venerdì 27 aprile 2018

Repubblica 27.4.18
Destra, sinistra e nuove categorie
di Nadia Urbinati


Il segno più eclatante delle ultime consultazioni elettorali è stato da molti analisti sintetizzato così: la sinistra vince in centro e perde nelle periferie, dove vince il populismo nazionalistico o il gentismo anti-partitico. Il fenomeno non è solo italiano. Si è verificato con l’elezione di Trump, con Brexit e con l’arrivo di Macron all’Eliseo. Viene esaminato in relazione con la crescita delle diseguaglianze che hanno mutato la fisionomia del popolo sovrano, dividendolo in nuovi patrizi e nuova plebe. Per la prima volta da quando la democrazia è rinata, dopo la seconda guerra mondiale, l’andamento delle relazioni tra classi e forze politiche ha subito un mutamento profondo che cambia il significato dei termini “destra” e “sinistra”. Se fino agli anni ’ 80 il voto ai partiti di sinistra o centrosinistra era associato a basso tenore di vita, meno cultura e minor reddito, dalla fine del secolo si è sempre più associato alle élite con alta educazione e buoni redditi.
A raccontarlo con i sondaggi post-elettorali comparando il voto in tre Paesi (Usa, Regno Unito e Francia) è Thomas Piketty nel suo nuovo progetto dal titolo, Sinistra di bramini contro Destra di mercanti: la crescita della diseguaglianza e la mutata struttura del conflitto politico. Piketty dimostra non solo che la media e upper class acculturata vota a sinistra e la media e upper class ricca per il centrodestra. Dimostra soprattutto che le classi “ up” — ricchi o ricchi e acculturati o entrambi — occupano tutto lo spettro della democrazia dei partiti, che egli chiama un “ multiple- élite party system”, ovvero una democrazia che ha una pluralità di partiti di élite, non più semplicemente una pluralità di partiti per tutti.
Una larga porzione dei “tutti”, infatti, è nel corso degli ultimi due decenni diventata più povera e anche meno acculturata, un’associazione che fa parlare di plebeizzazione e che è stata pennellata in una recente Amaca di Michele Serra sul bullismo; in aggiunta a questo svantaggio assoluto, i “ molti” hanno perso i loro tradizionali referenti rappresentativi, occupati dalle classi più alte. È questa, secondo Piketty, una delle ragioni della nascita o del successo repentino di movimenti e partiti populisti, radicalmente xenofobi e fascisti oppure qualunquisti e anti- partito. L’anti- partitismo che il populismo coltiva e alimenta ha quindi un sapore classista, come reazione alle classi forti che si sono prese tutto lo spazio partitico esistente.
Dopo un’ondata di astensione, di ritiro dalla partecipazione elettorale, i molti trattati come cittadini di serie B trovano il loro fronte rappresentativo: qui sta l’origine dell’impennata populista, che ha quindi radici economiche e socio- culturali. Il popolo dei lavoratori, quello che trovava sicuro porto nei partiti storici della sinistra, ha subito una plebeizzazione, anche in ragione del fatto che non ha più luoghi aggregativi dove consolidare la cittadinanza attiva e il civismo. Partiti-cartello o circoli elettorali per le classi agiate, e deserto per la massa, che o assiste allo spettacolo nell’arena dei social o si fa i suoi movimenti. Questo fenomeno ha radici nella crescente diseguaglianza, un termine che Piketty suggerisce di coniugare al plurale: diseguaglianze di ricchezza, di reddito, di istruzione, di cultura, di genere, di età, di razza, di religione. Il paradosso è che queste diseguaglianze quanto più si sommano tanto più perdono rappresentanti. Essere povero e vivere in un quartiere in cui la maggioranza è povera comporta altre condizioni di svantaggio e la massima forma di esclusione: non avere alcun partito che si batta per i propri bisogni. Essere cittadino con meno voce per manifestare le proprie rivendicazioni e con meno potere.
Fino agli anni ’80, sostiene Piketty, le classi lavoratrici erano nobilitate non solo nell’identità operaia, quando il lavoro era segno di valore sociale e non di precarietà, ma anche nella cittadinanza e nell’identità d’appartenenza della bandiera rossa ( sapere di avere un rappresentante- difensore dava dignità; e soprattutto consentiva ai molti di stare al gioco, di lottare per correggere le diseguaglianze). I partiti della sinistra hanno nobilitato la cittadinanza dei lavoratori togliendo loro lo stigma dell’inadeguatezza; hanno edificato buone scuole pubbliche e perseguito una politica delle eguali opportunità. Sinistra e democrazia sono per questo andate di pari passo.
Ma ora che la sinistra attira i raffinati intellettuali, i professionisti, i benestanti, a quale parte organizzata si rivolgono coloro che la globalizzazione e la crescita della diseguaglianza ha reso meno acculturati e soprattutto più pressati dai bisogni primari? La sinistra per i pochi comporta fatalmente che anche i beni pubblici assumano diverso valore a seconda di chi ne usufruisce: le scuole pubbliche cessano di essere buone dovunque e la loro qualità segue il quartiere e i ceti che attraggono. E così sarà anche per gli ospedali e la qualità della vita nelle città. Insomma, la sinistra presa dai pochi lascia la maggioranza non solo senza sostenitori politici ma anche senza una condizione dignitosa certa.
La democrazia come “multi-élite party system” ha anche una biforcazione ideologica: i partiti che attraggono le destre moderate (dei ricchi e basta) e le sinistre tradizionali (dei ricchi e colti) sono per lo più votati ai valori universalistici e liberali, europeisti e cosmopoliti, anche quando coniugati in accezione conservatrice; fuori di qui, tra i partiti populisti, si coltiva una visione opposta, come il nazionalismo e il comunitarismo.
Come spiega Piketty, i partiti dell’establishment serrano i ranghi — quelli di centrosinistra diventano “ braminici” (castali e sacerdotali) e quelli di centrodestra di “mercanti” — e si trovano alleati naturali contro l’anti- partitismo populista, identitario nazionalista o blandamente gentista. Questa biforcazione è presente in tutti i Paesi occidentali e scuote le intelligenze. Non si può restare ad assistere allo scempio che le diseguaglianze producono alle nostre democrazie.

Il Fatto 27.4.18
Cipe, via libera alla garanzia di Stato per vendere armi
Approvato l’impegno pubblico fino a 18 miliardi per gli affari con Egitto e Qatar Rinviato il tentativo di regalare la gestione di due autostrade per 30 anni
Cipe, via libera alla garanzia di Stato per vendere armi
di Stefano Feltri


