La Stampa 21.4.18
La rivincita di Marx icona pop
di Gianni Riotta
Antonio Gramsci, sfortunato e geniale pensatore, diceva che la differenza tra il filosofo Hegel e Karl Marx stava tutta «nel giornalismo», e aveva ragione. Editorialista accanito, Marx partiva sempre dalla realtà, con una delle penne più feroci della storia, capace di battute che, su twitter, spopolerebbero. Redatto nel 1848 con il fido Engels, il suo «Manifesto del partito comunista» viene ora, a sorpresa, riletto come manuale per guarire la crisi della democrazia occidentale e la disuguaglianza economica, diffusa da automazione e mercato globale, nei nostri Paesi.
Il vulcanico ex ministro greco Varoufakis rilancia in un pamphlet Marx «fonte di speranza», certo che abbia la soluzione per il capitalismo 4.0, da Uber ai robot. Il pittoresco guru neomarxista Slavoj Zizek incalza «Il comunismo sta per tornare e vendicarsi!». Al cinema code per il film «The Young Karl Marx», diretto da Raoul Peck, un Marx arrabbiato alla Grillo perfino nell’acconciatura, a teatro per la commedia inglese, un po’ musical, «Young Marx» di Bean e Coleman. Per chi associa, giustamente, l’autore delle migliaia di pagine di «Das Kapital» ai libri, ecco «Karl Marx, Greatness and Illusion» di Gareth Stedman Jones, tomo di 768 pagine, per Harvard. Mentre Google segnala 3.700.000 siti sul pensatore comunista, il fantasma di Marx, secondo Varoukafis «degno di Shakespeare», agita il XXI secolo, dopo il XX. Di solito si premia il Marx «giovane», che la critica definiva «umanista», lo scapigliato romantico dei «Manoscritti» 1844, quasi glissando sull’eredità delle dittature crudeli e dei gulag dove milioni di infelici, incluse generazioni che all’utopia di Marx avevano consacrato la gioventù, andavano a morte sotto il suo barbuto ritratto.
Il revival è comprensibile. Per primo Marx ha colto il senso della globalità senza confini e intuito che, infranto il feudalesimo agrario, la rivoluzione industriale avrebbe innescato ansia di libertà irrefrenabile, dal bisogno e dall’aristocrazia. Marx capisce che la macchina non è solo utensile «economico», ma anche motore «politico», e, prima di cibernetica e Intelligenza Artificiale, comprende che la tecnica ci rende «androidi», legando il destino umano a una «cosa», ieri telaio meccanico, oggi computer ed algoritmi (già Aristotele suggeriva che gli «authomata», le macchine, avrebbero emancipato l’umanità, schiavi inclusi).
Che direbbe Marx dei suoi tardi seguaci? Affibbiare a lui, che aspettava la rivoluzione in Europa ed era scettico, al confine della xenofobia, sul comunismo in Asia e Russia, i genocidi di Stalin e Mao è propaganda caduca, ma illudersi che le disuguaglianze, tanto deprecate dall’economista Piketty, guariscano a colpi di «Critica al Programma di Gotha» 1875 è moda effimera di chi Marx poco, o male, dimostra di aver studiato.
Marx aveva visto le disumane condizioni delle fabbriche inglesi, sottovalutando però la capacità di auto-riforma del capitalismo con welfare, salari, pensioni, mutua, pungolato da partiti socialisti e sindacati. L’operaio, però, non era solo l’«homo economicus» del «Capitale», credeva anche in Dio, nella patria, nella famiglia, e la storia dei nazionalismi lo prova anche con Brexit, Trump, Lega. Le proposte rivoluzionarie del «Manifesto» sono ormai realizzate, scuola, lavoro minorile, fisco, fine del latifondo agrario, tasse di successione, o confutate dalla storia con dolore, vedi tragedia dell’industria di stato sovietica o i 40 milioni di morti nella carestia di Mao con l’agricoltura centralizzata. Dare al vecchio Marx da risolvere i nostri guai, ignorando il progresso che ha salvato dalla miseria miliardi di esseri umani dal 1990, è ok su un palcoscenico, sbagliato in politica. Fosse vivo, Marx non ci ripeterebbe garrulo il «Manifesto» 1848, ne scriverebbe uno tutto nuovo, focoso: «Uno spettro si aggira per il web…».
Repubblica 21.4.18
La sentenza di Palermo
Stato - mafia, la trattativa ci fu 12 anni a Mori e Dell’Utri Di Matteo attacca Berlusconi
di Salvo Palazzolo
Assolto Mancino Condanne anche per Subranni e De Donno Il pm: sanciti i rapporti con l’ex premier. Che annuncia querela: assurdo tirarmi in ballo
Palermo «In nome del popolo italiano » . Il giudice Alfredo Montalto scandisce i nomi dei capimafia: «Bagarella Leoluca Biagio, Cinà Antonino. Colpevoli » . Poi, i nomi degli uomini dello Stato: « De Donno Giuseppe, Mori Mario, Subranni Antonio. Colpevoli, per le condotte commesse fino al 1993 » . Nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli, il silenzio è rotto da un urlo spezzato, che viene dalle fila del pubblico. Il presidente della seconda corte d’assise di Palermo continua a scandire un altro nome: « Dell’Utri Marcello. Colpevole, per le condotte commesse nei confronti del governo presieduto da Silvio Berlusconi». E un altro nome ancora: « Ciancimino Massimo. Colpevole».
Alle 16,05 di un giorno che arriva dopo cinque anni di processo, la trattativa fra lo Stato e la mafia non è più solo l’ipotesi di quei quattro pubblici ministeri che adesso se ne stanno immobili davanti alla corte: Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. La trattativa fra alcuni uomini dello Stato e i vertici della mafia ci fu. Fra il 1992 e il 1994, mentre l’Italia era insanguinata dalle bombe che uccisero i giudici Falcone, Borsellino, gli agenti delle scorte e poi fecero ancora altre vittime fra Roma, Milano e Firenze. Ora, il giudice Montalto legge un elenco di colpevoli. Non c’è più distinzione fra i mafiosi, il politico, i carabinieri. Sono solo imputati, colpevoli.
Spicca, nella lista, l’assenza del nome dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. L’attesa cresce, il colpo a sorpresa può essere dietro l’angolo. Accanto al presidente, c’è la giudice Stefania Brambille. Da una parte e dall’altra, la giuria popolare. Prosegue la sentenza, inesorabile: « Bagarella Leoluca Biagio, condannato alla pena di anni 28 di reclusione. Cinà Antonino, Dell’Utri Marcello, Mori Mario e Subranni Antonio, condannati alla pena di anni 12. De Donno Giuseppe, Ciancimino Massimo, alla pena di anni 8». E tutti, «interdetti in perpetuo dai pubblici uffici». Insieme, i mafiosi al 41 bis, l’ex senatore di Forza Italia in carcere per mafia e gli ex carabinieri del Ros che fino a un momento fa erano ufficialmente soldati dell’antimafia. Tutti accusati di «attentato a un corpo politico dello Stato». Sarebbe stato condannato anche Riina, ma la corte dichiara «l’estinzione del reato per morte del reo» . Solo l’ex ministro Mancino viene assolto. Era accusa to di falsa testimonianza. « Il fatto non sussiste » . Dicono i suoi legali, Nicolletta Piergentili e Massimo Krogh: « Siamo stati sempre fiduciosi nella giustizia » . E l’ex presidente Napolitano: « Contro di lui c’erano accuse grossolane».
