mercoledì 18 aprile 2018

il manifesto 18.4.18
Il diavolo rosso e l’acqua santa nel centro sociale di Bologna
Luciana Castellina e l’arcivescovo di Bologna, monsignor Zuppi, a parlare di «conflitto» e di Bergoglio tra gli antagonisti del Tpo

Affinità e divergenze
di Alessandro Santagata

BOLOGNA Un’assemblea come quella di lunedì al Tpo di Bologna non si era mai vista. Innanzitutto non era mai successo che un arcivescovo, monsignor Matteo Zuppi, si presentasse in un centro sociale per dialogare con un gruppo storico di antagonisti. Se poi consideriamo che stiamo parlando di una delle diocesi più importanti d’Italia, per decenni guidata da una curia di stampo conservatrice, e in una città dalla lunga tradizione di sinistra; e se aggiungiamo che lo spunto per il confronto è venuto dai discorsi ai movimenti popolari di papa Francesco (diffusi dal manifesto), allora ci sono tutti gli elementi per parlare di una serata importante.
Era stata ideata come una presentazione del volume Terra, Casa, Lavoro da me curato (con l’introduzione di Gianni La Bella), ma era chiaro già da prima che il libro avrebbe dovuto funzionare da innesco per un confronto assembleare sulla trasformazione e sulla crisi del tempo presente, su Bologna e sulle sue emergenze sociali. Tra i relatori, oltre a chi scrive, Luciana Castellina e Domenico Mucignat, voce storica del Tpo.
La speranza era di avere un momento partecipato, ma neppure nelle migliori aspettative ci si sarebbe immaginati di vedere il capannone del centro sociale pieno di giovani attivisti, esponenti dell’associazionismo di base, seminaristi e abitanti del quartiere (insieme a un numero consistente di giornalisti e ad alcuni nomi della politica locale: assessori della giunta comunale (Matteo Lepore e Davide Conte), consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione e altri volti della «sinistra diffusa». Insomma, un insieme decisamente composito e tutt’altro che privo di quella dose di autoironia – «dai, che tra poco inizia la messa», si scherza davanti al bar – che diventa quasi necessaria, anche per stemperare la tensione della prima volta.
Va detto poi che alle spalle dell’assemblea c’è stato un lungo lavoro: i contatti tra gli antagonisti e Zuppi risalgono ad almeno due anni fa, cioè da circa un anno dopo l’insediamento dell’arcivescovo venuto dalle periferie romane.
In questo tempo il vescovo scelto da Bergoglio non ha mancato di dare più volte prova di come intenda la sua pastorale: coerentemente per gli ultimi e senza paura del dialogo con le realtà cittadine. «La serata – spiega in apertura Mucignat – è il punto di arrivo di un percorso che ha mosso i primi passi dalla collaborazione tra la diocesi, lo sportello Migranti del Tpo e il progetto Accoglienza degna (dello spazio Làbas) per dare una soluzione all’emergenza abitativa di un richiedente asilo di comune conoscenza».
Il confronto assembleare prende avvio proprio da come le parole di riscatto sociale del papa possano essere tradotte concretamente nel contesto italiano. A questo proposito, ho invitato a non dimenticare che quei discorsi hanno un peso particolare anche per via del quadro in cui sono stati pronunciati, cioè nella rete mondiale dei movimenti che ha riunito in Vaticano (e nel 2015 in Bolivia) centinaia di organizzazioni di diversa estrazione politica e culturale che da anni praticano il conflitto.
Non solo teoria dunque, e certo non solamente slogan, come racconta la storia dei Sem Terra e del Movimento dei lavoratori esclusi argentino.
Un’analisi dei discorsi del papa è venuta da Luciana Castellina, che ha sollecitato direttamente l’interlocutore ecclesiastico chiamando in causa la storia del dialogo tra cattolici e comunisti, il contributo del Pci e del gruppo del manifesto.
Attento e dotato di un sostanzioso dossier di appunti, Zuppi ha precisato subito che lo stupore dei media per la sua partecipazione è risultato in effetti del tutto ingiustificato: il dato preoccupante, semmai, è che «parlare faccia notizia».
Quindi ha coinvolto l’assemblea su un’analisi dei discorsi di Bergoglio, mettendo in evidenza i passaggi dai quali si evince che un’azione collettiva è necessaria, così come lo è il rispetto delle diversità d’impostazione. Ha ricordato che i cartoneros in Italia rischiano spesso il carcere e che i movimenti agiscono senza manicheismi e con in testa un’etica. Insomma, una riflessione sgombra dal timore di una reciproca strumentalizzazione, e sostanzialmente incentrata sulla definizione di un umanesimo alternativo al sistema dominato dalla finanza, ma partendo dalle emergenze concrete (migranti, lavoro, ambiente).
Durante le due ore di discussione sono risuonate più volte le parole chiave: «ingiustizia», «muri», «conflitto», «dialogo». Non sono mancati appunti sulla distanza notevole che separa la Chiesa cattolica da chi pensa che senza l’autodeterminazione dei corpi non ci possa essere una prospettiva di riscatto collettivo. Ma si può dire che, come in occasione degli incontri mondiali dei movimenti, è prevalsa la ricerca di un linguaggio condiviso.
Per Gianmarco De Pieri del Tpo, «abbiamo messo a tema come organizzare la resistenza contro l’ingiustizia. Due mondi che da tempo si parlavano, invitano tutti gli altri mondi a parlarsi. Nei periodi più felici, per esempio a Genova nel 2001, i movimenti sociali hanno camminato insieme. Ricominciamo a farlo».
Rimanendo nel terreno della storia, la serata di lunedì fa pensare agli anni Sessanta e agli incontri tra quelli che allora erano detti i «cattolici del dissenso» e i militanti della sinistra, quella vecchia e quella nascente. I concetti dell’epoca erano simili, quando non gli stessi, ma la sensazione è che siamo, nello stesso tempo, vicini e lontani anni luce dalle dinamiche di allora. Siamo vicini nella misura in cui, dopo decenni nei quali la Chiesa cattolica si è arroccata in una campagna sulla bioetica, Francesco ha compiuto un rinnovamento, con al centro il discorso sociale, che ricorda la stagione di Roncalli e del suo concilio.
In mezzo però si è consumata la fine del Novecento, con quell’accelerazione della crisi culturale e politica che obbliga a un ripensamento profondo delle categorie, un tempo definite anche in opposizione tra loro.
L’assemblea di Bologna ha reso palese, verrebbe da dire quasi con semplicità, che è in corso un cambiamento d’epoca e che, senza rinunciare alla propria appartenenza, c’è un percorso di movimento da riprendere, serve un nuovo «tessuto sociale» (Zuppi) e, soprattutto, un agire comune di resistenza e risposta, senza «pasticci ideologici» (Castellina) che suonano oggi inutilmente anacronistici.