Per la prima volta arriva uno stop ai regali alla lobby delle autostrade. La riunione del Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica, ieri ha preso tempo sulla singolare proposta del ministero dei Trasporti di Graziano Delrio di regalare di fatto due concessioni importanti alle Regioni del Veneto e Friuli (le Autovie venete) e alle Province di Trento e Bolzano (Autobrennero). Il ministero voleva autorizzare concessioni di 30 anni direttamente a società in house delle Regioni, trasformando i politici locali in padroni della cassa generata dai pedaggi.
La riunione guidata come sempre dal ministro Luca Lotti, che del Cipe è segretario, ha invece dato il via libera alla super-garanzia di Stato per undici operazioni in tre Paesi, Kenya, Qatar ed Egitto (con cui, a parole ma solo a parole, l’Italia dovrebbe avere una posizione di freddezza per il caso Giulio Regeni) e per la vendita di armamenti. Una decisione che presenta vari punti critici e che ha sollevato qualche dubbio tra i partecipanti alla riunione perché manca ancora il via libera della Corte dei conti alla delibera che permette di estendere la garanzia. E quindi rimane pendente il rischio di danno erariale.
Come anticipato ieri dal Fatto Quotidiano, su input dei ministeri del Tesoro e dello Sviluppo, il governo Gentiloni ha deciso di estendere alle esportazioni nel settore della Difesa (armi, aerei, elicotteri) una particolare garanzia di Stato che nel 2016 l’esecutivo di Matteo Renzi aveva previsto per la cantieristica navale. La delibera del Cipe del 9 novembre 2016 prevede un “limite speciale” alla garanzia che lo Stato, con la Sace (compagnia assicurativa a controllo pubblico della Cassa Depositi e Prestiti), può concedere per il settore della cantieristica navale così da permettere a Fincantieri di vendere due navi alla Virgin per 1,8 miliardi. Viene istituito un fondo di garanzia da 500 milioni. Sale la soglia di riassicurazione fornita dallo Stato per i rischi diversi da quelli di mercato – specie rischi politici, come un cambio di regime – coperti da Sace. Mentre la convenzione prevede che l’esposizione statale non possa superare il 70% di quella di Sace e il 100% in caso di unica controparte, per la cantieristica il limite sale al 400%.
Dopo le elezioni, il Cipe ha approvato una riforma di quel “regime speciale”, con la delibera 34 del 2018. Il Cipe ha già confermato per il 2018 le regole speciali per le navi e deciso di ampliare la garanzia speciale al settore della Difesa, per operazioni fino a 18 miliardi di esposizione cumulata tra Stato e Sace e fino al 29% del portafoglio complessivo. Serve per sostenere la vendita di quattro navi da crociera Fincantieri. Ma è previsto anche un impegno assicurativo da 2,6 miliardi a favore della vendita al Qatar di 28 elicotteri militari da parte di un consorzio di cui è capofila Leonardo (ex Finmeccanica). Con il Qatar Renzi ha un rapporto privilegiato: ha sempre favorito gli affari dell’emirato in Italia, dal progetto di un ospedale in Sardegna ai tentativi di salvataggio di Mps, alle agevolazioni per la compagnia AirItaly a controllo qatarino.
Il ministro Lotti ora ha però un’altra priorità: la Ryder Cup di golf. Dopo vari tentativi, Lotti ha fatto approvare la garanzia statale di 97 milioni di euro sulla fideiussione necessaria a ospitare la manifestazione. Manca però un decreto attuativo del ministero del Tesoro. E Lotti ieri ha chiesto a Padoan di sbrigarsi. Anche se, ha spiegato, quella di ieri non sarà certo l’ultima riunione del Cipe che sarà gestita dal governo Gentiloni. Più durano le consultazioni, meglio procedono certe operazioni che è bene fare senza un’opposizione vigile e pronta a contestare scelte prese senza passare dal Parlamento, come il sostegno all’export di armi.

il manifesto 27.4.18
Pogrom nazista contro un campo rom alla periferia di Kiev
Ucraina . Per il compleanno di Hitler il gruppo S14 ha «ripulito dalla spazzatura» la collina Lysa Hora. Deportati dalle autorità ucraine, «per la loro incolumità», alcuni anche a piedi, fin nei Carpazi i 150 rom rifugiatisi in una vicina stazione ferroviaria
Un fotogramma del video delle devastazioni compiute a Lysa Hora, periferia di Kiev
Yurii Colombo


MOSCA Un pogrom in piena regola quello consumatosi appena fuori Kiev la notte tra il 20 e il 21 aprile. Il famigerato gruppo neonazista ucraino S14 ha scelto l’anniversario della nascita di Adolf Hitler per penetrare dentro un campo Rom sulla collina di Lysa Hora (Monte Calvo) e terrorizzare i suoi abitanti.
I criminali, armati di pistole, spranghe, coltelli, gas urticanti hanno messo a sacco il campo, bruciato tende e roulotte, ferito uomini, donne e bambini. Alcune persone della comunità sono state ricoverate in ospedale, tra cui 4 bambini, con profonde ferite procurate da armi da taglio. Sono stati esplosi anche alcuni colpi di arma da fuoco, fortunatamente non andati a segno.
S14 ha persino rivendicato l’azione sulla sua pagina Facebook e ha promesso altre azioni dimostrative per la prossima settimana contro «gay, femministe e militanti di sinistra». La banda, che si richiama alle gesta del leader fascista Stepan Bandera durante la seconda guerra mondiale, non è purtroppo nuova a simili azioni. S14 ha al suo attivo una lunga scia di assalti contro discoteche Lgbt, associazioni ebraiche e dei diritti umani. Lo scorso 8 marzo il gruppo ha attaccato la manifestazione femminista nella capitale ucraina e minacciato di morte Elena Shevcenko, leader del movimento Lgbt in Ucraina e i giornalisti presenti.
L’evidente complicità nella vicenda della polizia municipale, la quale da sempre copre le scorribande di S14 e di altri gruppi di estrema destra, però è persino più agghiacciante. Quando il 21 aprile sono iniziate a circolare le prime voci sul pogrom di Lysa Hora, il capo della polizia di Kiev, Andrey Krishchenko, ha dichiarato a Depo Kiev che «i rom non hanno ragione di lamentarsi di presunti pogrom. Alcuni cittadini si sono semplicemente assunti il compito di bruciare la spazzatura che si trovava nel campo rom e che rischiava di rovinare una collina considerata parco naturale dalle autorità. I rom presenti in città per festeggiare la Resurrezione sono stati poi accompagnati alla stazione per far rientro nelle loro realtà».
Il giorno successivo la polizia aggiustava il tiro riconoscendo che l’azione era avvenuta «ma solo quando l’accampamento era ormai deserto». I giornali ucraini riprendevano le dichiarazioni della polizia e parlavano «di presunte azioni di nazionalisti per liberare la zona dai rifiuti». Ma l’altro ieri la verità è venuta a galla.
In rete veniva diffuso un video in cui si vedevano i nazisti attaccare il campo mentre alcuni poliziotti osservavano quanto avveniva senza intervenire. E le responsabilità della polizia – come denuncia Amnesty International nel suo comunicato – sono ancora più pesanti per quanto accadeva nelle ore successive.
Ai rom, circa 150 persone, rifugiatesi nella stazione ferroviaria della capitale veniva imposta – con lo stratagemma di garantire la loro incolumità – la deportazione in alcune località dei Carpazi, a oltre 500 chilometri da Kiev. Tuttavia le autorità garantivano solo un numero limitato di biglietti ferroviari cosicché un gruppo di persone, tra cui donne e bambini, erano costrette ad avviarsi con mezzi di fortuna, e perfino a piedi, verso le località indicate.
Purtroppo questo è solo l’ultimo caso di persecuzione dei rom nell’Ucraina di Poroshenko. Nel 2012 mentre il Paese ospitava gli Europei di calcio, era stato dato alle fiamme, a Bereznyaki, un campo nomadi da un gruppo neofascista. Nel 2016, vicino a Odessa, era stata poi bruciata una tendopoli di rom, dove trovava la morte, per le gravi ustioni, una ragazzina.
Anche nel 2017, sempre vicino a Kiev, si è assistito a un pogrom contro un acquartieramento di roulotte dove vivevano 180 nomadi.
Il clima in Ucraina si fa sempre più pesante per tutte le minoranze e per chi difende strenuamente i pochi diritti democratici ancora esistenti. Ormai da mesi il gruppo neofascista NazKorp, composta da veterani del tristemente noto Battaglione Azov, pattuglia le strade delle città ucraine con i suoi vigilantes che hanno ottenuto l’avvallo del ministero degli Interni.
Forse sarebbe ora che a Bruxelles si aprissero gli occhi sul degrado politico e morale di un Paese che si fregia di essere associato all’Unione Europea. Prima che sia troppo tardi.

il manifesto 27.4.18
Nuovo venerdì di manifestazioni a Gaza
Striscia di Gaza. Si teme un bagno di sangue come nei venerdì precedenti della "Grande Marcia del Ritorno" in cui i cecchini israeliani hanno ucciso 40 palestinesi. Ieri è rientrata a Gaza la salma di Fadi al Batsh, l'ingegnere di Hamas assassinato dal Mossad a Kuala Lampur
di Michele Giorgio


