martedì 17 aprile 2018

Repubblica 17.4.18
Il caso Proactiva Open Arms
Migranti, vince la nave della vita
di Roberto Saviano


Dal 5 marzo 2018 — e a dire il vero anche da prima — molti si chiedono perché la “sinistra” sia morta e perché nessuno abbia il coraggio dell’autocritica sugli esiti del voto: ma cosa c’è da spiegare, quando per tornaconto elettorale non si è esitato a stringere accordi con i trafficanti.
Altro che autocritica, qui siamo nel campo della damnatio memoriae. La storia che vi racconto ha a che fare con quella che è stata fino ad oggi la politica sull’immigrazione della sinistra, il cui testimone rischia di essere raccolto dalla destra xenofoba, che ha dinanzi a sé il terreno spianato da una costante violazione dei diritti umani.
La notizia è questa: l’imbarcazione della Ong Proactiva Open Arms, sequestrata e in stato di fermo da quasi un mese, è finalmente stata dissequestrata.
Il 17 marzo scorso, l’Open Arms salva dal mare (e soprattutto dai lager libici) 218 migranti, nonostante la guardia costiera libica, pur trovandosi in acque internazionali e compiendo di fatto un atto di pirateria, minacciasse di aprire il fuoco se non le fossero stati consegnati i migranti. L’imbarcazione della Ong aveva a bordo bambini che necessitavano di cure immediate e, nonostante questa urgenza, per 48 ore è stata costretta a vagare in attesa di un porto che la accogliesse. Alla fine è Pozzallo, in Sicilia, a dare luce verde: un gesto di onore e dignità del nostro Paese, un gesto di cui essere orgogliosi. Ma la nave viene posta sotto sequestro dalla Procura di Catania con l’ipotesi di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Cosa avrebbero dovuto fare quindi dei migranti soccorsi in acque internazionali? Farli affogare? Darli alla Guardia costiera libica perché finissero nei centri di detenzione libici, accusati dall’Onu di essere luoghi di tortura, stupro, violenza, vessazione e abbandono? Nonostante in campagna elettorale sia risultato vincente attaccare i migranti, sono sicuro che siamo in molti a non avere intenzione di assecondare le bugie sistematiche sull’immigrazione: non possiamo permettere che la solidarietà diventi un reato.
Accade quindi che il Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, noto alle cronache per i suoi «meri sospetti» sulle Ong, esternati ormai un anno fa e non corroborati da prova alcuna, accusi di associazione per delinquere il comandante della Open Arms Marc Reig Creus, la responsabile della missione Ana Isabel Montes Mier e il coordinatore dell’organizzazione Gerard Canals. Che siano in tre non è casuale: è il numero minimo per poter ipotizzare il reato di associazione a delinquere e per poter quindi spostare la competenza del processo da Ragusa a Catania.
La Procura di Catania sequestra la nave, impedendole di fare manutenzione e di effettuare altri salvataggi in mare. Questo può significare la condanna a morte in mare o alle torture nei lager libici di un numero non quantificabile di persone. Quasi subito, il 27 marzo, dopo nove giorni dall’arrivo della Open Arms a Pozzallo e dal suo sequestro, il reato di associazione per delinquere cade, la Procura di Catania e Zuccaro perdono la competenza territoriale che torna a Ragusa. Vengono annullati anche gli interrogatori dei membri della nave svoltisi a Pozzallo dopo l’arrivo. Vengono annullati perché i tre sotto accusa erano già indagati e quindi non potevano essere interrogati se non alla presenza dei loro difensori. Resta in piedi il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma forse vale la pena ricordare che, nel nostro Paese, la legge che regolamenta l’immigrazione, legge 189 del 30 luglio 2002, porta il nome di Umberto Bossi e Gianfranco Fini, che sono stati esponenti di spicco di partiti di destra quando non palesemente xenofobi, quindi non è difficile, salvando vite in Italia, incorrere in questo reato.
E così arriviamo al dissequestro della imbarcazione della Proactiva Open Arms che, dal 17 marzo a oggi, come denuncia Sergio Scandura di Radio Radicale, è «ormeggiata nella parte peggiore e più esposta del porto. Il sequestro sembra impedirne il cambio in un molo sottovento.
Pardon, qualcuno spera forse che vada a pezzi?». Forse sì, ma non lo sappiamo, è certo invece che il dissequestro dell’imbarcazione “salvavite” sancisce il fallimento della strategia di Zuccaro che, dal primo immotivato attacco alle Ong, è stata quella di criminalizzare la solidarietà per renderla reato paventando un anno fa a Matrix (cito testualmente): «un pericolo per la compattezza di uno Stato come l’Italia che non può sopportare in maniera incontrollata questi flussi». E sono queste valutazioni che competono alla magistratura?
Ora la decisione del Gip di Ragusa rimette le cose a posto sul piano del Diritto, prima ancora che del buon senso. Questo è il passaggio sulle motivazioni del dissequestro: «Non si ha prova che si sia pervenuti in Libia ad un assetto accettabile di protezione dei migranti soccorsi in mare. Manca la prova anche della sussistenza di porti sicuri in territorio libico in grado di accogliere i migranti soccorsi nelle acque Sar di competenza nel rispetto dei loro diritti fondamentali. In difetto di tale prova, la scriminante dello stato di necessità rimane in piedi». Queste righe costituiscono la parte del provvedimento focalizzata sul rispetto dei diritti umani fondamentali in Libia, talmente assente da determinare lo «stato di necessità» per i soccorsi in mare effettuati anche “contro” la Guardia Costiera libica. Tutto questo ha esiti devastanti per il governo italiano uscente e per il ministro degli Interni Marco Minniti, che hanno più volte difeso la scelta di favorire nei fatti la detenzione dei migranti nei campi di concentramento libici piuttosto che il loro salvataggio in mare da parte delle Ong.
Resta il dubbio atroce sulla condotta di una Procura che, per trattenere una competenza a indagare che non aveva, ha ipotizzato in maniera spericolata un reato inesistente, ha interrogato persone indagate senza l’assistenza di un difensore e che con il proprio agire ha coinvolto la credibilità dell’intera magistratura inquirente italiana in una débâcle morale (prima che sul piano del diritto), che forse è il caso che venga approfondita nelle sedi opportune. Altrimenti tutti, ma proprio tutti, dovranno sentirsi complici dell’accaduto.
«Finché tu soffri per te, per la tua fame, per la miseria tua, della tua donna e dei tuoi figli. Finché ti avvilisci e ti rassegni allora tutto va bene. Sei un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Ma appena tu soffri per la fame degli altri, per la miseria dei figli degli altri, per l’umiliazione degli altri uomini allora sei un uomo pericoloso, un nemico della società» questa frase, realistica e struggente, è di Curzio Malaparte. Vi esorto dunque a essere «uomini e donne pericolosi»: è l’unico modo, questo, perché le vite di ciascuno di noi abbiano davvero un senso.

La Stampa 17.4.18
“Giusto salvare migranti”
Il gip dissequestra la nave dell’Ong  “Open Arms”
Il giudice: la Libia non è sicura per i profughi
di Fabio Albanese


La Open Arms ha disobbedito alle sale operative di Roma e Madrid e alla Guardia costiera libica ma nel recuperare e portare in Italia i 216 migranti ha agito in stato di necessità. Sta tutto in questa considerazione il provvedimento del gip di Ragusa, Giovanni Giampiccolo, che ieri mattina ha dissequestrato la nave della Ong spagnola ProActiva Open Arms, ferma da un mese nel porto di Pozzallo su disposizione della magistratura di Catania. L’imbarcazione è stata riconsegnata alla Ong ma il comandante Marc Reig Creus, 42 anni, e la capo missione Ana Isabel Montes Mier, 31, restano indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A Catania resta aperta l’inchiesta iniziale, quella in cui si ipotizzava l’associazione per delinquere (ma il gip etneo respinse e inviò gli atti a Ragusa per competenza) e nella quale è indagata una terza persona, il coordinatore generale della Ong Gerard Canals.
Il gip Giampiccolo ricostruisce le drammatiche fasi dei tre episodi di salvataggio avvenuti al largo della Libia il 15 marzo scorso e cita i rapporti della Capitaneria di porto italiana e della nave Alpino impegnata nell’operazione «Mare sicuro». Alle 4,21 di quel giorno, la Marina italiana avvisa sia la sala operativa della nostra Guardia costiera sia nave Capri della nostra Marina (a Tripoli per l’operazione Nauras) che un velivolo dell’operazione Eunavformed ha avvistato un gommone con diversi migranti a bordo, 40 miglia a nord-est di Tripoli. La sala operativa di Roma avverte la Open Arms, che si trova in zona, e la Guardia costiera libica. È l’inizio della complessa vicenda che ha visto impegnate per 3 giorni Roma, Madrid, Malta, il personale della nostra Marina a Tripoli, i libici e, ovviamente, la Open Arms. Per questo e per altri due gommoni, la Guardia costiera libica assume il comando delle operazioni e chiede alla Open Arms e alle altre navi in zona «to stay out of sight of event», di non avvicinarsi, per consentire l’intervento. La nave della Ong recupera però i migranti di un gommone e si dirige verso un altro, già raggiunto da una motovedetta libica che aveva preso a bordo i migranti.
Dalle relazioni finite nell’ordinanza del gip si apprende che alla vista della Open Arms, i migranti che erano sulla motovedetta libica Ras Jaddar si gettano in mare per cercare di farsi recuperare dalla Ong. La tensione sale, i libici minacciano di sparare, la Open Arms resiste, recupera i migranti e chiede aiuto a Roma che, a sua volta, invita la Ong a contattare subito lo Stato di bandiera, cioè la Spagna, perché il soccorso non è più sotto il controllo dell’Italia. Alla fine, i libici abbandonano il campo e la Open Arms, con 218 migranti a bordo, si dirige a nord in attesa di ricevere il «place of safe» dove sbarcare i migranti. E questa è la seconda parte della vicenda. Perché l’indomani la nave umanitaria deve evacuare subito una donna con il suo bimbo neonato in gravi condizioni e questo viene fatto a Malta, visto che è a 5 miglia dalla Valletta. Per questo, ricostruisce il gip, sia Roma sia Madrid suggeriscono alla Ong di chiedere a Malta lo sbarco di tutti i migranti ma «il comandante della Ong rifiutava [...] immaginando un rifiuto». Per il gip, «entrambe le condotte contestate tenute sia in zona Sar libica sia in zona Sar Malta si risolvono in una disobbedienza alle direttive impartite [...] che però non vale a impedire […] la configurabilità della causa di giustificazione dello stato di necessità», dovuta al fatto che in Libia «non si sia pervenuti a un assetto accettabile di protezione dei migranti soccorsi in mare».
Esultano i responsabili della Ong e i loro difensori, che parlano comunque di «un primo passo», mentre si riaccende il dibattito politico, con la Lega che punta il dito («disco verde all’invasione») e i partiti di centrosinistra che plaudono al gip.

