sabato 19 maggio 2018

Corriere della Sera 19.5.18
L’appuntamento Il 23 maggio all’Università Bicocca di Milano, la quinta giornata interculturale, dedicata alle ibridazioni. Qui uno stralcio dell’intervento dell’antropologo
Migranti genetici, in cammino da 2 milioni di anni
il progresso è ricombinazione biologica e culturale
La relativa giovinezza della nostra specie, unita al continuo cambiamento migratorio, fa sì che non si siano formate razze
La nozione di razza è una eredità dei tempi in cui la biologia non si era ancora sviluppata
di Francesco Cavalli-Sforza


L’umanità è in cammino da tempi antichissimi. La prima evidenza di migrazione, al di fuori dell’area di origine in Africa orientale, risale a quasi 2 milioni di anni fa. In più migrazioni successive, gli uomini raggiungono parti dell’Eurasia, dove risultano insediati già un milione di anni fa. La ragione di queste diffusioni umane, accanto alla naturale curiosità che tutti condividiamo, sta innanzitutto nel successo riproduttivo di vari gruppi, che è un successo adattativo: quando un gruppo cresce di numero, diviene necessario cercare nuovi spazi di caccia e raccolta e quindi adattarsi alle condizioni ambientali di diversi habitat.
La stessa dinamica migratoria ha guidato la diffusione dell’uomo moderno. Il tipo umano da cui tutti discendiamo, Homo sapiens, che compare verso i 200.000 anni fa, si espande in Africa e, a partire da circa 60.000 anni fa, si diffonde all’intero pianeta, raggiungendo anche continenti, come Australia e America, non ancora visitati dall’uomo. Diecimila anni fa, gruppi umani si sono insediati un po’ dappertutto sulle terre emerse. Si valuta che la popolazione mondiale, all’epoca, comprendesse tra i 2 e i 15 milioni di persone.
Siamo una specie assai giovane. Benché le popolazioni odierne siano separate da migliaia o decine di migliaia di anni. Questo non è un tempo sufficiente a produrre differenze molto significative. La genetica cambia assai lentamente, e solo nel passaggio da una generazione all’altra. Circa l’85% delle differenze biologiche tra due individui si trova all’interno di ogni popolazione umana; solo un 15% della variazione totale distingue gli individui di due popolazioni anche lontane. Le differenze tra popoli stanziati in punti diversi del pianeta riguardano soprattutto l’aspetto esterno del corpo e le difese immunitarie: la superficie del corpo è l’interfaccia tra l’organismo e l’ambiente esterno, per cui il colore della pelle e la forma del corpo variano più rapidamente di altri caratteri; il sistema immunitario si modella in funzione delle aggressioni dell’ambiente, per cui la genetica di ogni popolazione reca le tracce dei patogeni e delle epidemie cui e stata esposta nel corso dei millenni. La relativa giovinezza della nostra specie, in termini di tempi dell’evoluzione, unita al continuo scambio migratorio che si è sempre verificato tra le popolazioni umane, fa sì che non si siano formate razze nella nostra specie. La nozione di razza, nell’umanità, non è che un’eredità dei tempi in cui la biologia non si era ancora sviluppata e tutto ciò che si poteva osservare di un individuo era in sostanza il suo aspetto esterno.
È da tener presente che la nozione stessa di razza nasce dalla pratica umana di sottoporre a selezione artificiale le piante coltivate e gli animali di allevamento, per ottenere tipi con caratteristiche costanti e trasmissibili, dotati delle qualità più interessanti per l’uomo. La selezione artificiale nasce con l’agricoltura e l’allevamento, diecimila anni fa, e ha prodotto la quasi totalità di ciò di cui ci nutriamo ogni giorno, pianta o animale che sia, e la totalità degli animali addomesticati, modificando profondamente le caratteristiche dei vegetali e animali originari. Il termine stesso, «razza», deriva con ogni probabilità dall’arabo «haraz», per «allevamento di cavalli».
Ma la specie umana non è mai stata sottoposta a selezione artificiale (per nostra fortuna e nonostante qualcuno, nella storia, abbia avuto l’idea di provarci) e la migrazione all’interno della specie è sempre stata troppo intensa, nel corso di una storia evolutiva comunque breve, perché potessero formarsi razze diverse. Se non esistono le razze, esiste pero il razzismo, che in quanto ideologia nasce in pratica dall’antica ignoranza delle differenze tra biologia e cultura. Per gli europei che andavano colonizzando il mondo, l’incontro con popoli diversi nell’aspetto e nei costumi induceva la convinzione che biologia e cultura fossero una cosa sola: alle caratteristiche fisiche doveva corrispondere un insieme di consuetudini e tradizioni, un certo grado di sviluppo economico e sociale, persino un certo quoziente intellettivo, e cosi via…
Nulla di più falso. Biologia e cultura evolvono in parallelo, ma in modi e con tempi diversi. La genetica può cambiare, e di poco, solo ad ogni passaggio di generazione, mentre la cultura nasce dalla capacità di comunicare e si diffonde anche orizzontalmente, tra i viventi, oltre che verticalmente, al passaggio di generazione.
Produce quindi cambiamenti di gran lunga più veloci, e si è rivelata ‒ in particolare per la nostra specie ‒ uno strumento straordinario per adattarsi agli ambienti più diversi (e per adattare gli ambienti a noi stessi).
La grande diversità tra i singoli gruppi umani è insomma tutta culturale, non biologica.
È da capire quale sia il valore di questa diversità. Dal punto di vista della biologia, è importantissimo che il grosso della diversità genetica sia all’interno di ciascuna popolazione, perché favorisce la possibilità che, davanti ad un brusco cambiamento ambientale, come l’arrivo di un’epidemia o una forte variazione climatica, vi sia sempre almeno un piccolo numero di individui in grado di sopravvivere e superare la crisi.
Dal punto di vista della cultura, il fatto che ciascuna popolazione umana abbia sviluppato adattamenti diversi a diversi ambienti di vita, con le tecniche e le tradizioni che lo supportano, rappresenta altrettante forme di possibili interazioni di successo con l’ambiente: in caso di crisi globali, è più probabile che vi siano gruppi attrezzati per superarle. Dal punto di vista dell’evoluzione, insomma, la cultura fa ciò che fa la biologia: crea varietà, differenze, alternative, una vasta gamma di opzioni per favorire la possibilità di sopravvivenza della specie, come dell’individuo.