GERUSALEMME  È rientrata ieri nella Striscia di Gaza la salma di Fadi al Batsh, l’ingegnere e ‎docente ‎universitario palestinese, freddato sabato scorso a Kuala Lampur ‎dai colpi che gli hanno ‎sparato contro due uomini in moto. Un assassinio ‎attribuito al Mossad, il servizio segreto ‎israeliano. Il New York Times ieri ‎scriveva che al Batsh, membro di Hamas, è stato ucciso ‎nell’ambito di ‎una ‎«vasta operazione‎» del Mossad perché era in contatto con la Corea ‎del ‎Nord, per armi destinate a Gaza. Ad accogliere la sua bara proveniente ‎dall’Egitto ‎c’erano, oltre alla famiglia, anche alcuni esponenti di spicco di ‎Hamas. ‎«Stai tornando da noi ‎aprendo la strada per il nostro ritorno in ‎Palestina‎. Il debito degli occupanti è diventato ‎pesante. Il giorno della ‎punizione sta arrivando», ha detto Khalil al Hayya, il numero due ‎di ‎Hamas a Gaza davanti alla bara, avvolta nella bandiera palestinese, durante ‎la breve ‎cerimonia funebre avvenuta al valico di Rafah. I funerali di al ‎Batsh si sono svolti ieri sera su ‎richiesta della famiglia. Hamas avrebbe ‎voluto tenerli ad al Safieh, ad Est di Jabaliya, uno dei ‎cinque accampamenti ‎eretti dai palestinesi per la “Grande Marcia del Ritorno”. ‎
 Oggi migliaia di palestinesi raggiungeranno di nuovo il territorio orientale ‎di Gaza per un ‎nuovo venerdì di manifestazioni e raduni popolari contro il ‎blocco israeliano della Striscia, a ‎breve distanza dalle linee di demarcazione ‎con lo Stato ebraico. Sulla partecipazione ‎potrebbe influire l’ondata di ‎maltempo che si è abbattuta nelle ultime ore sulla regione ‎causando ‎allagamenti diffusi in Israele e Territori palestinesi occupati e la morte di ‎‎11 ‎persone: nove adolescenti israeliani, un beduino nel Negev e una donna ‎palestinese in ‎Cisgiordania. I promotori delle manifestazioni assicurano le ‎cattive condizioni del tempo ‎non fermeranno le nuove proteste. Ad ‎attendere i palestinesi però ci saranno come nei ‎precedenti venerdì i tiratori ‎scelti israeliani e potrebbe rivelarsi una nuova giornata di ‎sangue.
Le ‎Nazioni Unite ieri sono intervenute due volte per criticare l’uso della forza ‎da ‎parte di Israele contro i manifestanti di Gaza. Ocha, l’ufficio di ‎coordinamento degli affari ‎umanitari, ha riferito che fino a due giorni fa ‎erano 40 i palestinesi uccisi – tra i quali due ‎giornalisti e alcuni adolescenti ‎‎- e 5511 quelli feriti dal fuoco dei soldati israeliani. Poi è stato ‎l’inviato ‎dell’Onu, Nickolay Mladenov, a chiedere a tutti, governo israeliano ‎incluso, un ‎passo indietro per placare una situazione sul punto di esplodere. ‎Mladenov ha sottolineato ‎che non ci sono soluzioni militari per le varie ‎crisi mediorientali e per la situazione di Gaza. ‎Ben diverso è stato in sede ‎Onu l’orientamento dell’ambasciatrice Usa Nikki Haley che, ‎sposando la ‎versione israeliana, ha accusato Hamas di usare le dimostrazioni ‎come ‎copertura per attuare attacchi. ‎«Chiunque a cui interessi dei bambini di ‎Gaza ‎dovrebbe insistere sullo stop ‎immediato da parte di Hamas dei ‎bambini come carne da ‎cannone», ha detto rivolgendosi a Mladenov. ‎

Il Fatto 27.4.18
Lago della Duchessa, un falso di Stato per trattare sul serio
di Miguel Gotor