Repubblica 17.4.18
L’emergenza
“Pericoloso riportare i migranti in Libia” Open Arms, ora è scontro fra magistrati
di Alessandra Ziniti


Dissequestrata la nave della Ong spagnola Proactiva: il gip di Ragusa sconfessa il procuratore di Catania
Di che cosa stiamo parlando
Il 15 marzo scorso la nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms, su indicazione della Guardia costiera italiana, soccorre un gommone con alcuni migranti. Quando da Roma arriva l’ordine di lasciare il soccorso ai libici, gli spagnoli si rifiutano di consegnare a una motovedetta di Tripoli, che li minaccia con le armi, le donne e i bambini già presi a bordo. Inizia poi un lungo braccio di ferro per l’assegnazione del porto di sbarco. La Open Arms ignora Malta e si dirige verso Pozzallo dove, al suo arrivo, viene sequestrata dai pm di Catania con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Tutt’al più hanno “disobbedito”, alle indicazioni della Guardia costiera italiana e libica e al codice di autoregolamentazione delle Ong del Viminale. Ma lo hanno fatto non certo perché sono un’associazione per delinquere con l’obiettivo di favorire l’immigrazione clandestina in Italia ma per “ stato di necessità”. Perché oggi « in Libia non si è ancora pervenuti ad un assetto accettabile di protezione dei migranti soccorsi in mare nel rispetto dei loro diritti fondamentali».
C’è un giudice a Ragusa che ritiene che rimandare in Libia i migranti intercettati in mare sia un atto inumano in contrasto con le convenzioni internazionali. Per questo, sconfessando del tutto la linea del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, il gip Giovanni Giampiccolo ha ordinato il dissequestro della “ Open Arms”, la nave della Ong spagnola Proactiva, fermata dai pm catanesi il 18 marzo al suo arrivo a Pozzallo dove aveva sbarcato 200 migranti che l’equipaggio si era rifiutato di consegnare ai libici durante un soccorso conteso sotto la minaccia delle armi. Una condotta che — secondo la linea Zuccaro — prefigurava il reato di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché gli spagnoli, rifiutandosi prima di riconoscere il coordinamento della Guardia costiera libica e poi di chiedere l’approdo al porto più vicino di Malta, avrebbero di fatto voluto portare a tutti i costi i migranti in Italia.
Reati — dice ora il gip di Ragusa, a cui era passata la palla dopo che il collega di Catania si era spogliato della competenza ritenendo insussistente l’associazione per delinquere — di cui non esiste neanche il “fumus”. Perché — argomenta il gip Giampiccolo — « non ci si può fermare soltanto al problema del recupero dei migranti in mare ». Pur ammettendo l’esistenza di una zona Sar libica, il giudice (sposando la tesi dell’avvocato Alessandro Gamberini) giustifica l’operato della Open Arms con lo stato di necessità dettato dal “ pericolo” al quale sarebbero state esposte le persone riportate in Libia, « luogo in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani » . Quanto al rifiuto del comandante di chiedere a Malta il porto sicuro, il gip richiama l’assenza di « una effettiva disponibilità dell’isola ad accogliere i migranti».
Una vittoria per la Ong spagnola attorno alla quale ha fatto quadrato una grande campagna internazionale con lo slogan “ la solidarietà non è un reato”. La nave è stata riconsegnata ieri e attende l’arrivo dell’equipaggio per riprendere la sua missione. «È solo un primo passo e una buona notizia — dice Oscar Camps, fondatore di Proactiva — ma le indagini a Catania sul reato di associazione a delinquere e a Ragusa sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, continuano. Abbiamo ancora bisogno di tutto il vostro sostegno».
Ed è una piccola rivincita per tutte le Ong impegnate nel Mediterraneo a pochi giorni da un altro atteso verdetto, quello della Corte di Cassazione che dovrà esprimersi sul sequestro di un’altra nave umanitaria, la “Juventa” della tedesca Jugend Rettet, bloccata dalla Procura di Trapani per accuse analoghe da quasi nove mesi. « Siamo felici per voi — esultano i tedeschi — possono prendere le nostre navi ma non il diritto di salvare». Da bordo della Aquarius i volontari di Sos Mediterranee si dicono felici: «Il ritorno in mare di Proactiva sarà fondamentale per salvare vite » , mentre Msf sottolinea: « Il giudice riconosce che la Libia non è un posto sicuro. Quello che noi diciamo da sempre». I radicali, che con Emma Bonino e Riccardo Magi avevano presentato un’interpellanza parlamentare sul caso Open Arms, osservano: «Resta il dubbio che il nostro Paese possa essersi reso complice di respingimenti illegali, visto che nessun porto libico al momento può essere considerato un luogo sicuro ».

Il Fatto 17.4.18
Siria, la guerra che cambia il M5s
di Tomaso Montanari


Caro direttore, continuo a pensare che un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd (un governo il cui presidente, la cui composizione e il cui programma dovrebbero essere l’oggetto di un confronto libero da qualsiasi pregiudiziale) sarebbe il modo migliore di uscire da questa situazione: che è del tutto fisiologica, in un sistema parlamentare, e che solo l’inadeguatezza del nostro ceto politico trasforma in uno ‘stallo’.
Lo penso perché guardo all’aspetto più clamoroso del voto del 4 marzo: quello sociale. In quel voto è tornata la lotta di classe. Senza programmarlo, senza tematizzarlo, senza nemmeno dirlo. Anche se non lo sanno, o non sono interessati a vedersi così, i 5 Stelle e la Lega sono di fatto partiti delle classi subalterne. Votati in massa soprattutto (anche se non solo) dagli ultimi, dai sommersi, da coloro che sono sul filo del galleggiamento (iniziando dai giovani precari, i nuovi schiavi), in un Paese con 18 milioni di cittadini a rischio di povertà (al Sud quasi uno su due). Mentre il Pd (e anche Liberi e Uguali) e Forza Italia sono stati votati dai salvati, dai relativamente sicuri, dai benestanti. Dunque, la faglia sistema-antisistema è sociale, prima ancora che di opinione, ed è una faglia che spacca in due il centrodestra. E quando il Pd spinge i 5 Stelle tra le braccia della Lega non obbedisce solo al puerile, irresponsabile ricatto renziano o al retaggio dell’inciucio del Nazareno, ma risponde a una logica più profonda, quella del blocco sociale che condivide con Forza Italia.
Sperare che questa cristallizzazione si rompa, significa sperare che il Pd possa ritrovare la forza di rappresentare i ceti più deboli: non si tratta di de-renzizzarsi (è solo una misura di necessaria igiene), ma di invertire la rotta rispetto a un tradimento delle ragioni elementari della sinistra iniziato negli anni Novanta, con la genuflessione a Blair e allo stato delle cose che fu indifferentemente compiuta da un Veltroni e un D’Alema.
È l’ultima chiamata, e se il Pd avvertisse lo strappo dei milioni di suoi elettori che hanno scelto i 5 Stelle potrebbe avere la forza di cambiare. Non sarebbe facile, certo: ma l’alternativa è trasformarsi, culturalmente e numericamente, in una specie di Scelta Civica. Volendoci provare, il terreno del confronto possibile con i 5 Stelle è quello dell’attuazione della Costituzione, a partire dai principi fondamentali: il terreno in cui il Pd potrebbe tentare una palingenesi, e il Movimento rimanere fedele a se stesso.
Se queste sono le speranze, l’osservazione della realtà non spinge all’ottimismo. Perché l’ansia di Luigi Di Maio di andare al governo rischia di far saltare ai 5 Stelle il fosso verso il sistema: e a tempo di record. Prendiamo la vicenda della guerra: la più cruciale di tutte. Dopo qualche sbandamento, i 5 Stelle hanno usato le stesse parole scelte da Martina: “Siamo fedeli all’alleanza atlantica”. Che tradotto vuol dire: se Trump ci chiede le basi per una ulteriore azione di guerra, noi le daremo. Alla faccia della Costituzione (art. 11) che si dice di voler attuare.
Dopo mesi di grottesca campagna sulle fake news, culminata nell’idea di un fact checking di Stato affidato a Minniti (!), i 5 Stelle non sanno reagire esercitando e argomentando una critica sulle ‘prove’ esibite dal fronte atlantico e supinamente accettate come tali dalla stampa. I canali della Chiesa cattolica dalla Siria, per esempio, raccontano un’altra verità, riassunta in un tweet dell’ex priore di Bose, Enzo Bianchi: “Sono in contatto telefonico con monaci e vescovi ortodossi in Siria. L’attacco degli Usa e dei francesi e l’ipocrisia del governo italiano mi rattrista e mi indigna. Menzogne e menzogne per continuare una guerra che vuole umiliare il medio oriente arabo”. Non sarà così semplice, e certo la situazione è complessa: ma proprio per questo non è possibile acconsentire a una guerra a scatola chiusa.
Contemporaneamente, Matteo Salvini denuncia la follia delle armi. Collateralismo alla Russia di Putin? Può darsi: ma anche sintonia profonda con la metà del Paese che è convinta che questo sistema, il sistema globale, è insostenibile. Una metà del Paese in cui si trova anche chi ha firmato l’appello della Rete della Pace contro questa guerra: tutta la sinistra (quella sociale, visto il suicidio di quella politica), il mondo cattolico, i sindacati, l’Anpi, Libera, Libertà e Giustizia.
Naturalmente non voglio ‘riabilitare’ la Lega perché oggi è per la pace. Non dimentico la trasformazione della Lega in un partito lepenista, simboleggiata dalla foto in cui Salvini dava la mano al terrorista fascista di Macerata, già candidato con la stessa Lega.
Se il rapporto tra Cinque Stelle e Pd, invece di far cambiare il Pd, facesse cambiare i 5 Stelle, lasciando solo la Lega a rappresentare chi è contro questo orrendo sistema, allora sarebbe un disastro.

La Stampa 17.4.18
La rivolta dei braccianti sikh
I nuovi schiavi dell’Agro Pontino
La storia di Marco Omizzolo, il sociologo che guida la protesta dei lavoratori sfruttati
di Niccolò Zancan


