fosse mosso dall’amore per il suo Paese (con la maiuscola, non Rignano sull’Arno), avrebbe ormai dovuto rendersi conto che il sentimento non è ricambiato. O quantomeno prendere atto di non essere all’altezza di cambiare alcunché non riguardi lo status suo e della manciata di compaesani che si è portato a Roma a spese dei contribuenti.
Non lo sfiora il sospetto di essere caduto in disgrazia, come dovrebbe suggerirgli il fatto di comparire in seconda serata dopo una intervista a Di Maio lunga quanto un film cecoslovacco, nello spazio di solito riservato alla Fornero. Già nell’anteprima, mentre lo stanno microfonando, ostenta lo stile da guappo. Entra in studio imitando la camminata di Putin (braccio destro fermo, sinistro ondeggiante); frangetta da Augusto di Prima Porta, guanciotte dei periodi stressanti, corruccia la fronte: “Quello di Lega e 5Stelle non mi sembra un atteggiamento serio”, senti chi parla.
Promuove Gentiloni candidato premier (simultaneamente manda la Boschi, s’immagina in qualità di deputata di Bolzano, a lanciarlo, povero conte, a Porta a Porta), per mostrare al popolo che lui dispone dei suoi uomini come un generale in battaglia e soprattutto per mettere Paolo accanto a Di Maio e Salvini e dunque farne semanticamente un politico bruciato dalle trattative a vuoto, come se non fosse lui, invece, il responsabile dell’impotenza dell’onnipotenza del Pd.
Propone di cambiare la legge elettorale che porta il nome di uno dei suoi più fedeli scudieri e poi, incredibile a dirsi, una riforma costituzionale, che adesso chiama “istituzionale” per introdurre una novità (“Con un equivoco con un sinonimo qualche garbuglio si troverà”, come ne Le nozze di Figaro), evidentemente ignaro dell’opinione di 20 milioni di elettori a riguardo. Snobba le riunioni di partito per parlare direttamente al popolo: “Cari italiani, la flat tax non esiste!  Italiani, il reddito di cittadinanza non lo faranno mai!”, urla guardando in camera, e pare che sotto i piedi gli manchi un balcone.
“Se noi avessimo fatto il governo avremmo perso totalmente la faccia”, dice come se ne avesse ancora una. “Hanno fatto una campagna elettorale piena di promesse a vuoto, lo ammetta Floris!”, gigioneggia teatrale, ed è lo stesso che agitava in Tv una falsa scheda per un Senato che con la sua riforma non sarebbe stato più elettivo.
Lancia numeri a protesi dell’ego: “Quando noi abbiamo preso il 41%, Di Maio ci urlava ‘abusivi’. Lui ora ha preso il 32%…”, ma mette insieme cose eterogenee e imparagonabili, elezioni europee con elezioni politiche, e la stessa cosa fa con Macron, presidente di una Repubblica presidenziale “col 23%”. “Noi non prendiamo in giro gli italiani”, ridice, e fa un certo effetto pronunciato da un tizio che ha dato dimissioni post-datate come gli assegni falsi e che dopo aver indossato tutte le maschere oggi, nella bio di Twitter e ovunque gli capiti, usa il titolo di “senatore di Firenze” come se fosse una diminutio di sé dovuta a naturale umiltà e non una funzione da adempiere con disciplina e onore.
Ma Renzi è talmente bugiardo che finisce per dire la verità: non vuole andare al governo né alle elezioni. Nel suo narcisismo anacronistico, confida di poter tornare credibile per contrasto, quando Salvini e Di Maio avranno fallito. Questo alchimista all’incontrario, che ha dimezzato i voti del Pd portandolo al 18%, questo contafrottole (pardon: storyteller) che elargiva 80 euro a categorie a caso usando risorse pubbliche per prendere voti, rivendica una “diversità profonda tra populisti demagoghi e Pd”, e non intende che i primi vincono mentre il secondo perde. Intende proprio che il suo vestigiale partito di furbastri o di nullità senza spina dorsale è in grado di fare l’interesse degli italiani, che si ostinano a non capirlo.
Ci vorrebbe Freud, ma forse anche Recalcati può bastare.