Alle 9:30 del 18 aprile 1978, mentre l’acqua continuava a colare al piano di sotto del covo di via Gradoli, un giornalista de Il Messaggero ricevette una telefonata di “voce maschile, con accento romanesco, ma non di borgata”, che annunciò di avere lasciato un comunicato delle Brigate rosse in un cestino dei rifiuti di piazza Gioachino Belli, nel quartiere romano di Trastevere. Il volantino annunciava “l’avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro, mediante ‘suicidio’” e forniva le coordinate per recuperarne la salma “immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI) zona confinante tra Abruzzo e Lazio”. Rispetto ai messaggi precedenti questo volantino presentava evidenti differenze: aveva uno stile satirico, era più breve, riportava grossolani errori di ortografia di origine romanesca (“soppruso”, “inpantanato”, “trà”) ed era privo dei consueti riferimenti politico-ideologici brigatisti. Inoltre era stato distribuito soltanto a Roma e in formato non originale mentre l’intestazione “Brigate rosse” risultava scritta a mano. Si sarebbe detto un falso grossolano o lo scherzo di un buontempone, se a tempo di record tre periti scelti dal Viminale non ne avessero solennemente ribadito l’attendibilità. Fatto sta che alle 11:30, quando ormai la caduta del covo di via Gradoli, dopo l’intervento dei Vigili del fuoco era divenuta di dominio pubblico, gli elicotteri già volteggiavano sul lago della Duchessa, che non poteva essere raggiunta da mezzi motorizzati, ma soltanto a piedi dopo tre ore di duro cammino in mezzo alla neve alta.
La superficie del lago era ghiacciata e una nevicata recente, oltre a nascondere possibili tracce fresche, rendeva le operazioni ancora più impervie. L’evidenza di questi dati non scoraggiò le fonti governative che si impegnarono, una velina dopo l’altra, ad accreditare l’autenticità del messaggio trovando nei mezzi di comunicazione, in nome di sua maestà la “Cronaca in diretta”, dei compiacenti quanto acritici amplificatori. Anzi, proprio la televisione contribuì a trasformare l’evento, che rivaleggiava sul piano comunicativo con le zoommate dell’interno piccolo borghese del covo di via Gradoli, in un interminabile e angoscioso circo mediatico: così i telegiornali fecero entrare nelle case degli italiani le grottesche immagini di alcuni sommozzatori scafandrati, costretti a infilarsi in un buco da loro stessi provocato facendo saltare una mina, tanto era spessa la lastra di ghiaccio che ricopriva il lago e dove, chissà quando e come, il corpo di Moro sarebbe stato gettato da una fantomatica brigata di “alpinisti rossi”.
Nelle stesse ore, Moro dovette essere informato di quanto stava avvenendo all’esterno perché con toni sarcastici e insinuanti lo definì in una pagina del memoriale “la macabra grande edizione della mia esecuzione [che] può rientrare in una logica, della quale non è necessario dare ulteriori indicazioni”. Un sospetto, condiviso anche dai suoi familiari, i quali, in una telefonata intercettata nel pomeriggio del 18 aprile, commentarono: “Molto sporca questa storia, molto poco rossa”. Oggi sappiamo con certezza che sia Moro da dentro la prigione, sia i suoi congiunti da fuori, colsero in presa diretta nel segno. In effetti, nel corso degli anni, si stabilirà che il falso comunicato fu redatto da un abile falsario di quadri d’arte contemporanea, in particolare di Giorgio de Chirico, di nome Antonio Chichiarelli, una figura di cerniera tra mondi diversi, in rapporti accertati con la Banda della Magliana, ma anche con i Servizi segreti italiani e il Nucleo dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, ucciso da ignoti nel settembre del 1984.
Nel 2006, in un libro-intervista, Steve Pieczenick, esperto di antiterrorismo (e dunque di terrorismo) inviato dal Dipartimento di Stato americano sullo scenario di crisi italiano, ha testimoniato di avere discusso con il ministro degli Interni Francesco Cossiga e con alcuni esponenti dei Servizi, tra cui il criminologo Franco Ferracuti, la realizzazione di un falso comunicato, a suo dire un’“operazione psicologica” funzionale a preparare l’opinione pubblica italiana e quella europea all’eventuale decesso di Moro. Nel medesimo libro, il direttore de il Manifesto Valentino Parlato ha raccontato di essere stato invitato a pranzo da Cossiga con altri giornalisti al Viminale proprio il 18 aprile trovandosi in un clima “surreale e sconcertante” tanto da credere di “avere le allucinazioni”: “Parlammo di tutto tranne che di quella notizia, come se non ci fosse ragione di agitarsi”, ma era evidente il gusto di rendere il palazzo del potere trasparente a un gruppo selezionato di giornalisti tra i più influenti.
In realtà, se non si fossero celebrati negli anni Novanta due clamorosi processi giudiziari, del tutto inimmaginabili nel 1978, gli effettivi comportamenti dispiegati dalle forze dell’antiterrorismo il 18 aprile, con l’operazione del covo di via Gradoli e quella del falso comunicato, sarebbero rimasti per sempre avvolti nella nebbia delle dietrologie. Il primo processo riguardò lo scandalo dei “fondi neri” del Sisde, che ha consentito di ricostruire una mappatura di società immobiliari legate ai Servizi segreti che riconduce con certezza sino all’appartamento adiacente al covo occupato da Mario Moretti in via Gradoli, 96. Il secondo è il processo per la morte del giornalista Mino Pecorelli, ucciso a Roma nel marzo del 1979, che ha visto il sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, accusato di essere il mandante dell’omicidio, risultando assolto in primo grado, condannato in secondo e assolto in via definitiva in Cassazione per non avere commesso il fatto. Nel corso di quel processo, un altro imputato, il magistrato ed ex ministro democristiano Claudio Vitalone, fedelissimo di Andreotti, ma consapevole di rischiare anche lui una pena elevatissima, differenziò la propria strategia difensiva da quella dell’ex presidente del Consiglio. Una scelta processuale che si rivelò prudente quanto efficace dal momento che, diversamente da Andreotti, egli è stato assolto in tutti e tre i gradi di giudizio con formula piena.
Questa divaricazione però indusse Vitalone a raccontare nel 1993 e nel 1995 alla magistratura quanto egli aveva saputo circa il falso comunicato del Lago della Duchessa, rivelando così alcuni aspetti che, senza quell’inaudita pressione processuale, sarebbero forse rimasti ignoti per sempre. Egli dichiarò di avere pensato di procedere alla fabbricazione di un falso comunicato, ovviamente prevedendo l’intervento degli organi di polizia giudiziaria, perché mosso dal timore che le Brigate rosse avessero potuto sopprimere l’ostaggio continuando a gestirlo con l’esterno come se fosse ancora vivo. Era dunque necessario avere una prova dell’esistenza in vita di Moro e l’unica strada percorribile era quella di suscitare una risposta delle Brigate rosse propalando la falsa notizia che egli era stato da loro ucciso. Il problema, infatti, per Vitalone era la “riconoscibilità di coloro che detenevano l’ostaggio”. Bisognava quindi “far diramare un comunicato apocrifo per disorientare le Br”, la cui autenticità poteva essere “strumentalmente attestata da organi di polizia scientifica”. Vitalone spiegava che l’idea era stata lasciata cadere e di essere “trasalito” quando l’aveva vista messa in pratica il 18 aprile senza alcun preventivo coinvolgimento dell’autorità giudiziaria. Nuovamente interrogato nel 1995, aggiunse: “La mia riflessione schematica era questa: se noi lasciamo che le Br muovano i due pezzi della scacchiera, la partita è perduta. Noi dobbiamo inventare una mossa che costringa le Br a rimeditare il loro progetto”.
L’idea di Vitalone di quei giorni e le sue preoccupazioni di investigatore erano certamente influenzate da una recentissima e drammatica esperienza che aveva coinvolto la Procura di Roma di cui allora faceva parte. Infatti, nel corso del sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, avvenuto a Roma il 7 novembre 1977 a opera di alcuni esponenti del nucleo originario della cosiddetta “Banda della Magliana”, la famiglia dell’ostaggio aveva pagato il riscatto il 4 marzo 1978, aggirando le interdizioni della magistratura e delle forze di polizia, quando in realtà il congiunto era già morto. Vitalone sapeva che durante il sequestro i rapitori avevano fatto pervenire almeno due foto dell’ostaggio, con un’iconografia del tutto simile a quella utilizzata dalle Brigate rosse negli stessi giorni con Moro, ma con un particolare macabro in più: l’ultima foto, quella che aveva indotto il figlio a pagare, era in realtà l’immagine del cadavere del duca congelato che teneva in mano una copia de La Nazione tra le mani, utile a provarne l’esistenza in vita.
Oggi nessuno lo ricorda più, ma in quei giorni a Roma erano in corso altri tre sequestri di persona a opera della criminalità comune (Michela Marconi, Angelo Apolloni e Giovanna Amati) e la foto del duca Grazioli era stata pubblicata nella cronaca di Roma dal Corriere della Sera il 7 aprile 1978, dunque in pieno sequestro Moro, con l’appello della figlia a liberare il congiunto ormai già deceduto e la drammatica aggiunta: “La magistratura non esclude che sia stato ucciso”. Sotto la foto del duca Grazioli, che ricordava quella di Moro distribuita dalle Brigate rosse il 18 marzo, compariva un articolo in rilievo intitolato “Cerimonia dei partigiani cristiani sul luogo dell’eccidio in via Fani”, stabilendo così una connessione tra i due episodi non giustificata dall’economia della pagina, trattandosi della cronaca di Roma.
Sempre negli stessi giorni, era convincimento comune tra gli investigatori e anche tra uomini politici avveduti come Bettino Craxi che, dentro la colonna romana delle Brigate rosse, potessero convivere, sul piano organizzativo, un’anima politica e una più schiettamente delinquenziale, contigua sotto il profilo logistico (gestione dei covi, commercio delle armi, produzione dei documenti e delle soffiate) a quella criminalità comune che stava gestendo nello stesso periodo e nella medesima città altri tre sequestri di persona.
Occorre anche rilevare che la produzione di comunicati apocrifi è una prassi non infrequente nell’antiterrorismo italiano e internazionale. Essa, infatti, consente di destabilizzare l’avversario, di controllare e di manipolare una strategia di disinformazione, di confondere e sparigliare il fronte, di prendere l’iniziativa inserendo della moneta falsa, ma certificata, per poi analizzare i comportamenti della controparte. Prova ne sia che tra la primavera e l’estate del 1981, durante i sequestri di Ciro Cirillo e di Giuseppe Taliercio è stato accertato che il Sisde produsse altri comunicati brigatisti con finalità simili a quelle del falso messaggio del Lago della Duchessa. In quei giorni, l’antiterrorismo aveva soprattutto due preoccupazioni, che sono entrambe la spia di una trattativa segreta entrata ormai in una fase avanzata e forse conclusiva: anzitutto ottenere una prova certa dell’esistenza in vita di Moro; in secondo luogo accertarsi che l’ostaggio fosse ancora detenuto dalle Brigate rosse e non fosse passato di mano, una prassi più comune di quanto si pensi nei sequestri di persona, anche di matrice politica.
L’azione di disinformazione e di controguerriglia psicologica del Lago della Duchessa si mostrò efficace perché le Brigate rosse il 20 aprile 1978 furono costrette a rilasciare un comunicato che conteneva una seconda foto di Moro con in mano la copia del quotidiano Repubblica del 19 aprile. Nel messaggio si annunciava che il processo era finito, che Moro era stato condannato a morte “così come è stata condannata la classe politica che ha governato per trent’anni il nostro Paese”, ma si annunciava un’importante novità: “Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione della liberazione di prigionieri comunisti”, per la quale si dava un ultimatum di due giorni. A proposito del falso comunicato del Lago della Duchessa (una “macabra messa in scena” e una “lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica, la preparazione del ‘grande spettacolo’ che il regime si appresta a dare, per stravolgere le coscienze, mistificare i fatti, organizzare intorno a sé il consenso”) i brigatisti indicavano con sicurezza “gli autori: Andreotti e i suoi complici” – oggi sappiamo – cogliendo nel segno con millimetrica precisione. Dopo decenni di reticenza, una serie di testimoni oculari hanno raccontato che, nelle stesse ore, ma sulle sponde di un altro lago, quello di Castel Gandolfo, Paolo VI e la famiglia pontificia avevano ormai ultimato la raccolta di dieci miliardi di lire che sarebbero dovuti servire come riscatto in cambio della libertà di Moro. Ovviamente, soltanto dopo avere accertato la sua esistenza in vita e l’effettiva attendibilità di quanti sostenevano di avere nella loro disponibilità l’ostaggio, per evitare di fare la recente fine dell’aristocratico Grazioli. Di conseguenza, per comprendere il rapporto intercorrente tra l’azione del presidente del Consiglio Andreotti, i Servizi segreti e i vertici dell’antiterrorismo che dalla sua autorità esecutiva e gerarchica dipendevano, la trattativa vaticana e il falso comunicato del Lago della Duchessa bisogna, come sempre, follow the money. Senza però dimenticare un particolare: il galateo del “partito armato”, proprio come quello dei salotti alto borghesi, aveva insegnato ai suoi rampolli che non è mai elegante parlare di soldi.
(7 – continua)