Ripiegata in quattro dentro la sua carta d’identità, tiene una vecchia busta paga. È l’ultima busta paga di Zulfqar Ahmed, bracciante agricolo nato in Pakistan il 10 giugno 1961, codice fiscale HMDZFQ61... «Lavorava tutti i giorni della settimana, compresa la domenica mattina. Ma il padrone lo pagava solo 20 ore al mese. Totale: 164 euro. Zulqfar era disperato. Ma non si lamentava. Pensava che qui fosse la regola. Solo che non riusciva letteralmente a vivere. Un giorno, durante il passaggio da un campo di lavoro all’altro, si è staccato dal gruppo e si è impiccato alla trave di una serra».
Negli ultimi due anni nelle campagne dell’Agro Pontino, fra cocomeri, meloni, stelle di Natale e mozzarelle di bufala, si sono suicidati dieci braccianti. Ma nello stesso tempo, altri 150 lavoratori sono riusciti a denunciare le condizioni di sfruttamento nei campi e le violenze subite all’interno delle aziende agricole. Hanno chiesto aiuto. Firmato verbali. Trovato più di 450 testimoni. Se questo tentativo di alzare la testa è stato possibile, è grazie al lavoro di un sociologo italiano di 43 anni. Il suo nome è Marco Omizzolo, origine venete, casa a Sabaudia. È lui ad aver organizzato il primo sciopero della storia dei braccianti sikh. Quattro mila persone radunate in Piazza della Libertà, davanti alla prefettura di Latina. Era il 18 aprile 2016. Una giornata mai vista.
Da quel momento, le condizioni dei braccianti dell’Agro Pontino forse sono un po’ migliorate. La vita di Marco Omizzolo, in compenso, è peggiorata. E molto. Il 3 marzo 2018, per la quarta volta, ha ricevuto un avvertimento. La sua auto è stata presa a mazzate. «La cosa che mi ha inquietato di più, è che non avevo detto a nessuno del mio ritorno a casa», racconta adesso. «Ero stato a Venezia per una lezione all’Università, sono rientrato di sera. Ho cenato dai miei genitori. Quando sono uscito, ho trovato la macchina con le quattro ruote squarciate, la carrozzeria completamente rigata e il parabrezza in frantumi». C’erano già stati altri avvertimenti. Insulti per strada. Uno striscione allo stadio. Un volantino anonimo in cui lo accusavano di fare soldi sulla pelle degli indiani, perché violenza e delegittimazione colpiscono sempre insieme.
«Non posso dire che la situazione mi lasci indifferente», dice Omizzolo. «Vivo un’ansia continua. Non so da chi devo guardarmi le spalle. Ma non saprei fare altro che questo lavoro. E voglio continuare a farlo». A ben guardare, l’inizio di tutta questa storia era stata una semplice domanda. Cosa sta succedendo, qui, davanti a casa mia? «Fra Terracina, Sabaudia e Latina, vedevo questi ragazzi in bicicletta al mattino presto, ricomparivano a sera inoltrata. Erano tutti di religione sikh. Un comunità di cui non sapevamo nulla. Mi sono detto che l’unico modo per conoscerli era stare un po’ con loro, vivere la loro vita». Così il figlio di emigrati si cala nei panni dei migranti indiani. Si fa assumere da un caporale, inforca la bici. E quello che trova nei campi, non è soltanto sfruttamento. Tutti devono chiamare il datore di lavoro «padrone». Stanno in ginocchio nella terra anche per quattordici ore al giorno. Chi protesta, viene preso a bastonate e scaricato davanti al pronto soccorso con l’avvertimento di stare zitto. Il ricatto è sempre perdere il lavoro. Ci sono referti. Ossa spezzate. Silenzi.
La paga oscilla da un massimo 4,50 euro l’ora a un minimo di 50 centesimi. Per sostenersi, soprattutto i braccianti più vecchi, fanno uso di sostanze dopanti: metanfetamina, scarti dell’oppio, farmaci antispastici. E da poco, nei campi del Basso Lazio, è arrivata anche l’eroina. Omizzolo scopre un’organizzazione internazionale che parte dal Punjab e finisce a 70 chilometri da Roma: «I braccianti vengono fatti arrivare da un intermediario che si occupa di tutto. Devono pagare 8 mila euro prima del viaggio, altri 4 mila euro al caporale. Vengono arruolati sulla base di un racconto totalmente falsato della realtà. Pensano di venire a lavorare nel Paese del Bengodi. Il datore di lavoro li chiama attraverso il sistema delle quote, quindi hanno anche un permesso di soggiorno. Sono in regola, apparentemente. Ma appena atterrano, precipitano all’inferno».
Aver denunciato tutto questo non porta amici. «Restano in pochi», dice Omizzolo. Il Gruppo Abele di Don Ciotti si è schierato dalla sua parte. Come l’ex procuratore Giancarlo Caselli, che gli ha scritto una lettera in qualità di presidente dell’Osservatorio sulle agromafie: «Conosciamo molto bene, e da sempre apprezziamo, il coraggio e la serietà assoluta con cui Ella si dedica ad un problema rischioso, complesso e difficile come quello del caporalato. Ora, nel modo peggiore ma al tempo stesso perversamente significativo, ne abbiamo avuto conferma attraverso la prepotenza e protervia di chi vorrebbe continuare a vivere nell’illegalità sfruttando i più deboli».
Tremila braccianti abitano al «Residence Bella Farnia Mare». Costruito negli Anni Ottanta, doveva essere un gioiello turistico ma è fallito. Un posto letto costa 150 euro al mese. È una piccola città indiana nel Lazio. Sono loro che domani mattina andranno ancora ad inginocchiarsi nei campi. «Il problema è l’indifferenza delle istituzioni e della politica», dice Marco Omizzolo. «Su 21 comuni della zona, solo tre hanno preso posizione contro il caporalato. Il fatto è che qui lavorano 10 mila aziende. È un sistema che fa comodo a molti. Parliamo di guadagni enormi. Ecco perché tengo nel portafoglio l’ultima busta paga di Zulfqar. Come poteva sopravvivere, lui, da solo, con 164 euro al mese?».

La Stampa 17.4.18
In un anno 3 mila medici aggrediti
Così cresce la violenza in corsia
Corsi di autodifesa e alpini per proteggere il personale. Le Asl: “Pene più severe”
di Paolo Russo


In ospedale o in ambulatorio come in trincea. Per i medici è stato un altro week end di paura. A Napoli una dottoressa del 118 è stata aggredita, insieme ad altri operatori e presa a schiaffi, pugni e sputi dai parenti e amici di una coppia caduta dal motorino, che stava soccorrendo; a Roma, all’ospedale Sant’Andrea, un uomo in preda all’ira, padre di un ricoverato, si è scagliato contro la dottoressa di turno minacciandola di morte e stringendole le mani al collo; a Palese, in provincia di Bari, un intero equipaggio del 118 è stato tenuto sotto scacco da un paziente armato di katana, riuscendo a sfuggire per miracolo alla sua furia. Da giorni il clima all’Ospedale Civico di Palermo è incandescente con aggressioni che si susseguono anche nell’arco di un’ora. Una scatenata persino da una guardia giurata che ha messo in fuga medici e infermieri colpevoli di non averlo fatto entrare nella stanza della figlia dove già c’era la madre. E che dire del migrante che la scorsa settimana ha creato il panico al Pellegrini di Napoli, ferendo cinque medici, di cui uno in modo grave.
Una scia di violenze che crescono a ritmo esponenziale. La Fiaso, la Federazione di Asl e ospedali, stima che siano oltre tremila i casi di aggressione l’anno, solo 1.200 denunciati all’Inail.
Quelle raccolte dal sindacato degli infermieri Nursing dicono che i più esposti al rischio sono gli addetti al pronto soccorso, con 456 casi l’ultimo anno, seguiti da medici e infermieri che lavorano in corsia (400), mentre le aggressioni negli ambulatori sarebbero state 320. In 16 casi su 100 è stato necessario ricorrere alle cure di qualche collega. Ma a dover indossare l’elmetto sono soprattutto i medici di continuità assistenziale, le guardie mediche insomma, che sostituiscono i medici di famiglia la notte e nei festivi. Qui non sono volate solo le sberle, ma in venti anni si sono dovuti contare 87 casi tra omicidi, violenze carnali e sequestri, che hanno riguardato in molti casi anche gli uomini. «In molte sedi mancano anche i più elementari sistemi di sicurezza» denuncia Tommasa Maio, che rappresenta la categoria nel sindacato Fimmg. «Ma nel rinnovo della nostra convenzione abbiamo raggiunto un accordo con la parte pubblica in base al quale nelle ore notturne i medici di guardia non riceveranno più pazienti, ma si limiteranno a dare consigli telefonici o a visitare a domicilio».
A scatenare l’ira dei malati e dei familiari al seguito sono a volte i disservizi, liste d’attesa in testa. Ma il presidente dell’Ordine dei medici, Filippo Anelli, ha un’altra lettura del fenomeno. «Vedo un parallelo tra quanto accade a noi e agli insegnanti. Queste violenze sono frutto di una cultura secondo la quale la sanità o la scuola sono alla stregua dei supermarket, dove prendo quello che mi piace e se non trovo cerco un capro espiatorio. Occorre rispetto, perché una società che aggredisce i medici aggredisce se stessa».
Se i camici bianchi puntano a un cambiamento culturale, a Pordenone ci penseranno gli alpini a proteggere i medici di guardia. Un accordo in questo senso è stato già siglato dal locale Ordine dei medici e dall’associazione dei soldati con la piuma, Ana. L’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, ha invece già messo a punto dei corsi di autodifesa, che rientreranno nella normale formazione professionale medica.
A chiedere «l’inasprimento delle pene per chi si scaglia contro gli operatori sanitari» è invece il presidente della Fiaso, Francesco Ripa di Meana, che annuncia per il primo maggio l’avvio della raccolta firme insieme a Ordini professionali e associazioni degli utenti per presentare una proposta di legge d’iniziativa popolare. «Inoltre come manager ci impegneremo a concordare con prefetture e questure procedure che garantiscano la tempestività dell’intervento delle forze dell’ordine». Sperando che non occorra chiamare l’esercito, come proposto dal Codacons.

Il Fatto 17.4.18
Alemanno arriva con gli ex Nar e divide i fratelli Mattei superstiti
di Vincenzo Bisbiglia


“Dopo anni di percorso oggi succede questo. Mi sento offeso”. Il quartiere tappezzato di croci celtiche, il codazzo di “alcuni politici”, il corteo partecipato da militanti neo-fascisti e ultras, un ex Nar e capo tifoso estremista ad assistere alla deposizione istituzionale delle corone. Giampaolo Mattei non la voleva così la commemorazione dei 45 anni della strage di Primavalle, nella quale il 16 aprile 1973 morirono i suoi due fratelli Virgilio e Stefano Mattei, rispettivamente di 22 e 8 anni, per mano di tre estremisti di sinistra di Potere Operaio, Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo. Soprattutto, dopo il tempo trascorso per la costruzione di una memoria condivisa di quegli anni – abbracciò Carla Zappelli, mamma di Valerio Verbano, ucciso dai fascisti il 22 febbraio 1980 – non avrebbe voluto la presenza di Luigi Ciavardini, condannato in via definitiva, fra gli esecutori della strage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, e Guido Zappavigna, già capo tifoso della Roma e vicino agli ambienti dell’estrema destra. Presenza per la quale ha accusato l’ex sindaco Gianni Alemanno. “È stata la cosa più vergognosa è più bassa che un essere umano potesse fare. Tradire la fiducia, far finta di non capire, buttare la palla dall’altra parte dicendomi di non fare polemica e non alzare i toni”. A invitarli, però, è stata Antonella Mattei – l’altra figlia dell’allora dirigente Msi, Mario – che conferma: “Guido è uno di famiglia, è stato con noi quando avevamo paura, ci accompagnava a trovare papà in ospedale, è stato vicino a nostra madre, è una persona che c’è sempre per me. E anche Luigi non ci ha mai lasciati soli. Mi ha fatto piacere la loro presenza e, poi, il corteo che ha visto tanti giovani, dopo 45 anni, ricordarsi della nostra famiglia”.