Il Fatto 18.4.18
Noi, maschi sgomenti, alla fine siamo rimasti nudi
di Roberto Finzi


Molto si discusse, quando si pensava a una “costituzione” europea, delle radici dei nostri attuali valori identificandoli nelle culture classica e giudaico-cristiana, imbevute e portatrici di umanesimo. Ma pure, a chi si interroghi sulla plurimillenaria subjection of women, per usare il titolo di un saggio di John Stuart Mill del 1869, dell’idea che ogni male dell’umanità sia stato originato dalla donna (e proprio per questo ogni costituzione o dichiarazione dei diritti deve ancor oggi ossessivamente riaffermare il rispetto dell’eguaglianza tra i sessi). Quando Zeus volle vendicarsi di Prometeo e dei suoi protetti, gli umani, pensò di inviare loro una grave sventura. Ordinò agli dei di plasmare un essere “simile a una vereconda fanciulla”, Pandora, da cui iniziò “la stirpe funesta e la razza delle donne”. Funesta perché la donna cui era stato affidato un vaso con l’ordine di non aprirlo disubbidì e per il mondo si sparse ogni male. Finì così l’originaria “età dell’oro” in cui gli uomini vivevano senza il bisogno di lavorare e privi di malattie “che recano agli uomini la morte”. Solo la speranza rimase nell’orcio. Parola del più antico poeta greco la cui identità sia certa, Esiodo.
La Bibbia poi, si sa, attribuisce a Eva la cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre. Se si guardano le cose attentamente si scorge un fatto curioso: in entrambi i casi la donna disobbedisce per due caratteri distintivi, “alti” dell’essere umano. Il serpente dice a Eva che se infrangessero il divieto impostogli da Dio “i vostri occhi si aprirebbero e diverreste come Dio conoscitori del bene e del male” (Genesi, 3, 5). Dunque, Eva agisce per desiderio di conoscenza e lo fa usando di un’altra peculiarità dell’uomo: il libero arbitrio, la possibilità di scegliere. Una prerogativa formidabile ma formidabilmente ansiogena, difficile e complicata. “Pochi – noterà Albert Einstein – si dimostrano capaci di esprimere con equità opinioni diverse dai pregiudizi del loro ambiente sociale. I più sono persino incapaci di concepirne” in quanto, nota sarcastico, “per essere l’immacolato componente di un gregge di pecore bisogna essere, prima di tutto, una pecora”. L’attribuzione dell’origine di ogni male alla donna è espressione di una società in cui il maschio è già riuscito a imporre la sua prevalenza e una visione del ruolo dei sessi che a lungo viene interiorizzata anche dalla donna. Per quanto sempre esistano donne “diverse”, capaci di battersi contro i pregiudizi. Il punto allora è: come il maschio afferma il suo predominio e, soprattutto, perché in maniera costante, seppure diversa, volge la propria forza e violenza o la “più ordinata oppressione della legge” (Adam Smith) proprio verso il soggetto con cui condivide vita, desideri, affetti, dolori.
Le spiegazioni date sono molte e ognuna ha una parte di verità. Ad, esempio, quella, diffusissima, che, una volta instaurata la proprietà, la sessualità femminile debba essere controllata per avere la certezza di una successione legittima. Osservando con attenzione le tessere del mosaico, culturale e fattuale, della plurimillenaria subjection of women ne spunta qualcosa di diverso, e assai inquietante per il maschio. La grande difficoltà a comprendere, penetrare, cogliere fino in fondo, il femminile psichico e fisico per di più in una situazione di oggettiva, naturale diseguaglianza sessuale. Ché la donna è in questo campo più forte, potente dell’uomo. Il suo istinto e desiderio non può avere paragone con quello maschile se, aveva notato Giacomo Casanova, è pronta a mettere nel conto “una gravidanza di nove mesi, (…) un parto più o meno doloroso, e qualche volta mortale”.