La Stampa 27.4.18
Tito, l’Olp e gli incontri a Beirut
I segreti della trattativa per Moro
Il libro di Francesco Grignetti ricostruisce i contatti con le Brigate Rosse per la liberazione. Così si sfiorò un clamoroso scambio di prigionieri
di Francesco Grignetti


Il colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut, uomo di fiducia di Moro, alla notizia di via Fani rimane traumatizzato, ma non del tutto sorpreso. Esattamente un mese prima della strage ha inviato alla Centrale una segnalazione che avrebbe dovuto mettere gli apparati dello Stato in allarme. Dalle sue fonti palestinesi ha saputo che in Italia si sta preparando un attacco. La soffiata gli arriva da ambienti dell’Fplp, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, un gruppo di ispirazione marxista che è considerato intimamente legato al Kgb.
Il maresciallo Giuseppe Agricola, che è stato il braccio destro del colonnello a Beirut per cinque anni, ricorda nitidamente che cosa le lettere significarono in quelle stanze dove lui e Giovannone condividevano le giornate: «Le lettere erano un messaggio. Ci dicevano: andate a bussare alla porta dei palestinesi». Il colonnello Giovannone, infatti, è ben consapevole che i vertici dell’Fplp sanno molto sul terrorismo italiano e che avrebbero potuto aiutarlo ad intavolare una trattativa con i misteriosi capi delle Brigate rosse. A sua volta, il prigioniero Aldo Moro - che viene informato regolarmente dal colonnello di quel che si agita nel Medio Oriente, e che probabilmente è anche al corrente delle soffiate di febbraio - giunge alle stesse conclusioni di Giovannone. Indica le modalità, uno scambio di prigionieri; la scacchiera, quella del Medio Oriente; il mediatore, Stefano Giovannone.
Si apre la trattativa
Il comunicato brigatista n. 8, quello che comprende un elenco di 13 terroristi detenuti da liberare in cambio della vita dell’ostaggio, risale al 24 aprile, una giornata di svolta nel caso Moro, ed è il contraccolpo di quella operazione ambigua del falso comunicato della Duchessa. A suo modo, questo comunicato n. 8 è una sorpresa: le Br, che finora hanno sempre sostenuto di non voler intavolare trattative, stanno contraddicendo sé stesse. E se pure lo scambio è prospettato in maniera provocatoria, come di chi voglia farsi dire di no a tutti i costi, qualcosa cambia nelle loro strategie. Dacché sostenevano di non volere trattare con lo Stato, ora la trattativa è aperta nei fatti.
La data chiave
Devono essere stati febbrili i colloqui di quei giorni in un’altalena di speranze e delusioni. Il 24 aprile, data che ci appare sempre più cruciale, l’Olp comunica agli italiani di avere notizie molto interessanti. Sappiamo da un ennesimo cablo di Giovannone: «Concordata positiva immediata azione vertici Olp che habent già raccolto qualche utile elemento per stabilire contatti noti interlocutori».
Lo Stato
Commenta la commissione d’inchiesta, presieduta dall’onorevole Fioroni: «Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio le speranze di salvare Moro diventano più forti. Mentre precedentemente si faceva riferimento soprattutto all’acquisizione di informazioni, eventualmente funzionale a azioni di polizia, quella che si tentò di realizzare dalla fine di aprile, con piena consapevolezza istituzionale, è una vera e propria trattativa, che aveva come intermediari i palestinesi. Nello stesso tempo le indagini tendevano a stagnare, quasi che ormai ci si attendesse una soluzione sul piano politico e non su quello investigativo-giudiziario» .
Sì, Cossiga sapeva
Nel 2008, l’ex presidente della Repubblica scrive una lunga lettera al «Corriere della Sera». «La polizia e i carabinieri mi riferirono che avevano sentore che si sviluppassero azioni parallele e vere e proprie trattative, via terrorismo internazionale di sinistra sostenuto dall’Est-servizi segreti della Jugoslavia e della Ddr-resistenza palestinese, con l’ausilio di strutture militari italiane, azioni aventi come scopo la liberazione di Moro attraverso scambi di prigionieri a livello internazionale».
Il contatto italiano
Oreste Scalzone (all’epoca direttore di una rivista dell’ultrasinistra, ndr) riceve un messaggio che origina da Beirut. «Avevano cercato me, i miei compagni dei Comitati comunisti rivoluzionari e della rivista Metropoli così come altri, immagino, spinti dallo scrupolo di non lasciar cadere nulla senza quanto meno “passar parola” e far pervenire un messaggio alle Br». Il messaggio per Scalzone, da girare ai suoi amici brigatisti, gli arriva dai compagni tedeschi.
La missione dello 007
L’ex capo dei servizi segreti, Fulvio Martini, all’epoca vicedirettore operativo del Sismi, ha raccontato così il suo 9 maggio: «Il mio compito, quel giorno, era andare a prelevare i tre della Raf che erano in mano a Tito, due uomini e una donna. Uomini della Raf che dissero di aver avuto rapporti con le Br a Milano. Mi portarono a Portorose e cominciammo a discutere» .
L’accenno di Andreotti
Il 10 maggio, si profila una tempestosa riunione in Parlamento. Andreotti nel corso della riunione del Consiglio dei ministri invita tutti a mantenere i nervi freddi. Intanto racconta che lui e Cossiga, nonostante le apparenze, hanno esplorato diverse strade «non ortodosse». In questo contesto escono i nomi di Gheddafi e di Arafat. Ma di queste trattative «non ortodosse» non deve restare traccia.

Repubblica 27.4.18  1978- 2018
Aldo Moro  Cronache di un sequestro
Arriva con il comunicato numero 7, quello vero, la seconda fotografia che diventa il simbolo di una tragedia italiana. Lo statista prigioniero ha lo sguardo provato e intenso, la camicia spiegazzata, tiene in mano una copia di “Repubblica” del 19 aprile mentre guarda il suo carceriere. È la prova che il leader democristiano è ancora vivo Ma la trattativa per liberarlo è ferma. Nonostante gli appelli del segretario dell’Onu Kurt Waldheim e di papa Paolo VI, che “prega in ginocchio” i terroristi
di Ezio Mauro