Repubblica 17.4.18
Polemica a Roma
L’ex Nar a Primavalle, ira di Mattei
Ciavardini con Alemanno alla cerimonia per i 45 anni del rogo. Il fratello delle vittime: “ Con quella gente nulla da spartire”
di Concetto Vecchio


Roma «Quando ho visto Gianni Alemanno accanto all’ex terrorista dei Nar Luigi Ciavardini ho chiesto ai ragazzi delle scuole di allontanarsi. Doveva essere chiaro che noi non avevamo nulla a che spartire con quella gente » . A sera Giampaolo Mattei è ancora scosso. Ieri ricorrevano 45 anni dal rogo di Primavalle, uno degli episodi più atroci degli anni di piombo: la morte dei fratelli Stefano, 22 anni, e Virgilio Mattei, 8 anni, uccisi nella loro casa alla periferia di Roma dall’incendio appiccato sul loro pianerottolo da alcuni esponenti di Potere operaio. Il loro papà, Mario, era il segretario della sezione locale del Msi. Il fratello, Giampaolo, a capo dell’associazione Fratelli Mattei, ha compiuto in questi anni un percorso all’insegna della memoria, dialogando con le istituzioni sia di centrosinistra ( Veltroni) che di centrodestra ( Alemanno). La presenza di Ciavardini, condannato per la strage di Bologna, è stata vista come una provocazione. « Ho detto ad Alemanno: non ho capito perché sei qui? Non mi ha risposto».
In via Bibbiena, teatro della strage, i rappresentanti del Comune di Roma ( il presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito) e della Regione Lazio (l’assessore Massimiliano Valeriani) stavano deponendo una corona, alla presenza dei famigliari Mattei e degli alunni della scuola Alberti e del liceo Vittoria Colonna. A quel punto, vedendo Alemanno con Ciavardini e l’ex capo ultrà della Roma, Guido Zappavigna, vicino all’estrema destra sin dagli anni Settanta, Mattei ha preferito dissociarsi, segnalando pubblicamente la sua contrarietà. « Ho provato un forte imbarazzo. Questa è una manifestazione che ricorda le vittime del terrorismo, non capisco il disegno di chi si è presentato qui con persone né invitate né gradite, che non saranno mai degli ex. Con Alemanno si era fatto un percorso in passato, stavolta ha tradito la mia fiducia » . Proprio in queste settimane è in corso a Bologna un nuovo processo sulla strage del 2 agosto, a carico di Gilberto Cavallini, un ex Nar ora in semilibertà, accusato di aver fornito supporto logistico a Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Ciavardini.
« Ma io mi sono presentato da solo, perché invitato dal cerimoniale in quanto ex sindaco » , è la tesi di Alemanno. « Ciavardini non l’ho portato io. Comunque Ciavardini ha tutto il diritto a partecipare a queste manifestazioni. Non glielo si può negare » . L’episodio ha suscitato numerose reazioni. Il deputato del Pd Walter Verini, ha espresso la sua vicinanza a Giampaolo Mattei. «Tutti ricordiamo davanti al sindaco Veltroni la commozione dell’abbraccio tra Giampaolo e Carla Zappelli, la mamma di Valerio Verbano», ucciso dai terroristi di destra nel 1980. « Peggio di una brutta caduta di stile » , ha commentato Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage di Bologna. « Complimenti a Giampaolo e Lucia Mattei per avere trasformato la tragedia di Primavalle, in un grande momento di condivisione».
A sera chiama il giornale, Antonella Mattei, la sorella di Giampaolo. « Li ho invitati io, sia Zappavigna, che fu sempre vicino alla nostra famiglia, sia Ciavardini con la moglie. Io e mio fratello non la pensiamo allo stesso modo, ognuno ha la sua associazione » . « Non parlo con lei da anni, crede ancora nella croce celtica », ha ribattuto Giampaolo.

La Stampa 17.4.18
Molestie a Hollywood
il Pulitzer premia le inchieste su Weinstein
Il New Yorker vince per l’intervista ad Asia Argento Riconoscimenti anche per gli scoop sul Russiagate
di Paolo Mastrolilli


Il giornalismo, di questi tempi, conta soprattutto per i segni che riesce a lasciare nella nostra società. L’epoca delle carinerie estetiche è finita, o comunque è sospesa, perché non si addice all’era complicata in cui viviamo. Oggi servono notizie vere, per contrastare gli effetti devastanti delle fake news, e soprattutto pesanti, per capire dove va il mondo e possibilmente correggere le traiettorie più sbagliate e pericolose. Si capisce dalle scelte che ha fatto la facoltà di Giornalismo della Columbia University, assegnando ieri i Premi Pulitzer più importanti ai colleghi che hanno rivelato gli scandali da cui è nato il movimento «Me Too»; quelli che hanno indagato sull’interferenza russa nelle presidenziali americane del 2016; quelli che hanno denunciato la misoginia e il razzismo del candidato senatoriale dell’Alabama Roy Moore; o quelli che hanno indagato i possibili effetti del muro che il presidente Trump vuole costruire lungo il confine col Messico, e delle nuove politiche sull’immigrazione.
Il primo premio annunciato è stato quello per il Public Service, cioè il servizio pubblico, che è andato al team guidato da Jodi Kantor e Megan Twohey al New York Times, e a Ronan Farrow del New Yorker. Motivazione: «Il giornalismo esplosivo e di impatto che ha denunciato predatori sessuali potenti e ricchi, incluse le accuse contro uno dei più influenti produttori di Hollywood». Il caso Weinstein, che ha avuto il merito di «promuovere un risveglio mondiale riguardo gli abusi sessuali contro le donne».
Per il National Reporting hanno vinto gli staff del New York Times e del Washington Post, per «la profonda copertura che, nell’interesse pubblico, ha approfondito la conoscenza dell’interferenza russa nelle presidenziali del 2016, e le sue connessioni con la campagna di Trump». Il riconoscimento per l’Investigative Reporting è andato al Washington Post, per gli articoli che «hanno cambiato l’andamento della corsa al seggio senatoriale dell’Alabama, rivelando le presunte molestie passate del candidato ai danni di ragazze adolescenti». E’ la storia di Roy Moore, che ha affondato il super conservatore che Steve Bannon, ex consigliere di Trump, voleva far eleggere per continuare a scardinare dall’interno l’establishment del Partito repubblicano. L’Explanatory Reporting invece lo hanno dominato l’Arizona Republic e Usa Tody, per come sono riusciti a spiegare «le difficoltà e le conseguenze non previste della realizzazione dell’impegno del presidente Trump a costruire un muro lungo il confine con il Messico». Per il giornalismo e la fotografia internazionale ha vinto la Reuters, con gli articoli «sui brutali omicidi dietro la campagna anti droga del presidente filippino Duterte», e le immagini delle persecuzioni dei Rohingya in Birmania.
Le scelte non sono sorprendenti, e forse alimenteranno le critiche di chi accusa i media tradizionali di promuovere l’agenda liberal e anti Trump. Le notizie che hanno fruttato i premi, però, si sono imposte da sole con il loro peso, dal movimento globale «Me Too» alle interferenze russe, che riportano in vita il clima della Guerra fredda. Viviamo tempi incerti, complicati dall’avvento delle fake news, che rendono ancora più difficile la loro comprensione. Mai come oggi, dunque, il giornalismo serio e di qualità ha avuto una missione da compiere, nell’interesse di tutti.

Corriere 17.4.18
Il futuro di Cuba
Sipario su Raúl ma il castrismo non è finito
di Sergio Romano


Confesso di avere creduto che la ripresa dei rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti e Cuba nel dicembre del 2015 avrebbe avuto abbastanza rapidamente conseguenze positive per la economia e la società dell’isola.
N on mi sembrava assurdo sperare che il Paese dei fratelli Castro avrebbe avuto una evoluzione non troppo diversa da quella di altri Paesi comunisti, come il Vietnam e la Cina, in cui il partito comunista ha conservato il potere, ma ha permesso e favorito la nascita di una spregiudicata economia mercantile.
Oggi, mentre Raúl Castro sta per uscire di scena, il quadro cubano mi sembra meno promettente. Vi sono stati alcuni cambiamenti. Esistono piccole aziende e l’industria del turismo ha registrato un’indiscutibile crescita. Ma il regime rimane sostanzialmente lo stesso.
Raúl ha mantenuto la promessa fatta ai suoi connazionali, sia pure con due mesi di ritardo (avrebbe dovuto andarsene in febbraio), e lascerà la presidenza delle due istituzioni da cui ha governato il Paese: Consiglio di Stato e Consiglio dei ministri. Ma conserva il comando delle forze armate e continuerà a gestire verosimilmente i servizi di sicurezza. Non potrà servirsene per fare la guerra agli Stati Uniti ma potrà garantire all’apparato poliziesco e militare del Paese l’occupazione e i privilegi di cui ha goduto sinora.
Ha un probabile erede, Miguel Díaz–Canel, che è stato per qualche tempo il suo vice-presidente e sembra appartenere alla corrente più rigida e conservatrice del partito. La Cuba di Castro ha perduto da qualche anno alcuni dei suoi padrini latino-americani ma la resistenza di Maduro in Venezuela potrebbe incoraggiare Raúl a tenere le redini sul colle del Paese. Questa non è la Cuba che due anni fa ci sembrava possibile. Cerchiamo almeno di comprenderne le ragioni.
La prima e più importante è quasi certamente la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali del novembre 2016. Se la gara fosse stata vinta da Hillary Clinton, la politica cubana degli Stati Uniti non sarebbe troppo diversa da quella di Barack Obama. Ma Trump si era ripromesso, sin dai suoi primi giorni alla Casa Bianca, di essere l’«anti-Obama».
Vi sono circostanze in cui niente sembra dargli tanto piacere quanto la sensazione di potersi presentare al suoi elettori come l’esatto opposto del predecessore. Ed è probabile in questa circostanza che la sua decisione piaccia a una larga fazione del partito repubblicano e persino a quei dissidenti cubani della Florida che non hanno approvato la politica di Obama.
Non è facile calcolare gli effetti che le sanzioni conservate da Trump avranno sull’economia cubana, ma è difficile sperare, in queste circostanze, che la crescita possa registrare un colpo di acceleratore.
Il Paese ha bisogno di grandi infrastrutture e quindi di grandi investimenti. Se gli Stati Uniti di Trump continueranno a trattare l’isola come un potenziale nemico, è difficile immaginare che aziende e capitali stranieri facciano costose scommesse sul futuro di Cuba.
Trump giustifica la sua posizione dichiarando di volere che il governo liberi i prigionieri politici e tratti democraticamente i propri dissidenti. Ma se l’esortazione viene da un uomo di Stato che si propone di cambiare il regime dell’isola, è difficile immaginare che Raúl e il suo successore collaborino alla propria estinzione.
Credo che esista un’altra ragione per cui il castrismo, nonostante gli sforzi di Obama, sembra continuare a godere in patria di un certo consenso. Non è necessario essere comunisti a Cuba per considerare con qualche sospetto il grande vicino settentrionale. Quando strapparono l’isola agli spagnoli, nel 1898, gli americani non le regalarono l’indipendenza. Le dettero una Costituzione che permetteva alle loro forze armate di intervenire militarmente ogni qualvolta Washington lo ritenesse necessario per la «stabilità» dell’isola. E quando rinunciarono a quel diritto conservarono a Cuba una base militare (Guantánamo) in cui possono fare legalmente ai loro nemici ciò che non potrebbero fare sul territorio americano.
Quando cacciò il «sergente Batista» dal palazzo presidenziale dell’Avana, Fidel Castro conquistò una città che era diventata capitale del lusso, dell’ozio, del gioco d’azzardo e di tutte le male piante che crescono in un tale ambiente. Non è sorprendente che sia parso al suo Paese un libertador e il che castrismo, con tutti i suoi difetti, sia considerato meglio del trumpismo.