« Una sentenza storica — commenta invece Nino Di Matteo, non appena la corte esce dall’aula — Viene sancito che mentre saltavano in aria i giudici, qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina chiedeva ». Di Matteo sottolinea soprattutto un passaggio della sentenza: « I giudici hanno detto chiaramente che Dell’Utri fece da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi, da poco insediato, nel 1994». Fa una pausa e riprende: « Finora si era messa in correlazione Cosa nostra con Berlusconi imprenditore. Adesso, per la prima volta, questa sentenza mette in correlazione l’organizzazione criminale col Berlusconi politico. E non mi risulta che lui abbia mai denunciato quelle minacce di mafia che gli furono recapitate da Dell’Utri » . Sono parole che rimbalzano presto nel mondo politico. Dal Molise Berlusconi reagisce indignato e annuncia una querela: « Le parole di Di Matteo sono di una gravità senza precedenti. È assurdo e ridicolo il tentativo di accostare il mio nome alla trattativa Stato-mafia».
È il giorno della sentenza, che non si aspettavano neanche i cinquanta attivisti di Libera, di Scorta Civica e delle Agende rosse, il movimento fondato dal fratello del giudice Borsellino. Anche loro immobili ad ascoltare il verdetto. Perché, in fondo, gli ufficiali del Ros erano già stati assolti altre volte dalle accuse dei pm: per la mancata perquisizione nel covo di Riina, per la mancata cattura di Provenzano. Investigatori ritenuti spregiudicati, ma mai collusi. E poi sembrava che anche la condanna a 7 anni contro Dell’Utri stesse per essere spazzata via, dopo la stangata dell’Europa sul reato di concorso esterno. Nei cinque giorni della camera di consiglio, un tam tam insistente aveva ormai riempito Palermo: « Sarà assoluzione » . Invece, è una condanna durissima. Non ci sono solo gli anni di carcere, ma anche un maxi risarcimento che gli uomini dello Stato e i mafiosi dovranno pagare «in solido». Dieci milioni di euro, in favore della presidenza del consiglio. In aula c’è Luciano Traina, il fratello di Claudio, uno dei poliziotti morti con Borsellino. Dice: « Ora, voglio tutta la verità sulla strage di via D’Amelio».
Repubblica 21.4.18
Una verità controvento
di Attilio Bolzoni
In questo gorgo ci sono sì i carabinieri dei reparti speciali e i boss di Cosa Nostra, ma c’è soprattutto Dell’Utri, l’inseparabile amico di Berlusconi che gli ha portato in dote i compari palermitani
Questa sentenza dice che il cratere di Capaci — per quanto profondo — non è riuscito a ingoiarsi tutti i misteri e tutti i ricatti, i patti, i depistaggi, gli inganni. Dice che ci sono stati uomini delle istituzioni e di almeno un partito che hanno negoziato — per conto proprio e per conto terzi — con i peggiori criminali della storia italiana. Questa sentenza dice che lo Stato ha processato e condannato se stesso.
Quello che era annunciato come il verdetto che avrebbe chiuso per sempre un’epoca giudiziaria che si era aperta nel 1992 con l’uccisione del giudice Falcone, si è rivelato al contrario una vera “ bomba”. Precipitata improvvisa e violenta sulla politica con la condanna di Marcello Dell’Utri ( si scrive Dell’Utri ma si legge Berlusconi: è una sola la vicenda che li unisce da quasi mezzo secolo ed è molto siciliana), sugli apparati che hanno difeso senza pudore quegli ufficiali del vecchio Ros dei carabinieri specialisti nel doppio e nel triplo gioco, sulla stessa magistratura che sul processo Stato- trattativa si è divisa come e più di un’opinione pubblica che non poteva e non voleva credere che ci fossero “ pezzi” dello Stato in combutta con Totò Riina e con Leoluca Bagarella.
Contro ogni previsione — supportata dall’assoluzione di due anni fa dell’ex ministro Calogero Mannino che rappresentava in sostanza il pilastro dell’accusa sui patti fra Stato e mafia — la sentenza della Corte di Assise di Palermo mette in discussione una “ linea” giudiziaria che in molti davano buona per inerzia e riapre in modo clamoroso ogni investigazione su tutto ciò che di spaventoso è accaduto prima, durante e dopo i massacri del 1992. In questo gorgo ci sono sì i carabinieri dei reparti speciali e i boss di Cosa Nostra, ma c’è soprattutto “ Marcellino”, l’inseparabile amico di Silvio che gli ha portato in dote i compari palermitani ( prima i Bontate dell’aristocrazia mafiosa, poi gli emissari dei Corleonesi): ancora rinchiuso a Rebibbia per concorso esterno, ora deve fronteggiare quest’altra condanna per avere chiuso l’ultimo patto con Cosa Nostra. E non per un interesse puramente personale ma in quanto braccio destro e co- fondatore di Forza Italia, il partito che avrebbe cambiato subito dopo i massacri i destini del nostro Paese. Per l’attualità è Marcello Dell’Utri il personaggio centrale di questa raffica di condanne, arrivate nel corso delle trattative ( parola che ricorre sinistra dopo la sentenza) per la formazione del governo, un “ segretario” tutto fare di Silvio che alla fine del 1993 « si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa Nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario » .
Tesi sostenuta dalla pubblica accusa e accolta interamente dai giudici — 12 anni di reclusione chiesti dai pm, 12 anni la condanna — con “ Marcello” al fianco di Berlusconi, nominato capo del governo nel marzo 1994. Ma non ci sono state solo le pressioni per il 41 bis. Dell’Utri, prima sollecitato dal famigerato “ stalliere” Vittorio Mangano e poi dai terribili fratelli Graviano, si sarebbe fatto “ interprete” degli interessi di Cosa Nostra.
Sono stati tutti “ ambasciatori” dei boss gli imputati di questo processo che anche per gli osservatori più attenti sembrava destinato al niente, in controtendenza assoluta rispetto agli orientamenti di gran parte della magistratura inquirente che ha investigato sulle stragi e dintorni.