 Nell’“ ufficio”, come i brigatisti chiamavano il covo di via Chiabrera, c’era soltanto un vecchio ciclostile. Quando Moretti consegnava ai due “postini” un comunicato con la stella a cinque punte, o una lettera del prigioniero, bisognava pensare alle fotocopie, e quasi sempre Adriana Faranda e Valerio Morucci usavano un chiosco pubblico a due passi dalla facoltà di Architettura, dove potevano fare da soli, uno di guardia, una alla macchina per le copie. Poi, per far ritirare le buste arancioni coi testi, chiamavano gli intermediari indicati da Moro scegliendoli tra le persone a lui vicine, allargando ogni volta la cerchia per sfuggire alla polizia. Parlava Morucci, sempre lui, a nome dell’Organizzazione: subito le istruzioni, scandite in fretta, per paura che il telefono chiamato fosse controllato e la cabina da cui il brigatista parlava venisse individuata. Alla fine, una verifica di sicurezza: «Ha capito bene? ». Ma prima, appena una voce rispondeva, ecco la formula-incubo dei 55 giorni: «Pronto, qui Brigate Rosse».
Qualche volta i “postini” – con la loro fotografia da ricercati appesa al cruscotto di tutte le “volanti” della polizia – rientravano tardi nel covo, anche se la regola brigatista non voleva che si stesse in strada di notte. Ma bisognava controllare da lontano che la busta fosse stata trovata, e dalla persona giusta, proprio quella che il prigioniero aveva indicato dal carcere. Poi, la sera nell’“ufficio” le parole che Moro scriveva venivano lette e rilette e poco per volta la fisionomia del sequestrato si faceva largo nel paesaggio ideologico, militare e sanguinario dei brigatisti. Cominciavano a sentire il peso dell’esercizio di quel “dominio pieno e incontrollato”, il fardello dell’onnipotenza, la sproporzione tra la pistola e l’inermità, uno squilibrio che l’ideologia rivoluzionaria colmava, ma che rispuntava da ogni angolo delle lettere, dove il prigioniero si dibatteva per convincere il governo, per consigliare la Dc, per rassicurare la famiglia, semplicemente per continuare a vivere. Leggevano in via Chiabrera i due “postini”, confidandosi l’un l’altro il primo dissenso per la decisione Br di rendere pubblica la lettera a Cossiga che Moro pensava dovesse restare segreta. Leggeva in via Montalcini Anna Laura Braghetti, stupita dell’angoscia del prigioniero non per sé ma per la famiglia, di cui riusciva a parlare quasi ogni giorno a Mario Moretti, deviando il corso dell’interrogatorio.
Nel piccolo vano di fianco alla cella, insieme coi vestiti che i carcerieri gli avevano fatto cambiare appena arrivati nel covo, c’era un’agenda telefonica sottile che Moro teneva nella tasca della giacca al momento del sequestro. Ne aveva un’altra a casa, verde, più grande, ma quella la portava sempre con sé e per tutto il periodo della prigionia fu l’unica sua mappa del mondo di fuori. Bisognava evitare che la polizia intercettasse i messaggi, dovevano arrivare ai destinatari. E allora ecco che il prigioniero chiedeva l’agenda, scorreva i cognomi che portavano agli amici di famiglia, agli assistenti d’università, ai compagni di partito, agli uomini della sua corrente, agli allievi. Ragionava, sceglieva, trascriveva: poi suggeriva ai suoi carcerieri nomi, numeri di telefono, indirizzi. I brigatisti seguivano l’agenda di Moro.
Moretti aveva capito che il sequestro ormai andava giocato tutto all’esterno. Convinto di avere in mano l’uomo chiave del meccanismo di potere imperialista, l’anello forte che teneva insieme il comando americano e l’Italia, si vedeva rovesciare lo schema da Moro che nell’interrogatorio ricordava la dichiarazione del dipartimento di Stato Usa di due mesi prima, contrario all’intesa di governo con i comunisti, confidava la freddezza diffidente di Kissinger ad ogni incontro, rivelava la sua battuta polemica in una visita di Stato del ’74: «non credo al dogma dell’evoluzione democratica del Pci, così come non credo al dogma dell’Immacolata Concezione». Ormai quell’interrogatorio doveva chiudersi: spendendo sul mercato politico il suo peso simbolico.
Così il 15 aprile arriva il comunicato numero 6 che apre il capitolo della fine: « L’interrogatorio del prigioniero è terminato – dicono le prime righe – non ci sono segreti sconosciuti al proletariato che riguardano la Dc, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia e di pilastro del Sim. Per quanto ci riguarda il processo ad Aldo Moro finisce qui. Le sue responsabilità sono le stesse per cui questo Stato è sotto processo». Poi la conclusione, scritta in stampatello: “Aldo Moro è colpevole e viene pertanto condannato a morte”. “Colpevole”, “condannato”, “morte”. Tutta la parabola del caso Moro è contenuta in queste tre parole, unite da una congiunzione che cerca e inventa un nesso causale: “pertanto”.
È passato un mese dal sequestro con la strage di via Fani. In trenta giorni i brigatisti hanno costruito l’accusa, hanno condotto l’interrogatorio, sono giunti alla sentenza, montando con il processo una gigantesca macchina ideologica che dopo aver girato a vuoto, senza produrre le rivelazioni che cercavano, adesso li porta – in piena autonomia ed esclusiva responsabilità – all’esito verso cui tutto era indirizzato fin dall’inizio: la condanna a morte, per la prima volta nella storia delle Br annunciata in anticipo. Da questo momento, tutto quello che accadrà, o non accadrà, si muove sotto l’ombra di quel ricatto sospeso.
E infatti tutto precipita, per spinte casuali, misteriose, interessate, torbide. Due giorni dopo, il 18 aprile, proprio nell’anniversario del trionfo democristiano di De Gasperi nel ’48, scatta una provocazione in grande stile: è la comparsa del comunicato numero 7 che annuncia “l’avvenuta esecuzione di Aldo Moro tramite suicidio” e rivela che il corpo si trova nel fondo del lago della Duchessa, a 1800 metri tra il Lazio e l’Abruzzo. È un falso, attraversato anche da tre errori di ortografia, fabbricato da uno specialista collegato alla banda della Magliana, Toni Chichiarelli, che verrà ucciso nel 1984.
Cresce una confusione cupa, come in una tragica prova generale in cui ogni scorribanda è possibile, di qualsiasi potere, per qualunque uso o strumentalizzazione. Il sistema sembra fuori controllo. Ma mentre centinaia di agenti cercano il corpo di Moro nel ghiaccio del lago, usando il tritolo, lo stesso giorno si spalanca all’improvviso il più importante covo brigatista di Roma dopo la prigione: la casa dove vivono in clandestinità Mario Moretti e Barbara Balzerani, in via Gradoli 96, interno 11, secondo piano. Alle 7.30 del mattino l’inquilina dell’interno 7 vede una macchia d’umidità che cresce sul soffitto, capisce che è un’infiltrazione, suona e non trova nessuno a casa dell’“ ingegner Vincenzo Borghi”, chiama i pompieri che salgono dal balcone nell’appartamento al piano di sopra e vedono il “ telefono” della doccia aperto al massimo e appoggiato con la scopa sulla parete, vicino a una fessura tra le ceramiche.
Ma spenta l’acqua e usciti dal bagno, scoprono in salotto un vero e proprio arsenale terroristico: un mitra Km- I, sei pistole, un fucile- pompa a canna mozza, sei pistole con silenziatore, due bombe a mano, targhe false, divise della polizia e dell’aviazione, ma anche della Sip e delle Poste, le copie di comunicati Br, un libro mastro delle  spese, due moduli per carte d’identità dello stesso stock rubato nel 1972 e utilizzato da una terrorista della Raf che verrà poi uccisa nel 1979 in un conflitto a fuoco a Norimberga. Ci sono le lenti a contatto di Balzerani, nell’acqua di una bacinella le camicie da lavare di Moretti. I due erano usciti di casa alle 7, il capo delle Br per andare a Rapallo a una riunione dell’Esecutivo, Barbara Balzerani per raggiungere Adriana Faranda nell’“ ufficio” di via Chiabrera, dove verrà a sapere dal telegiornale che il covo è stato scoperto. Le telecamere arrivano insieme con la polizia, prima dei magistrati, spargono la notizia in tutt’Italia: se fosse rimasta segreta, Moretti al ritorno a casa avrebbe potuto essere arrestato, le Br decapitate in pieno sequestro Moro. Incredibilmente sfiorato due volte (dall’ispezione di polizia che trovò la porta chiusa, e dalla seduta spiritica che fece il nome di Gradoli) il “covo” numero 1 cade dunque in pubblico, quasi in diretta tv, come se dovesse essere abbandonato o “consegnato” d’urgenza, salvando i terroristi.
Cresce la febbre malsana del Paese, mentre il sequestro si sta avvitando su se stesso e sparge segnali, sospetti, contraddizioni, paure. Le Br devono smentire il falso annuncio della morte dell’ostaggio, parla Curcio al processo di Torino, arriva il vero comunicato numero 7, accompagnato dalla prova che Moro è vivo: è la seconda Polaroid del prigioniero, che tiene in mano una copia di
del 19 aprile mentre guarda il suo carceriere che lo fotografa. Lo sguardo provato e tuttavia intenso, i capelli più lunghi, la solita camicia da cella spiegazzata, aperta sul collo: lui, che in spiaggia a Maccarese circondato da una folla in costume, sette anni prima, è l’unico in camicia e cravatta, sotto un vestito così scuro che sembra una figura artificiale, infilata bizzarramente in mezzo a quell’immagine- ricordo con il photoshop. Adesso Moretti controlla la qualità della foto, il giornale, lo stendardo, poi ritaglia con le forbici qualche millimetro sui bordi del rettangolo, per eliminare dal retro il codice identificativo della macchina che ha scattato l’istantanea.