Repubblica 17.4.18
L’intervento
Il dilemma della guerra giusta
Basta raid impulsivi e inutili L’unica strada è la diplomazia
Il leader laburista Corbyn: l’attacco militare di May, Macron e Trump è inconcepibile Per salvare la Siria e il mondo da un’altra Guerra fredda servono leader politici e morali
di Jeremy Corbyn


Sono momenti gravi. Dopo gli attacchi missilistici in Siria, è il momento di impegnarsi a fondo per la pace. La sconsideratezza con cui il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, domenica, ha detto che il conflitto adesso proseguirà il suo corso attuale e che i negoziati di pace sarebbero un «qualcosa in più» è un’inammissibile abdicazione di fronte alla responsabilità e alla moralità.
Questa guerra devastante è già costata più di 500mila vite umane e ha provocato 5 milioni di profughi e 6 milioni di sfollati.
Dobbiamo mettere al centro della scena un negoziato per una soluzione politica, non scivolare in un nuovo ciclo di reazioni e controreazioni militari.
Il prolungato intervento militare in Siria non è stato di alcun aiuto.
La Siria è diventata teatro di azioni militari di potenze regionali e internazionali come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Russia, la Francia, la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita, Israele, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti.
Il raid aereo di sabato contro siti ritenuti collegati alla produzione di armi chimiche da parte delle forze armate siriane è stato sbagliato e al tempo stesso mal congegnato. O è stata un’azione puramente simbolica o è stato un preannuncio di un’azione militare più ampia. Questo farebbe rischiare un’escalation sconsiderata della guerra e del numero di vittime, e il pericolo di uno scontro diretto fra Stati Uniti e Russia.
Chiudere gli occhi di fronte all’uso di armi chimiche è impensabile. Il loro impiego rappresenta un crimine, e i responsabili devono essere chiamati a renderne conto.
Il governo Assad, secondo l’accordo del 2013, sostenuto dalle Nazioni Unite, avrebbe dovuto sbarazzarsi di tutte le sue scorte di armi chimiche, e ne erano state distrutte centinaia di tonnellate sotto la supervisione dell’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, della Russia e degli Usa.
Contrariamente a quello che viene affermato, all’epoca, e di nuovo nel 2015 e nel 2016, era stato raggiunto un accordo, in seno al Consiglio di sicurezza, per un sistema di ispezioni indipendente, gestito dall’Onu, sulle armi chimiche. Quel sistema piò e deve essere ristabilito, come propongono entrambi gli schieramenti nel Consiglio di sicurezza.
Agli ispettori dev’essere data piena libertà d’accesso per raccogliere prove, e poteri aggiuntivi. La Russia deve rispettare gli impegni assunti nel 2013 e bisogna esercitare pressioni sul Governo Assad perché collabori alle indagini sullo scempio di Douma.
Lo stesso criterio dev’essere applicato ai gruppi armati dell’opposizione, alcuni sostenuti dall’Arabia Saudita o dall’Occidente, che sono stati coinvolti nell’uso di armi chimiche. La pressione sui soggetti riconosciuti responsabili dell’uso di tali armi può essere esercitata anche attraverso sanzioni, embarghi e, se necessario, attraverso il Tribunale penale internazionale.
Ci sono moltissime cose che si possono fare subito, senza gettare altra benzina sul fuoco dell’incendio siriano. Alcuni sono scettici riguardo all’efficacia della diplomazia multilaterale. Ma è essenziale insistere sulla legalità e l’approvazione dell’Onu per qualsiasi ulteriore azione militare. Non possiamo accettare l’inevitabilità di una «nuova guerra fredda», come ha ammonito il segretario generale dell’Onu António Guterres. Anche abbandonare la retorica di un confronto infinito con la Russia potrebbe contribuire a stemperare le tensioni.
L’azione militare intrapresa durante il weekend è molto contestabile sul piano giuridico.
La giustificazione fornita dal governo britannico, che poggia sulla dottrina fortemente contestata dell’intervento umanitario, non regge: senza l’autorità dell’Onu, siamo di nuovo di fronte ai governi di Stati Uniti e Gran Bretagna che si arrogano l’autorità di agire in modo unilaterale, un’autorità che non possiedono.
Il fatto che il primo ministro May abbia ordinato gli attacchi senza l’autorizzazione del Parlamento non fa che sottolineare la debolezza di un governo che in realtà stava soltanto aspettando l’autorizzazione di un presidente americano bellicoso e instabile.
Ulteriori azioni militari sarebbero un atto sconsiderato. Ancor più che nel caso dei disastrosi interventi in Iraq, Libia e Afghanistan, il protrarsi della guerra in Siria reca con sé il pericolo di un conflitto più ampio, che partirebbe dalla Russia e trascinerebbe dentro la Turchia, l’Iran, Israele e altri.
E non c’è nessun progetto politico pronto. La Libia è l’esempio più recente, e catastrofico, di un’operazione militare lanciata senza pensare minimamente alle conseguenze politiche. E nel frattempo, la campagna di bombardamenti saudita nello Yemen, sostenuta da Londra, è un disastro umanitario.
Una soluzione diplomatica che renda possibile la ricostruzione del Paese, il ritorno a casa dei profughi e la creazione di un contesto politico che permetta ai siriani di decidere del proprio futuro è più urgente che mai.
Tutto questo, e non una nuova campagna di bombardamenti, è quello che vuole il popolo britannico dal proprio governo.
C’è bisogno di leadership morale e politica, non di risposte militari impulsive.

La Stampa 17.4.18
La Madonna pellegrina contro l’Eroe dei Due Mondi
Comizi, processioni, feste danzanti, lotterie: in un clima di lotta di civiltà, una straordinaria mobilitazione collettiva
di Mirella Serri


È sera e il capitolino colle Oppio è come un faro illuminato dai fuochi d’artificio. Signore e fanciulle sciamano via mentre le ultime oratrici ricordano alle aderenti all’Udi (Unione donne italiane) dove apporre la croce elettorale: sul faccione di Giuseppe Garibaldi stampigliato sul simbolo del Fronte democratico popolare. La manifestazione festosa è organizzata dal partito di Palmiro Togliatti e da quello di Pietro Nenni, apparentati nel Fronte in vista del vicinissimo appuntamento: le elezioni del 18 aprile 1948. Un appuntamento destinato a rivelarsi una data fondamentale nella vita della giovane Repubblica italiana.
L’apertura dei seggi, quella domenica di cui ricorrono i 70 anni domani, siglò per il Paese il vero passaggio dal fascismo alla democrazia. E la sfida che oppose lo Scudo crociato di Alcide De Gasperi alle sinistre (gli altri raggruppamenti erano Unità socialista di Ivan Matteo Lombardo e la destra, divisa tra liberali, monarchici e i neonati missini) segnò una difficilissima transizione, ricca di colpi di scena e di sorprese: avvenne quando era appena iniziato lo scontro tra i due grandi blocchi Est e Ovest che inveleniva i toni e rendeva più temibile il confronto.
La campagna per la designazione dei partiti che dovevano reggere le sorti del Paese fu segnata da un’atmosfera da guerra di religione e di lotta a coltello. Ma fu contraddistinta anche da una straordinaria e gioiosa mobilitazione collettiva. Nelle settimane antecedenti lo storico evento si susseguirono in tutta la penisola lotterie, incontri danzanti e comizi volanti con oratori improvvisati che salivano su una sedia o su un palchetto e facevano propaganda. A sinistra andavano per la maggiore pure le canzoni, come «Il diciotto aprile / a votare noi andrem / per il Fronte uniti / tutti quanti voterem», o come «Le elezioni le preparò Scarpìa / per schiacciare il Fronte popolare / Viva il Ministro della polizia».
Quarantasette milioni di abitanti dello Stivale - erano 29,1 milioni i cittadini che si apprestavano ad andare alle urne -, nonostante il piano Marshall che aveva dotato di aiuti economici l’Europa, erano provati dall’esperienza del fascismo e della guerra. Il 23 per cento delle abitazioni non aveva l’acqua e il 73 per cento era privo di servizi igienici. Era dunque assai diffusa la speranza che la competizione avrebbe cambiato il tenore di vita. Per questo il 1948 che, come diceva Nenni, avrebbe dovuto essere «un 1848» fu il teatro di un evento inatteso: un’incredibile partecipazione popolare al voto.
La bestia nera più temuta da tutti i partiti era l’astensionismo. Le sinistre per combattere la zona grigia degli indifferenti avevano arruolato i più noti intellettuali, da Carlo Levi a Renato Guttuso, da Domenico Purificato a Giacomo Debenedetti. Irritato da queste qualificate presenze, padre Agostino Gemelli chiamò gli artisti e gli scrittori del Fronte «borghesi cattivelli». La Dc, con i Comitati civici di Luigi Gedda, per sconfiggere le resistenze degli «amorfi» e dei «senza patria» si dotò di un ufficio psicologico per la propaganda, di pellicole da proiettare nei luoghi di culto e di altoparlanti che sulle soglie delle chiese ammonivano: «Da buoni cristiani, se votate Garibaldi votate contro Dio e quindi sarete scomunicati».
Sempre i Comitati di Gedda s’impegnarono nell’organizzazione di lunghe processioni notturne molto spettacolari e scenografiche della «Madonna pellegrina». La statua di Maria accompagnata da veglie, preghiere e canti di Salve Regina approdava così non solo nelle comunità parrocchiali ma anche nelle fabbriche tra gli operai e nelle campagne tra i braccianti: «Oggi di fronte all’ora di Satana», spiegava il giornale cattolico La luce, «è iniziata l’ora di Maria. La Vergine sacra […] passa di trionfo in trionfo. [...] È questa l’ora dell’azione, perché è anche l’ora delle tenebre». Enormi cartelloni targati Dc predicavano: «Sei senza cervello? Vota falce e martello» ed esortavano «Salvate l’Italia dal bolscevismo».
Il Fronte controbatteva con il volto sorridente di Garibaldi: «Se voti per me voti per te». L’Eroe dei Due Mondi era poi esibito durante i tour di camion addobbati con il tricolore «per la raccolta di soldi, di polli e di uova per la mobilitazione delle masse». Tra i cartelloni più diffusi dalle sinistre c’era anche «Scudo crociato, scudo di morte» accompagnato da un gigantesco disegno dove un soldato americano aveva un randello in mano: «È cominciata la Santa Crociata per la salvezza della civiltà occidentale. Contro il fascismo vota Garibaldi!» era la scritta sottostante alla minacciosa immagine del milite statunitense.
I manifesti diffusi dai militanti democristiani furono 5 milioni e 400.000, a cui si aggiunsero 38 milioni di volantini e poi cartoline, immaginette, striscioni: il totale fu di 56 milioni di pezzi. Tutta questa immensa produzione cartacea servì ad alimentare un dibattito politico che, surriscaldato dalle divisioni della Cortina di ferro, non fu mai centrato sui programmi ma sulle scelte di campo. A incentivare, lo osservò il giovane Enrico Berlinguer, la passione politica e la presenza in massa alle urne, fu indubbiamente anche lo «spirito della Resistenza». Che si fece sentire pure successivamente, nei mesi più difficili del 1948, quando si sfiorò la guerra civile dopo l’attentato a Togliatti e dopo gli scontri sanguinosi a seguito della destituzione del prefetto Ettore Troilo.
Il Pci, però, contrariamente a tutte le previsioni, ai seggi non fu premiato e ottenne il 30,98 per cento dei voti, mentre la Democrazia cristiana conquistò il 48,51 per cento delle preferenze e, caso unico nella storia della Repubblica, si aggiudicò la maggioranza relativa dei voti e quella assoluta dei seggi, divenendo il principale partito italiano per quasi cinquant’anni, fino al suo scioglimento nel 1994. Aveva votato il 92 per cento degli elettori, un successo strepitoso. E l’Italia continuò a registrare in Europa il primato della partecipazione alle urne più alta fino agli anni Novanta, quando declinò l’affezione per i partiti. Nell’agone elettorale, però, gli avversari non smisero mai di sfidarsi con lo stesso piglio feroce e con l’accanimento degli anni della Guerra fredda. Il 18 aprile fu il primo spartiacque nella storia della nostra democrazia.