Per questo una testa pur acuta come quella di Erasmo da Rotterdam “traduceva” un meschino detto maschilista – “sublata lucerna nullum discrimen inter feminas”, spenta la luce ogni femmina è eguale – in un’accusa alle donne, alla loro lascivia: “Ogni donna sarebbe impudica, se le fosse data facoltà di peccare senza testimone”. Insomma il sesso femminile squassa l’io maschile mettendone in dubbio forza e virilità, che della potenza maschile è il simbolo. La soggezione imposta alla donna ne è stato il feroce ma problematico antidoto.
Oggi però, nonostante le tante forti resistenze che a lungo rimarranno, due dati essenziali sono mutati rispetto alla lunga storia della “questione femminile”: la progressiva eclissi dell’introiezione e quindi accettazione in parte cospicua delle donne della loro supposta inferiorità e lo sgretolamento dello scudo della legge. Così il re è nudo.
Sgomento, gli è inevitabile ridefinire se stesso.

Repubblica 18.4.18
Henry Naylor
Il potere si esercita sul corpo delle donne
Il conflitto tra società occidentale e mondo musulmano il suo pallino.
di Anna Bandettini


Henry Naylor scrittore inglese, classe 1966, ha firmato nel 2014 The Collector, dramma sulla guerra in Iraq e sugli interessi poco umanitari che hanno reso sempre più tesi i rapporti tra l’Occidente e i Paesi Arabi, e l’esito è stato uno dei successi più clamorosi della stagione teatrale britannica. L’anno dopo Naylor vince con Echoes il premio del Fringe Festival di Edimburgo, e anche in questo testo affronta il tema Oriente-Occidente, e si concentra sul fondamentalismo religioso nella cultura musulmana e in quella occidentale, osservandolo dal punto di vista femminile, dal modo in cui le due religioni guardano la donna e il corpo della donna. Naylor affronta il tema della violenza culturale oltre che fisica sulla donna, il suo assoggettamento alle regole maschili e religiose.
Echoes si è rivelato un successo nell’off londinese, in Usa e Australia, e ora arriva da noi (da domani al Teatro India con una produzione del Teatro di Roma con la regia di Massimo De Michele e in scena Francesca Ciocchetti e Federica Rosellini nei ruoli delle due protagoniste, Samira e Tillie, separate da quasi due secoli di distanza e dalla cultura di provenienza).
Tillie, in quanto ragazza inglese d’epoca vittoriana, è data in moglie a un ufficiale dell’esercito britannico di stanza in Afghanistan.
Proprio a Kabul Tillie prende coscienza della costrizione a cui il marito violento la obbliga e si ribella nel modo più drammatico.
Una storia simile, parallela ha Samira, ragazza di oggi, musulmana in Inghilterra: le notizie della Siria, il richiamo alla fede religiosa, la spingono a entrare nel mondo delle “mogli della Jihad”, le donne che sposano i guerriglieri dello Stato islamico per sostenerli nella Guerra contro i popoli infedeli. Ma sarà proprio in quel ruolo che Samira scoprirà la vera faccia del fondamentalismo e la violenza perpetrata sulla donna.
La condizione di subalternità, l’obbedienza all’uomo-padrone, lo spettro del femminicidio sono temi che conosciamo dalle cronache dei giornali: sappiamo bene che sul corpo delle donne si consumano da secoli le peggiori nefandezze e da sempre si gioca l’esercizio del potere politico e religioso, ma Echoes ha il merito di riaccendere la questione nella doppia prospettiva occidentale e orientale.
In quelle due storie di donne lontane temporalmente ma identiche nel bisogno di un presente migliore e di una relazione diversa con l’uomo, il tema si mostra intero ed eccessivo, e ormai sempre più indigesto.