Ma con la prova c’è l’ultimatum: la Dc ha 48 ore di tempo per accettare uno scambio di prigionieri, e deve sapere che questa è l’unica strada, “non ce ne sono altre possibili”. Moro scrive a Zaccagnini, supplica il Papa di intervenire. La Dc risponde riproponendo la linea della fermezza per il governo, ma nello stesso tempo chiede alla Caritas di cercare una strada autonoma per arrivare ai brigatisti e convincerli a rilasciare il prigioniero. Il Pci ribadisce che «con i nemici della Repubblica non si tratta, lo Stato non può cedere » , il Psi cerca uno spazio negoziale, convinto invece che Lo Stato «abbia prima di tutto il dovere di tutelare la vita dei cittadini».
Si capisce che siamo al momento decisivo. Dall’Onu il segretario Kurt Waldheim si rivolge in italiano ai brigatisti attraverso la televisione, chiedendo di liberare l’ostaggio “senza ulteriori indugi”. Scade l’ultimatum delle Br, e in questo tempo sospeso, in cui tutti si chiedono che cosa accadrà, arriva il 22 aprile una lettera autografa di Paolo VI, che la Radio Vaticana legge sei volte nelle sue 26 lingue: «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse, vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Moro, semplicemente, senza condizioni». Il Papa in ginocchio che “prega” i terroristi, chiamandoli “uomini delle Brigate Rosse”, appare a tutti come lo sforzo massimo cui il Vaticano può giungere. Ma nella prigione si insegue soltanto il traguardo del riconoscimento politico, e quell’invito di Montini a rilasciare il prigioniero “senza condizioni, semplicemente”, viene letto come una conferma della fermezza, un arroccamento, la chiusura di un canale. Dunque Papa e Onu vengono scartati, senza risposta. La macchinazione ideologica messa in campo dai brigatisti produce una concatenazione meccanica degli eventi, uno schema fisso senza variabili, che alza al massimo la posta puntando ad un solo risultato. Le Br adesso si sentono onnipotenti e impotenti insieme, non vedono la via d’uscita nel clamore universale del caso, negli appelli internazionali, nella soluzione umanitaria. Come se fin dal primo giorno del rapimento di Moro si fossero condannati a condannare.
Continuano a sparare. A Milano hanno appena ucciso con sette colpi di pistola sotto casa Francesco De Cataldo, maresciallo maggiore delle guardie di custodia, definito “torturatore di detenuti”: ma a San Vittore i carcerati decidono una colletta per mandare i fiori al suo funerale. A Roma feriscono alle gambe l’ex presidente democristiano della Regione, Girolamo Mechelli, a Torino colpiscono con sette proiettili Sergio Palmieri, dirigente Fiat alla Carrozzeria. Il penultimo comunicato, il numero 8, chiede la liberazione di tredici detenuti in cambio di Aldo Moro. Sei sono brigatisti, in gran parte del nucleo storico (Curcio, Franceschini, Ognibene, Ferrari, Besuschio, Piancone), tre della banda XXII Ottobre, due dei Nap, uno è un delinquente comune che si è radicalizzato in carcere, Sante Notarnicola, rapinatore omicida della banda Cavallero. Una richiesta che nelle sue dimensioni e nella sua rilevanza sembra proporre allo Stato un’abdicazione, impossibile.
 Nella sua cella il prigioniero sa soltanto quel che vogliono fargli sapere. Ma avverte il clima del “covo”, misura lo stato d’animo dei carcerieri, decifra gli scarsi segnali da fuori. Quando Moretti gli ha annunciato la condanna a morte, spiegandogli che lo spazio per una trattativa restava comunque aperto, ha reagito col silenzio, per un giorno intero. Nessuna risposta alle domande, nessun segnale dalla cella, quasi nessun movimento. Quel giorno vuole far capire ai carcerieri la disumanità del percorso che stanno seguendo, la sua indifesa resistenza, le colpe di ciò che accadrà che vanno cercate dentro la prigione, non fuori soltanto, come fanno i comunicati brigatisti. Col suo rifiuto silenzioso, dice alle Br ciò che non può scrivere nelle lettere che passano per il loro controllo. Lui sa. Non tocca il vassoio del cibo né a pranzo né a cena, Gallinari lo porta due volte fuori dalla prigione intatto, lasciando sul comodino solo la bottiglia dell’acqua.
Poi Moro ricomincia a scrivere, a Craxi, Ingrao, Fanfani, Andreotti, Leone. Legge i ritagli di giornale scelti dai brigatisti. Ha visto l’appello “ per la difesa della vita di Aldo Moro” pubblicato da
firmato da intellettuali, vescovi e soprattutto da due comunisti di rango, come Umberto Terracini e Lucio Lombardo Radice. Ha letto la lettera firmata dai suoi amici, i professori cattolici Scoppola, De Rosa, Gorrieri, Paolo Prodi: « L’Aldo Moro che conosciamo non è presente nelle lettere». Ha sentito che Andreotti è comparso in televisione per spiegare che non ci sono margini per un negoziato, «la decisione è definitiva ». Capisce che l’ora zero si avvicina. Chiede di poter ascoltare una messa, Gallinari e Maccari devono decidere da soli, mentre Moretti è in una riunione dell’Esecutivo: non possono rischiare che per radio o tv arrivi fin nella cella qualche messaggio cifrato, una notizia fuori controllo: e allora Anna Laura Braghetti incide su una cassetta la messa della domenica, poi portano il registratore a pile a Moro, che ascolta parole e suoni della funzione, più volte. Chiede anche di poter ricevere un messaggio della moglie, gli dicono di no perché il canale di ritorno al “covo” è troppo pericoloso. Il “fortino”, come lo chiama in quei giorni Gallinari, è sicuro finché è assolutamente segreto, un indirizzo conosciuto da una sola persona oltre ai quattro brigatisti. Il sequestrato può chiedere alla moglie di mandare una lettera al
Giorno:
quando verrà pubblicata, le Br lo avvertiranno.
Ma i carcerieri gli dicono anche che all’improvviso forse si sta aprendo un canale, proprio mentre tutto sembra chiudersi. È il Psi che decide di sondare l’area dell’Autonomia, in quel territorio grigio che sta tra il “movimento” e il terrorismo. Claudio Signorile incontra Franco Piperno e Lanfranco Pace. Sarà quest’ultimo a muoversi nel mondo dell’università, cercando un aggancio coi brigatisti. Risponde Bruno Seghetti, e Moretti decide che Morucci e Faranda siano il contatto. Ci sono incontri in centro, caffetterie, piazze, bar all’aperto come la pasticceria “ Ruschena” sul lungotevere. Prima i due terroristi replicano in privato la posizione pubblica delle Br, la linea dei comunicati: scambio dei prigionieri, riconoscimento politico, attesa di un segnale dalla Dc. Poi quei colloqui con Pace, che insiste sull’errore politico che le Br stanno compiendo, allargano la piccola crepa che si era aperta nel partito armato. In un paradosso dell’ultima ora, il “contatto” non funziona per aprire un vero canale di trattativa all’esterno del carcere, ma porta all’interno il seme del dubbio, la contraddizione politica e umanitaria che dividerà – inutilmente – il fronte terroristico nella fase finale.
Paralizzata di fronte al sequestro, la politica riesce ad approvare la legge sull’aborto alla Camera con i 308 voti favorevoli (contro 275) di comunisti, socialisti, liberali, socialdemocratici, repubblicani e indipendenti di sinistra. Ma lo stesso giorno, e anche la notte, nuclei armati terroristici firmano un’offensiva di fuoco in tutto il Veneto, con incendi, attentati, sparatorie, molotov, fino alla bomba che nel buio distrugge la sede della Dc a Mestre. Il segretario della Cgil, Luciano Lama, dice che «sarebbe un errore gravissimo se lo Stato trattasse con le Brigate Rosse, anche se in ballo c’è una vita umana, e questo pone un problema crudelissimo», ma nel sindacato parlano di trattativa uomini di primo piano come Crea, Bentivogli, Didò, Marianetti. Ugo La Malfa va a piazza del Gesù per portare la sua solidarietà a Zaccagnini e uscendo annuncia: «Ho deciso di iscrivermi volontariamente nella lista di attesa delle Br». Ma a Torino, per ragioni di ordinaria follia burocratica, viene improvvisamente tolta la scorta a Guido Barbaro, il presidente della Corte che giudica i terroristi, l’uomo a cui Curcio annuncia dalle sbarre dell’aula: «Lei è già stato giudicato, come Moro».
Per la seconda volta in pochi giorni, dal Palazzo di Vetro dell’Onu il segretario Waldheim manda un appello alle Br, quasi un messaggio politico: «Il mondo vi guarda. Ma voi sapete che la terribile angoscia per questa prolungata detenzione può solo danneggiare i vostri obiettivi, quali che siano. Vi chiedo di rilasciare immediatamente Aldo Moro. Una tale azione sarà accolta con sollievo in tutto il mondo e tutti coloro che consacrano la loro vita alla ricerca di una maggior giustizia plaudirebbero » . Nessuna risposta. Nel vuoto, arriva fino al carcere una lettera dei figli di Moro pubblicata dal
Giorno
e indirizzata al papà: « Vogliamo farti giungere un segno del nostro affetto, dirti che il pensiero di ogni momento ti è dedicato di un amore nuovo, di giorno in giorno più consapevole di ciò che tu sei e sei stato per noi».
Voleva essere un messaggio di conforto, era il commiato.
- 8. Continua