La Stampa 17.4.18
Ma quel giorno non fu un “giudizio di Dio”
di Giovanni De Luna


Per gli italiani di allora, la giornata del 18 aprile 1948 fu una sorta di «giudizio di Dio». Le elezioni politiche furono vissute come una ordalìa tra il bene e il male, tra due mondi contrapposti, divisi su tutto: agli inizi della Guerra fredda, Usa contro Urss voleva dire anche capitalismo contro comunismo, democrazia contro dittatura, cristianità contro ateismo. A destra e a sinistra, soprattutto nella Dc e nel Pci, c’era un’attesa quasi messianica, un’ansia di misurarsi, resa più vibrante dalla riscoperta di una contesa elettorale finalmente libera da parte di un’opinione pubblica impaziente di scrollarsi di dosso venti anni di conformismo, di partiti unici, di plebisciti, di totalitarismo fascista.
Non c’è dubbio che oggi, a 70 anni di distanza, molte di quelle sensazioni appaiono ampiamente giustificate. La possibilità di finire - attraverso il voto - in uno o nell’altro dei due blocchi in cui si divideva il mondo bipolare uscito dalla Seconda guerra mondiale era terribilmente concreta. Votare per la Dc o votare per il Fronte - in cui si erano uniti comunisti e socialisti - era una scelta di campo che non ammetteva mediazioni.
Pure, oggi, in chiave storiografica, la dimensione emotiva che emerge nelle testimonianze dei protagonisti tende a lasciare il posto a considerazioni che possono giovarsi del «senno di poi» tipico degli studi storici. In questo senso, l’Italia del 1948 suggerisce l’immagine di uno di quei grattacieli che vengono demoliti con la dinamite: un attimo prima svettano intatti, un attimo dopo crollano rovinosamente. Per intenderci, dieci anni dopo, nel 1958, dell’Italia del 1948 non era rimasto quasi più niente.
La grande trasformazione legata al boom economico e allo sviluppo industriale ridisegnò la struttura economica del Paese, riplasmandone mode, abitudini, comportamenti politici, scelte individuali. Dal declino della piccola proprietà contadina risultarono stravolti anche tutti quei riferimenti ideologici «precapitalistici» che ne avevano sostenuto, insieme a un senso di chiusura esclusivistica, un forte sentimento di compattezza e di identità collettiva; i rapporti interpersonali, l’organizzazione familiare, i ruoli sessuali si decomposero contemporaneamente all’inserimento di migliaia di individui in situazioni lavorative e esistenziali completamente diverse da quelle originarie. Il passaggio brusco e repentino da Paese contadino a potenza industriale (la quinta nel mondo!) svuotò dall’interno molti dei riferimenti politici, sociali, culturali dell’Italia del 1948. Consegnando agli storici un’altra riflessione che non coincide con la sensazione dei testimoni di allora.
Oggi è infatti sempre più chiaro come, riferito al confronto tra il Pci e la Dc, quanto allora appariva ferocemente contrapposto nel «cielo» della politica, presentasse ampie «zone grigie» su terreni più legati alla quotidianità dei comportamenti collettivi. A fronteggiarsi erano, cioè, essenzialmente due centrali di propaganda. Ma quanto ci si allontanava dalla politica e ci si avvicinava alle scelte più private, le tinte dello scontro ideologico tendevano a stemperarsi e a sbiadire. Sulla famiglia, sul ruolo della donna, si registravano convergenze che ritornavano puntualmente su altri valori «di base», dai comportamenti sessuali alla concezione del matrimonio, a tutti quelli che segnavano in particolare il rapporto individuo-società.
Identica era, inoltre, una concezione edificante del lavoro che accomunava l’operaio «di mestiere» che si riconosceva nel Pci e il coltivatore diretto che votava per la Dc. In questa ottica, oggi si sottolinea nella forte, comune connotazione ideologica dell’impianto dei due partiti una sorta di funzione pedagogica e protettiva. Almeno fino alla fine degli Anni 50, i partiti avrebbero aderito ai contenuti e ai valori più tipici di una società ancora essenzialmente contadina, rispettandone ruoli e gerarchie consolidate e proteggendoli da ogni brusco mutamento; poi, entrambi avrebbero dovuto cambiare pelle per adeguarsi a un’Italia che di colpo alla frugalità aveva sostituito il superfluo e che, alla contrapposizione tra comunismo e anticomunismo, preferiva ormai la possibilità di sentirsi tutti figli dello stesso benessere.

Corriere 17.4.18
Romanzo di Giuseppina Norcia
La verità, vi prego, su Achille
di Eva Cantarella

Era il migliore degli Achei: era Achille, il Pelide, l’eroe che incarnava i valori di un mondo nel quale un uomo, per essere un nobile ( agathos ) doveva possedere in guerra la forza fisica e il coraggio necessari per uccidere il nemico, e nella vita civica il potere della parola, grazie alla quale imponeva la sua volontà nelle assemblee. Achille li possedeva al massimo grado, questi valori, ai quali aggiungeva — non meno fondamentale — la capacità di vendicare senza pietà le offese che riteneva di aver subìto.
Ma questo Achille, «il migliore» di quel mondo, è solo uno dei tanti prospettati dalle rivisitazioni del mito, all’estremo opposto delle quali sta «Achille la bestia», come lo chiama Christa Wolf: un uomo senz’alcuna comprensione umana, che sgozza 12 giovani troiani sulla tomba di Patroclo e che, ritenendosi offeso da Agamennone si ritira dalla battaglia, incurante del fatto che, senza di lui, i Greci cadano a migliaia. Quello che conta, per questo Achille, è solo il suo smisurato solipsistico orgoglio. E tra queste due letture estreme se ne inseriscono tante altre, tra le quali, oggi, quella proposta da Giuseppina Norcia ne L’ultima notte di Achille (Castelvecchi, pagine 157, e 17,50), rivisitazione romanzata (ma fondata su una solida conoscenza del mito) affidata a una voce narrante, che racconta la vita dell’eroe sino appunto all’ultima notte: Thanatos , la Morte.
Anche se nato da madre immortale (la ninfa Teti), Achille era destinato a seguire la sorte mortale del padre Peleo: ai tentativi della madre di rendere il suo corpo invulnerabile era sfuggito il celebre tallone. Achille dunque sarebbe morto, al termine della breve vita che egli stesso aveva voluto quando gli era stato dato di scegliere tra una vita lunga ma anonima e una stroncata nel fiore degli anni da una morte gloriosa: in quell’occasione — coerentemente con il suo personaggio — aveva optato per la morte gloriosa e la fama eterna che gliene sarebbe derivata. Una scelta, questa, che pone uno dei tanti temi sui quali questo libro induce a riflettere: l’aveva veramente voluta lui, liberamente, quella morte? O stava scritta nel suo destino?
Ci sono momenti nei quali questo Achille sembra volersi ribellare alla costrizione di una volontà superiore alla sua: ad esempio quando incontra Clitennestra, alla quale il marito Agamennone aveva chiesto di raggiungerlo in Aulide con la figlia Ifigenia, che diceva di aver promesso in moglie ad Achille. In realtà, come ben noto, intendeva sacrificarla agli dei perché questi facessero spirare venti favorevoli alla navigazione verso Troia. La reazione di Achille, quando scopre questa trama, alla quale era assolutamente estraneo, è quella di un uomo molto più «umano» di quello tradizionale. Così come diverso da quello tradizionale è l’Achille che si innamora di Deidamia, figlia del re di Sciro, alla cui corte si era rifugiato, travestito da donna, per evitare la partenza per Troia (un altro dei tentativi di sua madre di salvargli la vita). Nel romanzo, questo rapporto, del quale le fonti nulla dicono, è un amore reso ambiguo dal fatto che Deidamia crede di essersi innamorata di una donna, e dal comportamento di Achille che, dopo averle rivelato il suo sesso, corrisponde questo amore in un modo che sembra anticipare la trasformazione della sua amicizia con Patroclo nel vero, grandissimo amore della sua vita. Un’altra occasione per interrogarsi su un aspetto importante della cultura dei Greci e sul ruolo dell’amore pederastico nella formazione civica dei giovani. Un romanzo, questa Ultima notte , che offre molti interessanti spunti di riflessione.

Repubblica 17.4.18
Le amministrative
La Toscana rossa si spacca Vacillano Siena, Pisa e Massa
Il centrosinistra litiga e si presenta diviso: il 10 giugno rischia un’altra pesante sconfitta
di Massimo Vanni


Firenze «Stiamo servendo Siena su un piatto d’argento», aveva suonato l’allarme un paio di settimane il segretario del Pd senese Simone Vigni. Ma è valso a poco. Il sindaco uscente Bruno Valentini, dipendente del Monte dei Paschi, è stato ricandidato, anche se il Pd avrebbe voluto mandarlo a casa. Dietro di lui, però, non c’è coalizione. Solo il Pd che ha pure subito una “mini scissione”.
A Pisa le cose vanno anche peggio: dopo mesi di litigi, il 29 si terranno le primarie del Pd. Le guerre intestine hanno finora impedito ogni alleanza con Leu che, qui, ha quasi il 9% e « che invece sarebbe l’unica possibilità di vittoria», secondo il segretario Massimiliano Sonetti. A Massa, almeno, una coalizione c’è: il Pd ha alla fine convinto il sindaco Alessandro Volpi a sottoporsi alle primarie di domenica. Ma il centrosinistra, da queste parti, non è arrivato al 25%.
« È finita, sta crollando tutto » , si dice nel quartier generale del Pd toscano. Guidato oggi da una reggenza a cinque, dopo le dimissioni del segretario regionale Dario Parrini. Una reggenza scossa dalla paura: « Ma vi rendete conto che significa se perdiamo Pisa e Siena? La prossima volta perdiamo anche la Regione».
La Toscana rossa è ormai un ricordo. Solo qualche anno fa, mentre l’Italia cambiava bandiera, la Toscana era sempre la stessa. Granito rosso. Oggi è irriconoscibile: la supremazia dem, dopo il voto del 4 marzo, si è ristretta al cerchio di Firenze, che ha eletto Matteo Renzi col 44%, più una “lingua” che arriva Siena.
Il Pd non governa più a Livorno e Carrara, conquistate dai 5 Stelle, mentre il centrodestra già regge Grosseto, Arezzo e perfino “ Pistoia la rossa”, guidata da un sindaco ex An. E le amministrative del 10 giugno rischiano di essere un tornante della storia: un’altra sconfitta e, dopo 70 anni, il centrosinistra non avrà più la maggioranza dei capoluoghi. Un centrosinistra che non riesce più a trovare una ragione per stare insieme.
Nella città del Palio la battaglia è andata avanti per mesi: «Se ricandidiamo Valentini la sconfitta è sicura » , è stata la musica suonata dal Pd. Solo che poi nessun altro ha avuto la forza di candidarsi. E il risultato è che gli ex Dc di Alberto Monaci, ex presidente del Consiglio regionale, hanno lanciato la candidatura di Alessandro Pinciani, ex vicepresidente della Provincia e figlio della moglie dello stesso Monaci. Il Pd annuncia adesso l’espulsione dei “ traditori”: « È obbligatorio farlo » , spiega il segretario Vigni. E Valentini reagisce come può: «Ce la farò», promette. Ma il Pd si sente sul Titanic: in corsa ci sono 10 candidati, compreso l’ex sindaco Ds Pierluigi Piccini. E pure i socialisti corrono in proprio. Non si è riusciti a costruire una coalizione. E solo una parte del Pd, fermo al 31,3%, sosterrà il sindaco Valentini.
A Pisa, ex roccaforte dalemiana, si corre verso le primarie. O meglio, si precipita. Per settimane i renziani hanno cercato l’accordo con Leu di Paolo Fontanelli. Le guerre interne l’hanno impedito e, dopo una drammatica assemblea dove il candidato concordato con Leu è stato bocciato per due voti, restano solo le primarie. Il bello è che l’unico in grado di vincerle è l’assessore Andrea Serfogli, su cui Leu ha posto il veto. Così, mentre un centrodestra compatto portava già in giro il suo candidato, i renziani hanno chiesto al Nazareno di intervenire e bloccare tutto. Ma quando si è capito che Serfogli avrebbe presentato una propria lista ci si è fermati di nuovo. Si accarezza ora l’idea di far correre alle primarie un candidato gradito a Leu contro Serfogli. Nel tentativo estremo di creare un centrosinistra. Che avrebbe comunque la strada in salita, visto che il 4 marzo si è fermato al 30%.
Massa è l’unico capoluogo al voto dove una coalizione, comprendente anche gli “Arancioni” dell’ex sindaco Pucci, esiste. Ma è anche quello dove il Pd ha raccolto il suo record negativo: il 20,3%. I riflettori sono ora sulle primarie di domenica: il sindaco Volpi dovrebbe imporsi su Simone Ortori, esponente di liste e movimenti civici. Vincere poi le elezioni, però, è un’altra storia.