La Stampa 18.4.18
Tutte le donne del Pulitzer al New York Times
Gli articoli sulle molestie dei potenti hanno spinto anche le persone comuni a denunciare gli abusi subiti
di Gaia Pianigiani


Tra i premi vinti dalle colleghe e dai colleghi del New York Times quest’anno, il Pulitzer per il servizio pubblico conquistato con le inchieste sulle molestie contro le donne, è un po’ speciale.
È stato premiato il cambiamento culturale provocato dagli articoli del
New York Times, dalla rivista The New Yorker e dal movimento #MeToo, che ha dato nuova linfa al dibattito sul genere, gli abusi e la parità di trattamento sul posto di lavoro.
Le inchieste hanno rivelato un antico sistema di influenze e di potere economico trasversale a più industrie, dal mondo del cinema alla politica, dai media alla tecnologia e alla ristorazione, che per decenni ha permesso a uomini al vertice di abusare impunemente delle proprie colleghe.
Per mesi, abbiamo cercato i fatti. Un team di giornalisti ha insistito a parlare con le donne che non volevano esporsi, incrociato testimonianze e raccolto documenti che corroborassero i singoli racconti, dando poi vita alla serie di articoli che hanno vinto il premio. L’inchiesta sul presentatore televisivo di Fox News, Bill O’Reilly, che ha pagato per il loro silenzio decine di colleghe molestate, è basata su documenti legali e interni all’azienda, così come quella su un investitore della Silicon Valley, che con notevole sforzo economico aveva chiuso diversi contenziosi con le sue accusatrici. Fino ad arrivare al più noto caso del produttore cinematografico, Harvey Weinstein, che dagli Anni 70 ha usato il suo immenso potere nel mondo del cinema per molestare generazioni di giovani attrici e dipendenti, cosa di cui molti a Hollywood erano a conoscenza.
Ma questo lavoro non ha solo avuto l’effetto di costringere i potenti alle dimissioni. Ha anche rotto il muro del silenzio. In redazione sono arrivate una valanga di testimonianze di donne che non vivono sotto i riflettori, ma che vengono ugualmente molestate sul posto di lavoro, da un hotel a Beverly Hills o uno stabilimento automobilistico nel Midwest. Sono loro che ci hanno permesso di continuare a scavare.
Così è nato il progetto audio-visivo sulla Ford. Sul sito del New York Times campeggiano le lavoratrici metalmeccaniche, ritratte in un bianco e nero senza tempo, che oggi come 25 anni fa lavorano in un ambiente fortemente maschilista. Negli audio raccolti, raccontano il loro primo giorno in fabbrica, apostrofate come «carne fresca», o le pacche sul sedere da parte dei capi.
Alcune delle nostre fonti non avevano mai parlato ad altri giornalisti. Ci hanno affidato la loro storia e il loro bagaglio di dolore perchè si sono fidate della considerazione e della cura avuta nelle inchieste precedenti.
«Rivelando accordi segreti, persuadendo le vittime a parlare e a chiedere conto a uomini potenti, abbiamo promosso una comprensione globale degli abusi sessuali che sembra solo crescere», ha detto il direttore del New York Times, Dean Baquet.
Due settimane dopo lo scandalo Weinstein, è arrivata la nostra prima «gender editor», Jessica Bennet. Una figura di raccordo e propulsione di articoli sulle problematiche e le peculiarità di genere in tutto il giornale ed in varie forme, incluso un account Instagram capace di una forma narrativa più vicina ai giovani lettori. L’obiettivo è quello di non avere una sezione che parli delle donne, ma che tutto il giornale sia più attento a questi temi, ha spiegato.
In quest’ottica, l’8 marzo abbiamo pubblicato quindici ritratti di donne che hanno fatto la letteratura, l’architettura e la poesia degli ultimi 160 anni, ma che all’epoca della loro morte non avevano meritato un «coccodrillo» del New York Times. La società del tempo aveva loro negato il tributo di un testamento letterario. Non avevamo scritto della poetessa Sylvia Plath, di Emily Warren Roebling che prese il posto del marito nella costruzione del ponte di Brooklyn, della giornalista Ida B. Wells che si batté contro i linciaggi degli afro-americani.
I primi pubblicati erano sulle loro vite, per un totale di quindici donne eccellenti. Ma sono poi arrivati migliaia di altri suggerimenti dai lettori, la cui percezione dell’importanza del lavoro femminile è mutata negli anni.
Ed è proprio questa la direzione del servizio pubblico che il Pulitzer incoraggia, quella di un impegno non solo per le donne, ma per il cambiamento della società intera.