Un’indagine controvento. Soprattutto quando si è inoltrata nei meandri maleodoranti di quel reparto speciale dei carabinieri ( oggi c’è un Ros completamente rifondato e che nulla ha a che fare con il passato) guidati da quel generale Mario Mori dall’oscura radice e dal molto “ creativo” metodo d’indagine. Al centro delle investigazioni per l’incredibile mancata perquisizione del covo di Totò Riina e assolto, coinvolto nella mancata cattura del boss Bernardo Provenzano e assolto, questa volta il generale e il suo fidato scudiero Giuseppe De Donno sono rimasti imbrigliati nella morsa della trattativa, accordi che sono cominciati proprio da loro fra Capaci e via D’Amelio con contatti cercati con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. I carabinieri erano a caccia anche a quel tempo di “ coperture” politiche. Le trovarono? È mistero fitto. Di sicuro, alla vigilia della sua uccisione Paolo Borsellino venne a conoscenza di queste manovre e provò turbamento. Poi il 19 luglio, l’autobomba.
Il resto è cronaca recente. E tutto è cominciato con l’apparizione pirotecnica di Massimo “ Massimuccio” Ciancimino, il figlio più piccolo di don Vito, che fra tante patacche spacciate ha avuto il merito — solo con la mossa — di far riaffiorare ricordi a un po’ di ministri e di funzionari di alto rango che sembravano molto “ smemorati”. Sono stati alcuni di loro, in fondo, a trascinare sul banco degli imputati l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, che però ieri è stato assolto. Colpi di scena che hanno oscurato mediaticamente, udienza dopo udienza, la “ sostanza” del processo. Forse, anche per questo, nessuno se l’aspettava una conclusione così fragorosa istituzionalmente.
Cosa ci consegna alla fine questa sentenza di Corte di Assise? Che la trattativa ci fu e non è nata nella mente delirante di qualcuno e nei “ teoremi” del cosiddetto “ rito siciliano”, che trattare con la mafia ( contrariamente a ciò che fino a ieri pensavano in molti anche ai vertici di cariche di rilievo) è reato, che per una volta la verità processuale non è troppo lontana dalla verità storica come ci hanno abituato tanti altri verdetti pronunciati in questi anni. I pubblici ministeri del dibattimento sulla trattativa — come ha ricordato nella sua requisitoria Nino Di Matteo — sono stati accusati da più parti persino di « essersi mossi con finalità eversive » . La sentenza spiega al contrario che non sempre la mafia sta da una parte e lo Stato dall’altra. Alcune volte possono anche mischiarsi. Sembra una banalità conoscendo la nostra storia, ma adesso c’è una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano.
Repubblica 21.4.18
Le conseguenze sulle alleanze
E M5S scarica il Cavaliere dopo aver aperto ai suoi voti
Di Maio: morta la Seconda Repubblica. Fraccaro: pietra tombale su Fi I grillini seppelliscono per sempre la soluzione dell’appoggio esterno
di Liana Milella
ROMA È frutto di un caso. Solo una pura coincidenza.
Ma destinata a cambiare la storia di M5S e del futuro governo.
S’incrociano, nella stessa giornata, il lunghissimo cammino del processo sulla trattativa Stato-mafia e la strada breve, ma tormentata, dei tentativi di dare all’Italia un nuovo inquilino per palazzo Chigi. E in poco più di un’ora, orologio alla mano, cambia l’intero scenario. La sentenza, chiosata dal pm Di Matteo, produce tra i vertici dei 5stelle un effetto singolare, sembra il bacio del principe sulle labbra di Biancaneve addormentata. Uno shock. Che, nell’ordine, colpisce Di Maio, Fico, Di Battista, Fraccaro. Solo per citare i maggiori esponenti del movimento.
«Il verdetto sul processo arriva al Berlusconi politico» sottolinea a Palermo il magistrato. E a Roma M5S sembra svegliarsi all’improvviso. E giunge perfino a dimenticare che appena ventiquattr’ore prima, nell’ansia di fare un governo a tutti i costi, superando le palesi ostilità dei berlusconiani, Di Maio aveva ipotizzato un appoggio esterno di Forza Italia e di Fratelli d’Italia.
«Un suicidio politico per M5S, una normalizzazione» come l’ha definita lo storico dell’arte Tomaso Montanari. Offerta peraltro sdegnosamente respinta. E che ha prodotto lo “schiaffo” immediato dell’ex Cavaliere, «a Mediaset non pulirebbero nemmeno i cessi».
Ma adesso tutto cambia. Adesso c’è Di Matteo. E quel macigno sulla strada delle trattative, perché «questa sentenza per la prima volta mette in correlazione la mafia con Berlusconi politico».
È il segnale di una liberazione.
Che trapela dallo staff di M5S prima come indiscrezione, in cui già prende piede lo stop a Forza Italia, la «pietra tombale» su ogni possibile interlocuzione con loro, e poi con il tweet di Luigi Di Maio.
«La trattativa Stato-mafia c’è stata, con le condanne di oggi muore definitivamente la seconda Repubblica» scrive il candidato premier grillino. E con la fine annunciata della Seconda Repubblica “muore” anche qualsiasi apertura a Berlusconi, mentre parte un tam tam verso il leader della Lega Salvini perché si smarchi dal suo alleato e faccia un passo avanti.
Non c’è ancora, nelle parole di Di Maio, il nome proprio del leader di Forza Italia. Perché nei momenti convulsi del dopo sentenza c’è ancora chi, ai vertici di M5S, raccomanda una minima prudenza e chiede di non personalizzare sull’ex Cavaliere il no a un accordo di governo con i forzisti. Ma ci pensa Alessandro Di Battista, in campagna elettorale in Molise, a rompere qualsiasi indugio ed esitazione. Addirittura lo chiama Caimano. «Con la storica sentenza sulla trattativa Stato-mafia si dimostra, una volta per tutte, che pezzi delle istituzioni sono scesi a patto con Cosa nostra. Tra i contraenti c’è Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi. Ora il Caimano sarà ancora più nervoso» dice Di Battista. Che conferma la lettura di Di Maio: «Finalmente e definitivamente oggi finisce la Seconda Repubblica».
«Bella giornata, bella sentenza, che riavvicina tanti cittadini allo Stato. E io sono contento da cittadino». È sempre Di Battista a ringraziare pubblicamente i magistrati di Palermo, come aveva fatto anche Di Maio, e a invitare chi conduce il confronto politico sul governo a tenerne conto. Sarà impossibile per M5S non farlo, a questo punto tornare politicamente indietro rispetto a un pomeriggio di invettive anti berlusconiane. Come la chiusura netta e senza sconti del neo presidente della Camera Roberto Fico che parla di «valore civile e morale straordinario» di questa giornata. Fico non cita Berlusconi, ma istituzionalmente, soprattutto se sarà il prossimo incaricato da Mattarella per tentare un nuovo governo, il suo giudizio conta.
Quell’invito «a fare luce sulle pagine buie della nostra storia per sentirci Stato» equivale a una netta chiusura per chi, secondo la sentenza, ha violato le regole basiche dello Stato stesso.