Repubblica 17.4.18
Sperimentazione a Bologna
L’ora delle religioni in aula lezione di dialogo
di Ilaria Venturi


BOLOGNA Patrick prende coraggio, è il faraone: legge la sua parte al centro dell’aula, sguardo basso e copione in mano, viene applaudito dai compagni, proprio lui ragazzino rom che nemmeno voleva recitare. Mario, il protagonista, è gasatissimo.
Afef è la narratrice, introduce poi si ferma mangiucchiandosi le dita: «Ma come sono andata?».
«Brava, solo alza la voce». I professori incoraggiano. Bruno Nataloni, insegnante di religione, è anche attore. Paolo Bosco, docente di italiano che fa l’ora di alternativa, ha scritto il canovaccio con gli alunni della seconda B tenendo insieme il racconto biblico sul figlio di Giacobbe e Rachele, ripreso anche dal Corano e rivisitato da Thomas Mann in una sua opera.
Dentro c’è tutto: l’amore, i sogni, la cacciata dello straniero, il bivio nella scelta tra vendetta e perdono. Prove di teatro in classe che in realtà sono prove di integrazione. È l’ora del dialogo.
Tra mondi, culture, religioni.
Alle medie Saffi, scuola nel quartiere popolare e multietnico di Bologna, l’ora di religione cattolica si fa insieme all’attività alternativa. Almeno, lo si sperimenta. È un progetto annuale votato dal collegio dei docenti, condiviso coi genitori.
Invece di dividere gli studenti, i quattro insegnanti dell’istituto dove sei ragazzini su dieci hanno genitori stranieri (l’80 per cento in alcune classi), hanno deciso di unire le lezioni stando in aula in due. Un modello che ricorda la cattedra dei non credenti del cardinale Martini, in linea con la pastorale di Bergoglio e del vescovo Matteo Zuppi designato sotto le Torri, che sul progetto non si è ancora espresso. Una sfida in un istituto di frontiera dove cresce tra i banchi un mondo: dal Pakistan alla Romania, dall’India al Marocco.
La sperimentazione prova a tenere insieme ciò che fuori dalla scuola si divide. «Nel quartiere i nostri studenti vivono in mondi separati tra famiglie italiane e immigrate. Noi che facciamo intercultura in tutte le materie, anche quando insegniamo matematica, non potevamo continuare a dire in queste nostre ore di religione e alternativa: tu con me, tu fuori con gli altri. La società corre in fretta, da noi è già multietnica: ci devi fare i conti», racconta Paolo Bosco. Anche perché in alcune classi chi fa religione cattolica è davvero una minoranza, se non un solo alunno. «Così abbiamo deciso di prendere di petto la questione gettando ponti tra pensiero laico, ateo, di altre fedi e quello cattolico. Nell’insegnamento a scuola la religione è comunque un fatto culturale», spiega Bruno Nataloni.
Nella terza A fanno lezione Giampaolo Pierotti e Francesca Matrà. Tommaso mostra la mano che ha disegnato sul quaderno: ogni dito rimanda a valori come amicizia, fiducia, lealtà. «Il pollice è potere: cosa io posso essere».
Sull’idea di pace nelle religioni la classe ha musicato un rap.
Una strofa l’ha scritta Hamza: «Lo straniero non deve essere costretto a camminare con lo sguardo basso». Bibbia e Costituzione. Precetti religiosi e laici a confronto. L’insegnamento di Gesù, “amate gli altri come voi stessi”, viene visto anche nelle altre fedi e calato nella vita di dodicenni. E allora c’è chi si racconta: «Alle elementari quando mi chiamavano ficcanaso mi nascondevo sotto al banco».
Damiano si accoda: «Mi chiamavano Ciccio pasticcio. Mi infastidiva molto, non devi fare agli altri quello che ferisce te stesso». Alzano la mano. «Se tu aiuti un altro, magari poi quello si ricorderà e farà lo stesso con te», ragiona Sara. «Se mia madre non fosse nata io non ci sarei», suggerisce Nahim. Ale dice la sua: «Anche gli stranieri vanno accolti». Diritto di cittadinanza, osserva l’insegnante di alternativa, mentre il collega di religione mostra la foto di suo nonno emigrato in Colorado.
Ridono: «Non ti somiglia». Poi capita che si parla di Abramo e allora è Iman, musulmana, ad alzare la mano: «Prof, questa storia la so anch’io, posso raccontarla?».

Repubblica 17.4.18
Grandi maestri
Lévi-Strauss cent’anni vissuti sempre altrove
di Pietro Citati