Il Sole 27.4.18
La svolta di Panmunjom. Il presidente sudcoreano riferirà a Trump in vista del summit di giugno tra Washington e Pyongyang
Le due Coree riscrivono la storia
di Stefano Carrer


L’incontro tra Kim e Moon al 38° parallelo prepara il terreno alla normalizzazione
Alle 9.30 del mattino ora locale (le 2.30 della notte tra giovedì e venerdì in Italia) segna la storia il passaggio a piedi da parte del leader nordcoreano Kim Jong-un del confine con il Sud nel villaggio di Panmunjon - dentro la zona smilitarizzata sotto le insegne del “Comando delle Nazioni Unite” - per stringere la mano al presidente sudcoreano Moon Jae-in. È una prima volta di grande importanza politica, visto che i due precedenti summit intercoreani (nel 2000 e nel 2007) si erano svolti a Pyongyang. Un’ora dopo, l’inizio dei colloqui finalizzati questa volta non solo a ridurre le tensioni, ma a porre le prime basi di un trattato di pace che sostituisca l’armistizio in vigore dal 1953.
La Peace House, appena all’interno del territorio del Sud, è stata rinnovata per ospitare l’incontro all’insegna di una simbologia di pace e unificazione: dagli arredi fino al menù della cena ufficiale, con cibi tipici ma anche un elvetico rösti(in omaggio al periodo trascorso in Svizzera da Kim) e un dessert al mango su cui è riprodotta in blu una cartina della penisola unificata. Compreso un puntino per indicare l’isola di Dokdo, rivendicata dai giapponesi che la chiamano Takeshima, tanto che Tokyo ha elevato una protesta.
Kim è accompagnato da nove delegati. Per pranzo il suo ritorno temporaneo a Nord, anche perché – è trapelato – non potrebbe andare in bagno al Sud per non lasciare tracce analizzabili per scoprire segreti di stato riguardanti la sua salute. Con Moon, altra prevista mossa simbolica è quella di piantare un pino al confine, con terriccio misto delle due più alte montagne del Nord e del Sud.
Il vertice con Trump
Per quanto la concreta prospettiva di un vertice agli inizi di giugno tra Kim e il presidente americano Donald Trump abbia relativamente smussato la portata clamorosa di questo summit, è chiaro che si tratta di una giornata molto importante per il futuro della penisola. Ed è già emerso che a maggio Moon si recherà a Washington per riferirne a un Trump che, oltre ad accogliere l’invito di Kim, ha altrettanto affrettatamente twittato che il dittatore ha già «accettato la denuclearizzazione».
È vero che rispetto ad alcuni mesi fa – quanto l’atmosfera era carica di tensioni e minacce di guerra – il leader nordcoreano ha teso vari ramoscelli d’ulivo: dalla partecipazione alle Olimpiadi invernali al recente annuncio della sospensione dei test nucleari e di quelli missilistici anche a medio raggio, accompagnata dalla progettata chiusura del sito atomico di Punggye-ri; dalla caduta di vecchie pregiudiziali sulle trattative allo stesso sorprendente invito per un summit a chi lo aveva definito dalla Casa Bianca “Little Rocket Man”. Ma lo ha fatto enfatizzando che la Corea del Nord ha raggiunto lo status di potenza nucleare, per cui i test non sono più necessari.
La sua generica disponibilità alla «denuclearizzazione della penisola» (riportata da interlocutori del Sud), non può significare una rinuncia già sul tavolo negoziale al suo deterrente atomico. Così, osserva Ralph Cossa del Pacific Forum di Honolulu, il vertice nordcoreano sarà fondamentale come test sulla sincerità della volontà di pace di Kim, che evidentemente è motivato soprattutto dal desiderio di allentare le sanzioni internazionali.
Quando la forma è sostanza
Si potranno divinare le vere intenzioni di Kim anche dalle formalità: se si rivolgerà o meno a Moon come presidente della Repubblica di Corea (di solito il Nord chiama il vicino sud Corea, con la s minuscola) o se accetterà di discutere fin d’ora la prospettiva di un trattato di pace e di disarmo nucleare. Temi che finora il regime ha mostrato di non voler trattare con il Sud ma, semmai, con Washington. Del resto, la Corea del Sud non è firmataria dell’armistizio del 1953, in quanto l’uomo-forte di allora, Syngman Rhee, voleva che la guerra continuasse.
Per Cossa, il punto fondamentale è se Kim accetterà di trattare «la sospensione in modo verificabile dell’intero programma missilistico e nucleare, non solo dei test»: se rifiutasse, troverebbe conferma il sospetto che abbia in mente mere tecniche negoziali per ottenere vantaggi economici, senza concedere nulla di sostanziale, anzi magari accelerando la produzione di missili e testate atomiche. «Io sono scettico in proposito, ma spero di sbagliarmi», conclude Cossa. «Le armi nucleari sono diventate non solo una assicurazione contro eventuali attacchi americani, ma strumenti asserviti alla leadership carismatica di Kim e, col tempo, parti integranti dell’identità nord-coreana - afferma Giulio Pugliese, lecturer in War Studies al King’s College di Londra – per questo l’idea di arrivare a un processo completo, verificabile e irreversibile di denuclearizzazione del Nord appare di difficilissima realizzazione».
La denuclearizzazione
Se il leader nordcoreano porrà nero su bianco, magari in un comunicato congiunto, un impegno verso la fatidica «denuclearizzazione», il summit rappresenterà un significativo passo avanti, anche in vista del summit con Trump. «Questo vertice dà motivo a grandi speranze per noi coreani – afferma Ryoo Seung-wan, il regista reduce dai trionfi del kolossal storico-patriottico “The Battleship Island”, presentato al Far East Film Festival di Udine – la prossima volta, spero di venire a Udine in treno direttamente dalla Corea». Del resto, vicino a Panmunjom, c’è la stazione ferroviaria di confine di Dorasan, dove campeggia già una grande mappa della linea diretta di collegamento via terra Corea-Europa. Per il momento, però, ci sono solo i piani di enti e agenzie turistiche per incrementare il numero di visitatori stranieri alla zona smilitarizzata, sull’onda dell’impatto mediatico dell’incontro Moon-Kim.