La sentenza, in un solo pomeriggio, ha liberato tutto l’anti berlusconismo di M5S, tant’è che un fedelissimo di Di Maio come Riccardo Fraccaro, consegna alle agenzie parole durissime: «È un macigno su un sistema di potere che tenta ancora di avvinghiare il Paese nei suoi tentacoli. Politicamente è una pietra tombale».
Repubblica 21.4.18
Il verdetto sulla trattativa Stato-mafia
La Repubblica rifondata su una sentenza
di Stefano Folli
Ancora una volta, secondo Luigi Di Maio, «muore la Seconda Repubblica». Era già morta il 4 marzo, a sentire il leader dei Cinque Stelle, sepolta sotto il 32,5 per cento ottenuto dal Movimento nelle urne. Ma è di nuovo defunta ieri pomeriggio in seguito alla sentenza del processo Stato-mafia. Il che introduce una variabile molto insidiosa nel labirinto della crisi politica. Anziché tenere separati i due livelli, quello della verità giudiziaria e quello della prassi politica, si tenta di intrecciarli fino a renderli inestricabili. A cavallo di questa tigre, Di Maio prova a slanciarsi di nuovo verso Palazzo Chigi, saltando le infinite contraddizioni e gli errori di manovra nel palazzo che in quaranta giorni ne hanno appesantito la marcia fino al sostanziale fallimento.
Non c’è da stupirsi. I Cinque Stelle hanno ottenuto buona parte del loro successo popolare in questi anni sul presupposto che le infiltrazioni criminali nello Stato abbiano alterato il gioco democratico. Per coincidenza la sentenza di Palermo arriva nel pieno di un passaggio politico confuso, dagli sbocchi ancora indecifrabili; e inevitabilmente permette a Di Maio di afferrare una preziosa ciambella di salvataggio nel momento più difficile. E non solo a lui. Il presidente della Camera, Fico, non ha nascosto il suo entusiasmo per un evento «straordinario»: eppure si tratta della terza carica dello Stato, una figura istituzionale, come si usa dire, che dovrebbe mantenere un minimo di distacco dalle passioni politiche.
Peraltro il “mafioso di Arcore”, definizione spesso riservata dai Cinque Stelle a Berlusconi, giusto ieri mattina si era scagliato non senza volgarità contro il vertice del M5S (gente che «a Mediaset pulirebbe i cessi»).
Si capisce quindi che Di Maio abbia sventolato la sentenza come una bandiera, visto che il co-fondatore di Forza Italia, Dell’Utri, ha ricevuto un’altra pesante condanna.
La fotografia del Paese, secondo una certa iconografia pentastellata, ne viene esaltata.
Del resto, non va dimenticato che il pubblico ministero del processo, Di Matteo, è intervenuto di recente a Ivrea a un convegno dei Cinque Stelle, tanto che qualcuno già se lo è immaginato — ma senza basi concrete — ministro in un governo Di Maio.
In ogni caso non è facile stabilire se la sentenza assesta davvero un colpo mortale a una Seconda Repubblica che a tanti sembra non essere mai nata. Di sicuro garantisce ai Cinque Stelle l’uso politico di quello che la sentenza ha definito. Come ha detto lo stesso Di Matteo, «sono sanciti i rapporti mafiosi di Berlusconi». Difatti è lì che i magistrati hanno colpito: Berlusconi non è condannato, ma in un certo senso è come se lo fosse. Spetta adesso a Di Maio e ai suoi sfruttare la circostanza per tentare di allargare la crepa fra il fondatore di Forza Italia e Salvini. Ma per riuscirci bisogna abbracciare senza riserve la tesi della natura criminogena non solo di Berlusconi, ma di una discreta fetta degli apparati, delle istituzioni, delle forze dell’ordine. E magari spiegare come mai di un certo Berlusconi, omonimo del personaggio qui descritto, Di Maio l’altro ieri fosse pronto ad accettare l’appoggio esterno a un esecutivo Cinque Stelle.
La Terza Repubblica, se nascerà eventualmente su tali premesse, sarà fondata sulla stretta alleanza — mai così salda — fra politici e magistrati. La legittimazione del nuovo assetto verrà dalla sentenza di Palermo e da altre analoghe che potrebbero seguire. In fondo non sarebbe la prima volta. Chi ha buona memoria ricorda gli anni di Tangentopoli: la delegittimazione degli avversari e il tentativo, peraltro non riuscito, di costruire una nuova classe dirigente fondata su una sorta di purezza rivoluzionaria. Stavolta è diverso, anche perché sullo sfondo ci sono i delitti della mafia e non i politici corrotti. Ma tutto si tiene, in un certo senso. Se Di Maio considera davvero il processo di Palermo come il secondo tempo della vittoria elettorale di marzo, il meno che si possa dire è che il compito istituzionale di Mattarella diventa ancora più complesso.
La Stampa 21.4.18
“Delusa, rinuncio al Nobel ebraico”
La rabbia di Israele contro Portman
L’attrice diserta la premiazione. Il governo: così si unisce al boicottaggio
di Giordano Stabile
Il conflitto fra Israele e i palestinesi irrompe a Hollywood e la protagonista è un’attrice ebrea, nata a Gerusalemme e naturalizzata americana. Natalie Portman, tre nomination in carriera e un Oscar come miglior attrice nel 2011 per il film «Il cigno nero», ha annunciato di voler rinunciare al Premio Genesis, conosciuto come il «Nobel ebraico». La cerimonia, prevista per giugno, è stata annullata e la decisione ha scatenato una tempesta in Israele. Portman non ha dato spiegazioni ufficiali al suo gesto. Una sua portavoce si è limitata a spiegare che «i recenti avvenimenti sono stati estremamente dolorosi per lei» e quindi «non si sente a suo agio nel partecipare ad alcun evento pubblico in Israele».
La Fondazione Genesis ha espresso la sua «tristezza» per la decisione, ha detto di «rispettare il suo diritto di criticare il governo» ma anche di temere che il suo gesto porti a una «politicizzazione» della cerimonia: «Una cosa che abbiamo sempre cercato di evitare». Ma è chiaro che il «no» di Portman è destinato a essere legato alle proteste nella Striscia di Gaza che nelle ultime tre settimane hanno portato alla morte di 39 palestinesi, 4 ieri, per il fuoco dell’esercito israeliano e al ferimento di altri 1400. Quando, lo scorso novembre, la Fondazione aveva annunciato di aver scelto lei per il riconoscimento, l’attrice si era detta «orgogliosa delle sue radici in Israele».
Portman aveva manifestato critiche alla politica israeliana già nel 2009 e si era detta «delusa» per la rielezione di Benjamin Netanyahu nel 2015. Ma non era mai stata sostenitrice del movimento «Bds» per il boicottaggio di Israele. Ora la sua presa di posizione è destinata a rafforzare il partito anti-israeliano nel mondo dello spettacolo, che già a dicembre si era spaccato in due dopo che la cantante Lorde aveva cancellato un concerto a Tel Aviv. Una posizione simile è stata presa più volte dalla rockstar Roger Waters dei Pink Floyd, mentre un altro gruppo storico, i Radiohead, ha dovuto affrontare critiche feroci per il concerto tenuto in Israele lo scorso 19 luglio. Il leader Thom Yorke ha poi replicato in una intervista con la rivista “Rolling Stone”: «Ci sono tantissime persone che non sono d’accordo con il movimento Bds: non crediamo nel boicottaggio culturale».