Una famiglia ebrea di antica tradizione. L’amore per la musica e per i romanzi. Il viaggio in Brasile fra gli indigeni del Mato Grosso. New York e lo strutturalismo. Le donne. Il dietro le quinte di una esistenza lunga un secolo
Claude Lévi-Strauss nacque, a Bruxelles, il 28 novembre 1908. Era completamente ebreo.
Il trisnonno, Loeb Israel, nato a Strasburgo il 22 gennaio 1754, prese il nome di Strauss. La trisnonna, Judith Hirschman, era figlia di un famoso rabbino, Rabbi Rafael, celebre in tutta l’Alsazia del diciottesimo secolo. All’improvviso, lo strano e lo stravagante si diffusero nella sua razza: il bisnonno, Isaac, nato a Strasburgo nel 1801, diventò violinista nell’orchestra del Teatro italiano a Parigi, diretta da Gioacchino Rossini. Inventò (o quasi) il valzer, la mazurka, la polka, la quadriglia: compose moltissimi brani tra cui la quadriglia di Orphée aux Enfers di Offenbach. Sia lui che i figli erano integrati nella società del tempo.
Claude si sentiva esclusivamente francese; e non conobbe mai gli impulsi che spinsero Gershom Scholem a risalire fino all’ebraismo della Cabala e del Chassidismo. Non amava nemmeno la Bibbia o i testi di Qumran. Quando visitò Israele nel 1985, si sentì un estraneo.
La madre di Claude, Emma, bella, piccola, abilissima cuoca, cantava tutto il giorno, specialmente le arie di Orphée aux Enfers e di La belle Héléne. Il padre Raymond era un pittore modesto: per tutta la vita fece ritratti e piccole ceramiche in stile cinese. Il talento di bricoleur apparteneva a tutta la famiglia.
Claude fu un figlio unico, preciso, silenzioso, affettuoso, gentile, senza apparenti tratti di genialità.
Leggeva molti libri, in primo luogo il Don Chisciotte: scriveva racconti, tra cui Il carbone e i fiammiferi.
Amava moltissimo Le Nozze di Stravinsky e Pelléas et Mélisande di Debussy, che gli fecero sembrare antiquata la musica occidentale.
Disegnò scene per il Gabinetto del dottor Caligari di Wiene: scrisse un saggio su Marx e il materialismo storico; e al liceo scoprì alcuni testi di Freud, pochi anni dopo la pubblicazione. Era ateo. Amò il Voyage au bout de la nuit di Céline.
Una sensazione lo accompagnò per tutta la vita: «Si ha bisogno di poco per esistere»; «La vita è corta. Ci vuole solo un po’ di pazienza».
Nell’ottobre 1931, a quasi ventitré anni, cominciò il suo servizio militare a Strasburgo, da cui scriveva regolarmente ai genitori ( Lettere ai genitori 1931- 1942, a cura di Monique Lévi-Strauss, traduzione di Massimo Fumagalli, il Saggiatore, pagg. 422, euro 37).
Queste lettere non sono dissimili dalla prima parte del Diario di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda, iniziato qualche anno prima. Si sentiva solo, sebbene — come Dostoevskij — «mai abbastanza».
Nell’ottobre 1932, Lévi-Strauss venne nominato professore di filosofia al liceo di Mont-de-Marsan, vicino a Poitiers.
Mont-de-Marsan era come Yonville in Madame Bovary: con il grande mercato e i negozi e i commercianti e le fiere e la folla multicolore e pettegola. Nel settembre sposò Dina Dreyfus, anch’essa ebrea, una donna allegra e divertente. Si occupava di quattro cose: la moglie, il cibo, i romanzi polizieschi e il socialismo. Il cibo era, per lui, la cosa essenziale. Con quale estasi parlava di peperoncini e confit di maiale e zuppe di zucca e conigli al sugo e fegato d’oca all’agro e tartufi alla lorenese e calamari e tacchino farcito. Come per quasi tutti i francesi, il cibo era per lui, insieme una straordinaria ghiottoneria, un’attività sociale e una questione scientifica. Con passione sempre crescente leggeva romanzi polizieschi e poi pensò di essere lo “Sherlock Holmes dell’etnologia”. Al cinema amava Ejzenštejn e René Clair e sopratutto Buster Keaton e Chaplin. Nel 1928, a vent’anni, diventò segretario della sezione socialista: Léon Blum gli scriveva lettere affettuose; teneva conferenze di argomento politico e soltanto dopo molti anni abbandonò la sua passione socialista.
Il 4 febbraio 1935, partì per il Brasile: gli era stato proposto di insegnare sociologia all’università di São Paulo; a marzo cominciò a tenere lezioni accanto a Fernand Braudel e Roger Bastide, e conobbe un grande etnologo, Alfred Métraux. Fu affascinato da São Paulo. Si avventurò nel Mato-Grosso, tra gli indigeni Kaingang, Caduveo, Nambikwara e Bororo. Alla ricerca di una specie di cultura originaria, esplorò ciò che era tenebroso e sconosciuto.
Aveva nel cuore l’immagine di Conrad: gli sembrava di essere nella stessa condizione di lui, quando molti anni prima aveva scritto Cuore di tenebra; e pensò di essere una specie di sua reincarnazione.
Nel maggio 1941, dopo un breve soggiorno in Francia, raggiunse insieme a Victor Serge e a André Breton (che sembrava un signore del Grand Siécle) dapprima Porto Rico e poi New York, dove insegnò alla New School for Social Research. Conobbe Jacques Maritain, Henri Focillon, Alexandre Koyré e sopratutto lo spiritosissimo e scintillante e drammatico Roman Jakobson, di cui seguì i corsi di linguistica.
Jakobson diventò il modello del suo pensiero; e gli insegnò i rapporti tra i colori e i suoni. A quell’epoca — egli disse — era ancora uno “strutturalista ingenuo”. Incontrò André Weil e Simone, di cui credo non comprendesse il pensiero religioso e lo straziante spirito di sacrificio.
Tra il 1941 e il 1947 abitò a New York. Amava molto la città: la contemplava dall’alto, trovando che non era affatto, come si diceva, monotona e standardizzata, ma lasciava infinito spazio alla immaginazione. Frequentava insaziabilmente i musei, dove trovò le più belle collane precolombiane che avesse mai visto. Una meravigliosa gatta nera venne ad abitare con lui. Parlò dai microfoni della Voce dell’America: saliva spesso al Rockfeller Center, da cui contemplava l’immensità formicolante: New York stava, per lui, al di qua e al di là della civiltà occidentale, come «il paesaggio immenso di minerali ed acque» di cui aveva parlato Baudelaire; era giunta alla decrepitezza senza passare attraverso l’antichità e la civiltà.
Nella prima giovinezza non aveva mai rinunciato ad essere uno scrittore: ma lì, a New York, di fronte a quella vivente enormità, abbandonò un romanzo e un dramma, intitolato Apoteosi d’Augusto. Si ribellò contro ogni pensiero metafisico, con un furore quasi ossessivo. Detestava la parola filosofia e la parola religione: con uno slancio che meraviglia, visto che per tutta la vita si occupò sopratutto di metafisica e di religione. Trovò una specie di modello in Jean de Léry, che verso la metà del sedicesimo secolo scrisse il Voyage faict en la terre du Brésil. Avrebbe desiderato essere come lui: un etnologo che, per la prima volta, scopre il nuovo mondo e ne parla con un’inesauribile freschezza e novità di sensazioni. Via via che passavano gli anni, ammirava sempre di più Michel de Montaigne, il quale finì per diventare l’esempio della sua vita e della sua opera. Come amava il suo stile, intenso e succoso: la sua immensa memoria: la sua biblioteca, le sue mistificazioni, la sua serena disperazione, il suo ironico dilettantismo, la sua ironica nonchalance. Come lui, pensava che «non c’è niente di più vano, diverso e ondeggiante dell’uomo».
In Brasile diventò etnologo senza sapere di esserlo; e poi, a New York e a Parigi, tenne regolarmente i suoi corsi. Sull’esempio di Roman Jakobson cercò un sistema: una struttura: un modello (sebbene, nella realtà, non esista nessun modello); un gioco mobile e ricco di relazioni, di varianti e differenze. Usava qualsiasi metodo, con la certezza che, se fosse stato necessario, lo avrebbe cambiato. Affrontò l’inconscio, e lo portava alla coscienza, sperando di giungere ad un punto di certezza come quello di Alfred Einstein. Voleva mettere ordine nel mondo, sebbene sapesse che era impossibile. Sempre, in ogni luogo, sopratutto in se stesso, esaltava ciò che è sovrapersonale.
Mentre scriveva le ultime Mitologiche, Claude Lévi-Strauss sentì che la sua opera era compiuta. Mancava soltanto qualche ritocco. Se si guardava intorno, con i suoi “occhi d’elefante”, non tornava mai sugli stessi argomenti: era sempre imprevedibile. Proprio per questo, si formò delle abitudini, dietro alle quali scivolava, libero come un pesce. Alternava il lavoro a casa, quello al Cnr, le passeggiate, la lettura dei libri contemporanei, la lettura (puntualissima) del giornale, le rare frequentazioni del teatro e del cinema. Era attentissimo alle nuove scoperte tecniche, sebbene non amasse l’idea moderna di progresso.
Sebbene come Madame de Staël non amasse viaggiare, viaggiò moltissimo: in Pakistan, in Canada, in Colombia britannica e cinque volte, tra il 1977 e il 1988, in Giappone. Qualche volta pensò a un Buddhismo cristianizzato o meglio a un Cristianesimo buddhizzato.
Aveva amato molte donne: in ognuna di esse trovava le altre.
Forse l’ultima moglie, Monique Roman, fu la più cara: aveva diciotto anni meno di lui; discendeva da una madre ebreo-americana e da un padre belga. Abitava a rue des Marronniers nel cuore di Parigi: era bella e sapeva moltissime cose. Vicino a lei, scrisse Regarder écouter lire pubblicato nel 1993: un libro straordinario, libero da qualsiasi schema o ricordo etnologico, che parla di Poussin, Rameau, Diderot, suoni, oggetti e colori. Adorava Poussin come nessun altro pittore; e credo approvasse le sue parole sul fatto che Caravaggio era venuto al mondo per distruggere la pittura.
Claude Lévi-Strauss diventò, quasi senza accorgersene, vecchissimo.
Era un’abitudine di famiglia. Le due nonne erano morte quasi centenarie; e lui superò agevolmente il secolo. Pensava, fantasticava, leggeva: anche gli ultimi libri usciti: e seguiva i film di Eric Rohmer. Morì un mese prima di compiere centouno anni, il 30 ottobre 2009, e venne sepolto a Lignerolles, un villaggio della Côte-d’Or. Sino alla fine uscì da se stesso e dal proprio paese. Nel 1989, Eugenio Scalfari lo invitò a collaborare a Repubblica: scrisse sedici articoli, raccolti col titolo
Siamo tutti cannibali (Il Mulino, pagg. 176, euro 14, con una postfazione di Bernardo Valli), abbandonando, come forse non aveva mai fatto, gli argomenti trattati per tutta la vita. Così, sino alla fine, visse altrove.

Repubblica 17.4.18
Il personaggio
Cass R. Sunstein
La vera libertà? È “ dubito ergo sum”
di Riccardo Staglianò


Il pensiero unico non si addice alla democrazia. Già prima di internet tendevamo ad abbandonare il meno possibile il giardinetto tranquillizzante delle nostre convinzioni, bisognosi sopra ogni altra cosa della conferma di essere nel giusto. Ma oggi è peggio. La speranza di formare cittadini consapevoli sta nel coltivare tenacemente la piantina dell’infodiversità e del dubbio.
Perché, come diceva un giudice costituzionale citato da Cass R.
Sunstein in # republic. La democrazia nell’epoca dei social media (il Mulino), lo spirito della libertà è «quello spirito che non è mai troppo sicuro di essere nel giusto». Il costituzionalista di Harvard, insieme al Nobel dell’economia Richard Thaler teorico dei nudges, le spinte gentili per indirizzare i cittadini a comportarsi bene, teme da tempo l’effetto omofiliaco della rete. E con il terzo volume di una trilogia che ha forse il limite di assomigliarsi troppo indaga l’ultimo upgrade tecnologico dello specchio della matrigna di Biancaneve: i social media.
Invitando, nel caso di Facebook che tutti ora amiamo odiare (e di cui lui è stato consulente), a non esagerare nel risentimento perché rischieremmo di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Professore, qual è la principale lezione che ricava dallo scandalo Cambridge Analytica?
«È che alla persone importa davvero mantenere la propria privacy e non vogliono che informazioni sul proprio conto vadano in giro senza il loro consenso. Per i social media l’implicazione è ovvia: la privacy dei propri utenti va rispettata».
Continua a credere, come ha detto prima che il caso scoppiasse, che Facebook sia interessata a “contribuire al benessere della società, non solo ai profitti” e che sia una “forza per il bene”?
«Dopo la pubblicazione del libro ho avuto vari incontri con dirigenti di Facebook (a volte in veste di loro consulente sulle tematiche di cui mi occupo) e sono rimasto impressionato dal loro impegno a fare il bene. Naturalmente è una grande azienda e io ho incontrato solo un piccolo numero di persone.
Ma se una cosa ho portato a casa è che vogliono essere una forza per il bene tanto quanto essere profittevoli».
Se le chiedessero un consiglio su che fare per riguadagnare la fiducia perduta di molte persone cosa suggerirebbe?
«Il mio rapporto con loro si è incentrato sulla diffusione di notizie false e sulla polarizzazione politica, non sulla fiducia. Quanto ai temi di mia pertinenza un annuncio recente secondo il quale Facebook comincerà a verificare le identità di chi compra spot politici è chiaramente un passo nella giusta direzione».
Tornando al libro, e al suo allarme principale, in che modo i social media possono allontanare politicamente le persone?
«Rendendo molto facile vivere in echo chambers, casse di risonanza, nelle quali le persone sentono ripetere all’infinito versioni quasi uguali di ciò di cui sono già convinte. Questo non facilita l’apprendimento di nuove idee. Né giova alla democrazia. Può allargare le divisioni sociali. Far sì che le persone si piacciano sempre meno.
E dunque rendere molto più difficile risolvere insieme i problemi».
Tuttavia è un tratto umano quello di cercare la propria “zona di conforto”, circondandosi di simili che confermino le nostre opinioni. Dove sta la novità?
«È vero che ad alcune persone piace circondarsi di gente che la pensa allo stesso modo. Altre invece sono curiose e amano imparare da gente con idee discordanti. La novità è la tecnologia che ci rende facilissimo collegarci a centinaia, migliaia se non milioni di persone che la pensano uguale, allargando a dismisura le comfort zone. Questo è un problema sia per gli individui che per il governo».
Lei cita un sondaggio del 1960 quando solo il 5 per cento di genitori repubblicani si sarebbe dispiaciuto se il figlio avesse sposato una democratica. Nel 2010 la percentuale era del 49 per cento. Come si è allargata questa animosità?
«Ci sono molte cause. Una riguarda campagne elettorali sempre più negative e aggressive. Un’altra è proprio l’effetto cassa di risonanza per cui le persone ascoltano solo quelli che la pensano come loro».
Le abitudini mediatiche hanno un ruolo. I millennials, i nati dopo il 1980, ricevono il grosso delle notizie via Facebook. Cosa rischiano da questa dieta informativa monotona, quando non manipolata?
«Facebook è una piattaforma e la si può utilizzare in tanti modi, compreso l’aprirsi a nuove prospettive. Di certo però la si può usare anche come un Daily Me, nell’accezione di giornale a propria immagine e somiglianza ipotizzato da Negroponte nel ’95, attraverso il quale far passare solo le notizie politicamente gradite ed escludere le altre. Usata così finisce per rinchiuderci in una bolla e farci diventare sempre più ostili nei confronti dei concittadini».
Lei è sia su Facebook che su Twitter, dove segue 186 persone. Come si difende dai rischi dell’effetto filtro?
«Oh, leggo un sacco di persone con cui sono in disaccordo. Imparo ogni giorno da gente che sta sia a destra che a sinistra di me. Dissento spesso da Friedrich Hayek, per esempio, ma l’ho letto e lo rileggo. Non vado neppure granché d’accordo con Nietzsche, ma ho imparato da lui».
Tra le contromisure che propone c’è lo spingere i media a linkare articoli di testate agli antipodi e introdurre pulsanti della serendipità, che non sai dove ti conducono. Crede che li cliccheranno?
«Molte persone sono curiose e, se vedono qualcosa che le interessa, ci cliccheranno anche se pensano che non saranno d’accordo. La serendipità è davvero importante.
Se la gente continuerà ad avere incontri casuali molti potranno scoprire qualcosa di inatteso che magari farà cambiare loro idea».