Il Premio Genesis, lanciato nel 2013, ha fra i propositi quello di fare del messaggio culturale un ponte fra Israele e il resto del mondo. Sono stati premiati, dal 2014, l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, lo scultore Anish Kapoor, il violinista Itzhak Perlman e un’altra star di Hollywood, Michael Douglas. Tutti hanno donato il milione di dollari del premio a istituti di beneficenza. La Fondazione Genesis ha fatto sapere che Portman non intende restituire la somma, che probabilmente sarà donata, mentre i due milioni aggiuntivi promessi dal filantropo israeliano Morris Kahn andranno comunque a una Ong a difesa dei diritti delle donne.
Ma il punto è politico. Il ministro della Cultura, Miri Regev, è stata categorica: «Mi spiace molto che Natalie Portman sia caduta nella mani dei sostenitori del Bds». Un’attrice «ebrea che è nata in Israele», ha sottolineato Regev, «si è unita a coloro che vedono il meraviglioso successo della rinascita d’Israele come una storia di tenebra e tenebra», con una parafrasi del titolo del libro «Una storia d’amore e di tenebra» di Amos Oz, poi un film diretto dalla stessa Portman. Un deputato del partito Likud, Oren Hazan, ha chiesto addirittura la revoca della nazionalità israeliana all’attrice, nata in Israele nel 1981 ed emigrata a tre anni a Washington assieme ai genitori. Il Premio Genesis doveva segnare il ritorno trionfale nella sua terra di origine, come la regina Amidala da lei interpretata in «Guerre stellari». E invece Portman sembra aver voluto indossare la maschera di «V per Vendetta».
Repubblica 21.4.18
“Israele, rifiuto il tuo Nobel” lo schiaffo della star Portman per i morti del venerdì a Gaza
di Vincenzo Nigro
L’attrice rinuncia a un prestigioso riconoscimento dopo gli ultimi scontri Al confine altre vittime: anche un ragazzo di 15 anni tra i 4 palestinesi uccisi
Per il quarto venerdì di seguito, ieri Gaza ha protestato contro Israele. Poteva essere la giornata in cui i numeri dei manifestanti ( 3000) e soprattutto quello dei palestinesi colpiti dai soldati israeliani ( comunque un bilancio tragico: 4 morti e 700 feriti) avrebbero indicato una flessione della “ Marcia del ritorno”. Quasi un affievolimento in vista delle proteste finali di metà maggio. Ma, come spesso accade nelle dinamiche mediorientali, è stato un fattore di totale sorpresa a tenere alta l’attenzione dei media internazionali sulla protesta di Hamas, sulla Marcia che vorrebbe riportare i palestinesi nei territori che oggi sono di Israele.
Ieri mattina l’attrice israelo- americana Natalie Portman ha annunciato che non verrà a ritirare a Gerusalemme il Premio Genesis, quello che viene definito il “Nobel di Israele”. Di fatto rifiuta il riconoscimento proprio a causa di quelli che, in un comunicato diffuso dalla fondazione Genesis, l’attrice definisce « recenti avvenimenti ». Il riferimento è chiaro alla Marcia di Gaza, alla reazione di Israele alla mobilitazione di Hamas, al fatto che i cecchini israeliani prendono di mira i palestinesi che si avvicinano al recinto di separazione, sparano prima che riescano a danneggiarla per entrare in Israele.
La cerimonia solenne per la consegna del premio è stata annullata. Portman doveva ricevere un premio di 2 milioni dollari raccolti dalle fondazioni filantropiche dell’uomo d’affari Morris Kahn e dell’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, anche lui imprenditore di successo nel mondo dei media. Il premio doveva essere devoluto ad associazioni che lavorano per l’emancipazione femminile. Kahn, un ebreo sudafricano immigrato in Israele, ha criticato l’attrice. «Assieme alla fondazione Genesis provvederemo alle necessità delle organizzazioni femminili, per le quali abbiamo raccolto 2 milioni di dollari con la Fondazione Michael Bloomberg. Il premio sarà consegnato dalla Fondazione Genesis e non dalla signora Portman ».
Portman aveva ricevuto il premio proprio perché è una stella di Israele nel mondo: attrice famosa, da alcuni anni anche produttrice, di recente ha finanziato ed interpretato il film “ Sognare è vivere” tratto dal romanzo “ Una storia di amore e di tenebra” di Amos Oz.
Nel governo di Bibi Netanyahu le reazioni sono state furiose. Portman è stata accusata praticamente di tradimento innanzitutto dalla ministra della Cultura, Miri Regev: «Portman è caduta come un frutto maturo nelle mani dei sostenitori del Bds», dice la Regev, riferendosi alla campagna internazionale per il boicottaggio di Israele. Un altro deputato del Likud, Oren Hazan ha proposto che a Portman - nata in Israele con il nome di Neta- Li Hershlag – venga addirittura revocata la cittadinanza.
In verità Portman ha presentato la sua scelta con discrezione, non ha neppure fatto chiaramente un riferimento alle uccisioni di Gaza; ma ormai da mesi la stragrande maggioranza della comunità ebraica americana è entrata in rotta di collisione con gli ebrei di Israele, con i sostenitori dei partiti di destra e di quelli religiosi, tanto che ormai si parla apertamente di “questione americana”.
Tornano alle proteste di Gaza, a fine serata i morti erano 4, fra cui un ragazzo di 15 anni. I palestinesi questa volta hanno adoperato catapulte artigianali per lanciare pietre, hanno fatto volare aquiloni con bombe molotov. Venerdì prossimo la protesta continua.
il manifesto 21.4.18
Natalie Portman, scioccata da uccisioni a Gaza non ritira il Nobel ebraico
Israele/Striscia di Gaza. La destra al governo insorge contro l'attrice e regista israelo-statunitense alla quale un deputato chiede di revocare la cittadinanza
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Natalie Portman ha rovinato al governo Netanyahu i festeggiamenti per il 70esimo anniversario della proclamazione di Israele. L’attrice, regista e produttrice cinematografica israelo-statunitense, ha fatto sapere che non verrà a Gerusalemme a ritirare il Genesis Prize, il Nobel ebraico. A spingerla a fare un passo indietro sono stati, ha fatto sapere, «gli ultimi eventi per lei estremamente dolorosi e che non si sente a suo agio a partecipare ad eventi pubblici in Israele». Portman non cita la Striscia di Gaza ma è stato chiaro a tutti che la sua decisione è una reazione alle decine di palestinesi uccisi nelle ultime settimane dal fuoco dei tiratori scelti dell’esercito israeliano dispiegati lungo le linee di demarcazione con Gaza per contrastare la “Marcia del Ritorno”.
L’ira della destra al governo in Israele è scattata immediata. La ministra della cultura Miri Regev ha accusato la Portman di essersi schierata con il Bds, la campagna di boicottaggio di Israele a causa delle sue politiche nei confronti dei palestinesi. «Nathalie, un’attrice ebrea che è nata in Israele, si è unita a coloro che vedono il meraviglioso successo della rinascita d’Israele come “una storia di tenebra e tenebra”», ha ironizzato Regev, parafrasando il titolo del libro ”Una storia d’amore e di tenebra di Amos Oz”, dal quale Portman ha tratto un film da lei diretto. Il deputato del Likud, Oren Hazan, uno degli esponenti di punta dell’estremismo di destra, ha invocato la revoca della nazionalità israeliana all’attrice. «Portman è un’ebrea israeliana che da una parte usa cinicamente le sue origini per far progredire la sua carriera e dall’altra si vanta di aver evitato di essere arruolata nell’Idf (l’esercito)», ha commentato Hazan. Per Rachel Azaria, del partito Kalanu, la decisione dell’attrice Usa sarebbe il riflesso di un cambio di atteggiamento degli americani ebrei nei confronti di Israele.
Portman aveva detto di voler devolvere i due milioni del Genesis Prize ad associazioni delle donne e, stando a quanto riferito ieri sera dal quotidiano Haaretz, non restituirà la somma.
Corriere 21.4.18
Lerner e il viaggio in sei tappe alle radici dei pregiudizi
Da domani il reportage «La difesa della razza». La senatrice Segre: in Italia vedo troppa indifferenza
di Renato Franco
«Prima, durante e dopo la mia prigionia mi ha ferito l’indifferenza colpevole più della violenza stessa. Quella stessa indifferenza che ora permette che Italia e Europa si risveglino ancora razziste; temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la Storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite». Liliana Segre, la ragazzina reduce dall’inferno — espulsa dalla scuola a 8 anni perché ebrea, deportata a 14 nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau —, da qualche mese senatrice a vita, è la testimone vivente della necessità di non dimenticare il passato. È a fianco di Gad Lerner alla presentazione del suo nuovo programma, La difesa della razza, un reportage in 6 puntate in onda da domani alle 20.30 su Rai3.
Un’inchiesta che va alla radice dei meccanismi che ancora oggi dal pregiudizio etnico conducono alla discriminazione e alla persecuzione delle minoranze. Storie e testimonianze che si misurano e si scontrano con l’insidia del pregiudizio e del disprezzo nei confronti di chi percepiamo come altro, come diverso, nella riproposizione dell’automatismo «noi e loro». Ogni puntata affronta una discriminazione: noi e gli ebrei; noi e gli africani; noi e gli arabi; noi e i cinesi; noi e gli zingari; il razzismo contro gli italiani.
Teorie e simboli, «sentimenti osceni», che credevamo sepolti. Lerner cita Vorrei la pelle nera (successo del 1967 di Nino Ferrer) e Zingara (Iva Zanicchi e Bobby Solo vinsero il Sanremo 1969): «Chi avrebbe oggi il coraggio di cantare dei testi così? Ormai ci stiamo abituando a qualcosa a cui non dovremmo abituarci: la violenza, il pregiudizio, l’indifferenza. Questi 6 reportage nascono dall’idea di capire come è avvenuto che dall’odio razziale si arrivasse allo sterminio, come la propaganda sia stata imposta, con quale lessico e quali argomenti. Il tutto per filtrare quello che viviamo noi, tra i disagi sociali e le convivenze difficili. E chiedersi: come vengono promosse oggi quelle fobie?». Un racconto del presente con la lezione (mai imparata) del passato: «Penso che questo programma sia un atto necessario in tempi scellerati», aggiunge il direttore di Rai3 Stefano Coletta.
L’ultimo pensiero di Liliana Segre è un pugno per le nostre coscienze distratte dal futile: «Mi fa impressione quando sento di barconi affondati nel Mediterraneo, magari 200 profughi di cui nessuno chiede nulla. Persone che diventano numeri anziché nomi. Come facevano i nazisti. Anche per questo non ho mai voluto cancellare il tatuaggio con cui mi hanno fatto entrare ad Auschwitz». Matricola 75190.
Repubblica 21.4.18
La follia lungo il confine di Gaza
di Roger Cohen
Quando i cecchini sparano per uccidere i civili che si avvicinano a un muro, nella mente di chiunque abbia vissuto a Berlino suona un campanello d’allarme. E io ho vissuto a Berlino. Ho attraversato tante volte la barriera che separa il primo mondo di Israele dalla prigione a cielo aperto di Gaza, disseminata di macerie. È un passaggio violento a un luogo di irrazionalità. Come sempre Israele esagera: « occhio per ciglio » , come dice Avi Shlaim, docente di Oxford nonché ex soldato delle forze armate israeliane.
Israele ha il diritto di difendere i propri confini, ma non di usare mezzi letali contro dimostranti per lo più disarmati, come ha già fatto causando la morte di 35 palestinesi e il ferimento di quasi mille. La reazione spropositata deriva dal fatto che Israele considera minacciata la propria esistenza, ma è una tesi che convince sempre meno. Il predominio militare israeliano sui palestinesi è schiacciante e gli Stati arabi hanno perso interesse per la causa palestinese. A detta di Israele, Hamas usa donne e bambini come scudi umani per i dimostranti violenti intenzionati a penetrare la barriera e a uccidere gli israeliani. Secondo un copione ben noto, seguiranno indagini internazionali dall’esito inconcludente e l’odio raddoppierà. Israele vince ma perde. Chi odia Israele e gli ebrei va a nozze. La pornografia la riconosci subito e lo stesso vale per una reazione militare sproporzionata. Ti si rivolta lo stomaco. Gaza Redux: la violenza è inevitabile. Il cosiddetto status quo israelo-palestinese è un’incubatrice di massacri. È importante guardare al di là della barriera di Gaza, simbolo di fallimento come tutte le barriere. È il risultato della morte della diplomazia, dei compromessi svaniti e del trionfo del cinismo. Persino il presidente Trump ha perso interesse per « l’accordo definitivo » e vede luccicare la Corea del Nord.
Qualche settimana fa sei ex direttori del Mossad, il servizio di intelligence israeliano, hanno lanciato l’allarme. Se i massimi responsabili della sicurezza di Israele definiscono autolesionista l’attuale condotta del Paese, vale la pena di ascoltarli. Così si è espresso Tamir Pardo, capo del Mossad dal 2011 al 2015, intervistato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth: « Se lo Stato di Israele non decide cosa vuole, finirà per esserci un solo Stato tra il mare e il Giordano. È la fine della visione sionista». Al che Danny Yatom, direttore dal 1996 al ’ 98, replica: “ È un Paese che degenererà o in uno Stato di apartheid o in uno Stato non ebraico. Giudico pericoloso per la nostra esistenza continuare a governare i territori. Non è il genere di Stato per cui ho combattuto. C’è chi dirà che abbiamo fatto tutto noi e che manca una controparte, ma non è vero. La controparte esiste. I palestinesi e chi li rappresenta sono i partner con cui dobbiamo confrontarci » . È per questo convincimento che il primo ministro Yitzhak Rabin è morto assassinato da un esponente israeliano del fanatismo messianico, contrario a qualsiasi compromesso territoriale, che a partire dal 1967 ha conquistato influenza. Non c’è controparte se hai scelto dio al posto di svariati milioni di persone che preferisci non vedere. Ma se guardi, i partner ci sono.
Anche da parte palestinese la fede nella soluzione dei due Stati è diminuita negli ultimi vent’anni. È sempre più frequente l’uso del termine “occupazione” per definire l’esistenza stessa di Israele, invece che la Cisgiordania e Gaza, occupate nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni ( Israele si è ritirato da Gaza nel 2005 mantenendone però il controllo, tra l’altro, tramite blocchi aerei e marittimi).
Le marce del venerdì a Gaza sono manifestazioni di protesta contro il blocco imposto da 11 anni, ma puntano anche a riaccendere l’interesse internazionale per la causa dei palestinesi che rivendicano il diritto di tornare alle case da cui nel 1948 furono cacciati. Il diritto al ritorno è un eufemismo per indicare la distruzione di Israele come Stato ebraico. È coerente con l’uso assolutista del termine “occupazione” per definire Israele stesso. I palestinesi hanno perso le loro case dopo che gli eserciti arabi nel 1948 dichiararono guerra a Israele che aveva accettato la risoluzione Onu che sollecitava l’istituzione di due Stati di pari dimensioni circa, uno ebreo e uno arabo — nella Palestina sotto mandato britannico. La risoluzione era un compromesso nel quale credo ancora, non perché fosse una bella soluzione, ma perché era ed è tuttora migliore rispetto ad altre opzioni.
I palestinesi intransigenti amano definirsi lungimiranti. Bene, 70 anni non sono pochi e i palestinesi hanno sempre perso. La metà del territorio ormai è diventata un quarto in qualunque accordo si possa immaginare. Non vedo come questa tendenza si possa invertire in futuro in assenza di una leadership palestinese coesa e pragmatica, orientata a un futuro a due Stati: pc per i bambini invece dell’accesso a oliveti perduti.
I morti hanno dato la vita per niente. Israele, con le sue reazioni esagerate, si è messo il cappio al collo, ponendosi in una posizione moralmente indifendibile. I leader palestinesi hanno suffragato i versi di Yeats: “Abbiamo nutrito il cuore di fantasie, con quel cibo il cuore si è fatto brutale”. Shabtai Shavit, che è stato direttore del Mossad dal 1989 al ’ 96 ha dichiarato: « Per quale motivo viviamo qui? Perché i nostri figli continuino a combattere guerre? Che pazzia è questa per cui il territorio, il Paese, è più importante della vita umana?».
Repubblica 21.4.18
Antifascismo l’ultima battaglia sul 25 aprile
di Simonetta Fiori
Due schieramenti si fronteggiano per l’elezione del nuovo vertice degli istituti di storia della Resistenza. Dietro la contesa la diversa concezione di una tradizione culturale e politica messa in crisi anche dai risultati elettorali
Che succede nella rete dei sessantaquattro istituti di storia della Resistenza, una delle ultime agenzie culturali della sinistra sopravvissuta agli smottamenti di questi anni? Domanda pertinente in un paese che si appresta a celebrare un inedito 25 aprile, con una maggioranza di italiani che ha votato per un movimento dichiaratamente afascista (Cinque Stelle) o per una destra nazionalista fascioleghista (il partito di Salvini) o per una destra che dal fascismo orgogliosamente proviene (Fratelli d’Italia). Alla Casa della Memoria, il bell’edificio milanese all’ombra del Bosco Verticale che ospita l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri (a cui fa capo la rete degli istituti), è in scadenza la carica del presidente Valerio Onida, e sono cominciate le grandi manovre per la successione. Con due principali candidature, ed è già questa una novità nella settantennale storia dell’istituto che non ha mai assistito a duelli per il vertice: Alberto De Bernardi, attuale vicepresidente, e Paolo Pezzino, membro del comitato scientifico.
Dalla futura presidenza dipende anche la conferma dell’attuale direttore Marcello Flores, che s’è mosso in sintonia con De Bernardi. Perché l’interesse intorno a questa competizione? Perché in gioco sono visioni storico-politiche diverse, che le opposte fazioni tendono a caricaturizzare: da una parte il fronte “revisionista”, incline a strizzare l’occhio all’opinione anti antifascista e responsabile del discusso museo del fascismo a Predappio (De Bernardi - Flores), dall’altra una sinistra ibernata, a cui imputare arroccamento identitario e un uso di categorie antiquate. Fin qui la contrapposizione macchiettistica, che a dire il vero confligge con il profilo di studiosi apprezzati: Flores per i suoi studi sul totalitarismo comunista, Pezzino per una storiografia innovativa e niente affatto ortodossa sulle stragi nazifasciste e De Bernardi per un manuale tra i più adottati nelle scuole superiori. Per uscire fuori da un teatrino molto nervoso, potrebbe essere interessante domandare ai protagonisti cosa pensino dell’antifascismo: è ancora una categoria valoriale, una bussola culturale a cui ricorrere in un’Italia attraversata da pulsioni e istinti riconducibili al fascismo? O è una cara memoria da riporre serenamente in soffitta insieme a tanta attrezzatura del Novecento? Lo chiediamo a Flores, divenuto in rete bersaglio dei Wu Ming per una affermazione comparsa su Città Futura: «Antifascismo? A me ormai il termine antifascista, considerando anche chi lo usa con più forza e frequenza, fa venire in mente la Ddr». Professor Flores, che voleva dire? «Non si può usare fuori contesto una frase che riguardava l’antifascismo militante antidemocratico.
L’antifascismo oggi ha un valore politico, certo, ma solo se siamo capaci di storicizzarlo e di porci la questione della democrazia.
Antifascismo non può essere fare picchetti contro Casa Pound. A Forlì è finita con una scazzottata: una logica che non ci appartiene.
La vera emergenza oggi non è il ritorno del fascismo ma gli studenti che minacciano i professori. Problemi che la vigilanza antifascista non è capace di sciogliere». Ma al di là dell’uso retorico esercitato dalla sinistra antagonista dei centri sociali, non pensa che oggi il pericolo sia rappresentato non dal ritorno del fascismo organizzato ma dalla penetrazione nel tessuto sociale di abitudini culturali riconducibili a quella tradizione (vedi la destra nazionalista e xenofoba della Lega)? «Certo che è un problema.
Ma dobbiamo porci la domanda: come è stata possibile questa penetrazione? Perché La Lega dopo gli accadimenti di Macerata ha aumentato i consensi?
Scendere in piazza non basta».
Un’opinione analoga viene espressa da Alberto De Bernardi, che in passato ha manifestato la sua contrarietà a «fascismi e fascisti di cartapesta inventati per tenere in vita il mito dell’antifascismo». E ora, in un paese che invoca la razza bianca e “l’Italia agli italiani”, corregge la sua opinione? «Forse eccedo in ottimismo, ma non vedo all’orizzonte una minaccia autoritaria», dice lo studioso. «C’è il problema d’una destra xenofoba, questo sì, ma non penso che la democrazia sia a rischio. Da qui forse dipende anche una diversa concezione dell’Istituto che mi divide da Pezzino: io penso a una realtà più aperta, che collabori con altre forze culturali, invece di chiuderci in un fortilizio a difesa di un’identità minacciata». L’antifascismo, aggiunge, «è un’importante cultura politica che serve a capire alcuni dei processi in atto, ma non può essere usato come categoria onnicomprensiva che mette insieme No Tav e simpatizzanti di Assad. E la battaglia deve mantenersi su un piano culturale e pedagogico, non immediatamente politico».
«Ma chi dice che l’antifascismo oggi sia riducibile al picchetto contro Casa Pound? O alle bandierine ideologiche sventolate a sproposito?». Dalla sua casa di Pisa, Pezzino si mostra sorpreso.
«Questa è una fotografia caricaturale dell’antifascismo.
Come mi appare ridicola l’accusa secondo la quale vorrei chiudermi in una fortezza identitaria: non è certo questo il mio proposito, che ambisce al collegamento con istituti di ricerca europei. Mi piacerebbe invece capire quali siano le realtà a cui De Bernardi sta pensando: forse zone d’opinione che negli anni passati hanno contribuito alla banalizzazione del fascismo?». Le missioni principali dell’Istituto Parri, continua Pezzino, devono rimanere l’analisi dell’evo contemporaneo e la formazione degli insegnanti. «Ma questo non significa rinunciare ad avere un ruolo politico-culturale in un paese in cui la sinistra tende a essere afasica». L’antifascismo in questo modo «non è certo la difesa del deserto dei tartari, ma elemento vitale della battaglia politica attuale. All’indomani della caccia all’uomo nero a Macerata, mi sarebbe piaciuto che l’Istituto Parri contribuisse all’analisi dei simboli esibiti da Traini: la militanza nella Lega, il razzismo armato, il saluto romano, la bandiera italiana. E invece c’è stato un assordante silenzio». Come è mancata negli ultimi anni, aggiunge Pezzino, una riflessione sui rigurgiti neofascisti. Fare oggi della pedagogia antifascista «significa non urlare al ritorno del regime ma avere la consapevolezza che forze politiche che non si richiamano a quell’esperienza veicolano elementi come il nazionalismo e il razzismo». Sullo sfondo della battaglia tra i due candidati rimangono questioni per niente marginali: il rapporto con l’Anpi e il museo di Predappio. Se l’asse Flores-De Bernardi non è stata avara di critiche molto dure all’associazione dei partigiani, specie sotto la direzione di Smuraglia, la fazione pro Pezzino vorrebbe stabilire un confronto.
Quanto al museo sul fascismo, Flores e De Bernardi ne sono stati i principali sostenitori, mentre Pezzino interpreta il malumore di chi contesta la scelta della città natale di Mussolini come sede. A fine anno alla Casa del Fascio cominceranno i lavori. E intanto al vertice dell’Istituto Parri il 9 giugno ci sarà il nuovo presidente: a sceglierlo sarà il comitato che raccoglie i presidenti dei sessantaquattro istituti.
Repubblica 21.4.18
Desideri o diritti? Quel dubbio oscuro delle nostre società
di Giulio Azzolini
Il saggio del direttore del “Mattino” Alessandro Barbano
È un’analisi dolente del declino italiano Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà
(Mondadori). Venti capitoli in cui il direttore del Mattino Alessandro Barbano richiama “crisi” di vario livello. Crisi globali: del discorso pubblico nell’epoca di Internet; dello stato sociale a fronte delle metamorfosi del lavoro; della sovranità politica in un mondo interdipendente. Ma soprattutto crisi italiane: dei soggetti collettivi (i ceti medi, i partiti, le associazioni sindacali e padronali) e dei valori tradizionali (la delega politica, il sapere, persino la verità).
Barbano ritiene che questi fenomeni – le cui vittime principali sono i giovani, le donne, i meridionali, gli immigrati – abbiano una matrice comune.
Ciascun problema viene infatti ricondotto al “dirittismo”, a un’«ipertrofia maligna dei diritti» che in Italia avrebbe contagiato tutte le forze politiche, specie le più radicali. Oggi i diritti non sarebbero più il «carburante della democrazia», ma i «fucili puntati contro di essa». La «malattia dei diritti», quindi, come chiave di lettura della nostra decadenza. La tesi è controcorrente, non inedita, e merita di essere discussa seriamente.
La posizione di Barbano è paradossale poiché il senso comune porta a credere l’opposto. Ogni giorno deboli e meno deboli lamentano la carenza di diritti adeguati. Perfino i diritti ritenuti acquisiti, come ad esempio i diritti politici, vengono percepiti, per dirla con Norberto Bobbio, come «promesse non mantenute».
Come mai, allora, «troppi diritti»?
Nei suoi tratti essenziali, l’argomento fu delineato nel Rapporto sulla Crisi della democrazia, redatto nel 1975 per conto della Trilaterale, e da allora è stato riproposto in svariati modi – di recente, con acume, da Dominique Schnapper ne L’esprit démocratique des lois (Gallimard, 2014) e da Jason Brennan in Contro la democrazia (2016, ora tradotto da Luiss University Press).
Barbano ha il merito di mettere a fuoco il nesso tra espansione dei diritti e progresso tecnico. In breve, la prima non avrebbe indebolito a tal punto il tessuto civile del nostro paese (e non solo), se non fosse stata accompagnata dal secondo. «Poiché la tecnica apriva, grazie ai suoi potenti mezzi, nuove possibilità, ciò che diveniva possibile era per ciò stesso anche giusto. Così le possibilità sono diventate desideri e i desideri diritti».
Ma la posizione di Barbano si caratterizza anche per la prospettiva che suggerisce. Dopo il fallimento del referendum costituzionale del 2016, non invoca riforme che accentrino e accelerino il processo decisionale, ma scommette piuttosto su un fattore politico-culturale, che gravita intorno all’idea di «moderazione integrale». Barbano auspica una cultura politica moderata, che proponga apertamente di rilanciare la democrazia rappresentativa e rinnovare quelle mediazioni politiche, sociali e culturali che, a suo giudizio, sono l’architrave di ogni società bene ordinata.