Il Sole 18.4.18
Un mandato, un obiettivo chiaro
Il calendario non consentirebbe di sciogliere le Camere e indire il voto a meno di non arrivare a fine giugno. E quindi un Governo si farà. La formula che avrà dipende solo dai leader
di Lina Palmerini


Si parte dal voto del 4 marzo. Sarà un punto fermo per Mattarella ribadire che non si prescinde dal risultato elettorale. E dunque si comincia dalla coalizione che ha i maggiori consensi e dal presidente Casellati per verificare lo schema su cui punta Salvini: un patto con i 5 Stelle.
Davanti a sé, il capo dello Stato, ha tre dati. Innanzitutto l’esito delle elezioni; poi la maggioranza che si è formata in occasione dell’elezione dei presidenti delle Camere e, infine, ma solo in ordine temporale, lo schema con il quale il centro-destra unito si è presentato alle ultime consultazioni. Matteo Salvini in quell’occasione è stato chiaro, si guarda solo ai 5 Stelle. E sempre lui ieri ha dato il via libera al lavoro “esplorativo” del presidente del Senato. Questo è l’inizio. Ma, appunto, solo l’inizio. Quello che Sergio Mattarella indicherà a Elisabetta Casellati nel conferirle il mandato è proprio di verificare fino in fondo se un’alleanza tra “vincitori” sia una strada aperta oppure chiusa. E se quel patto stretto da Salvini e Di Maio per l’elezione della seconda e terza carica dello Stato sia nato solo come maggioranza istituzionale o possa vivere anche come maggioranza politica per un Governo.
Del resto, il presidente l’aveva detto nel suo messaggio di fine anno: si comincia dagli elettori, poi dai partiti e infine dal Parlamento. E quest’ordine lo rispetta cominciando a esplorare, una a una, le carte che hanno in mano le forze politiche. È chiaro che quello che affiderà alla Casellati potrebbe essere solo un passaggio, se entro un tempo determinato (verosimilmente una settimana), si dovesse certificare che un’intesa tra centro-destra unito e 5 Stelle non può esserci. A quel punto si passerà a un altro schema ma - a meno di novità - passando sempre per l’altro dei vincitori: i 5 Stelle. Per quella data Luigi Di Maio avrà chiuso uno dei due forni, magari saranno stati fatti passi avanti in altre direzioni. Già ieri il Pd di Martina ha fatto una nuova apertura lanciando alcuni temi programmatici graditi al Movimento. Si vedrà. Quello che è probabile è che se fallirà la prima esplorazione della Casellati, si passerà all’altro presidente, a Roberto Fico, esponente del primo partito votato dagli italiani.
Naturalmente è un impianto di massima che ha il valore effimero che hanno le riflessioni fatte quando si è all’inizio di un percorso. Di certo, lo stile presidenziale e la cultura istituzionale e politica di Mattarella portano a pensare che non vi saranno forzature dal Quirinale se prima non saranno messe alla prova le opzioni politiche. Solo dopo si entra in un ambito in cui il capo dello Stato acquisisce un maggiore margine di libertà. Quando - appunto - i partiti non riescono a trovare la soluzione. In questi casi si dice che i poteri del presidente sono a “fisarmonica”: si espandono quanto più si restringono quelli della politica.
Certo è che con l’esplorazione che durerà circa una settimana e se non avrà un buon esito, si arriverà a ridosso di una scadenza temporale che mette al riparo da nuove elezioni subito, entro l’estate. Il calendario non consentirebbe di sciogliere le Camere e indire il voto a meno di non arrivare a fine giugno. E quindi un Governo si farà. La formula che avrà dipende solo dai leader. Da oggi Mattarella comincia a metterli alla prova. Dinanzi agli italiani, per la prima volta dopo il voto, dovranno rendere conto agli elettori dei consensi ricevuti.

Il Sole 18.4.18
La politica in numeri
Dallo stallo non si esce con le urne
di Roberto D’Alimonte


Ha senso tornare in tempi brevi a votare con lo stesso sistema elettorale? È una domanda da farsi visto che il ritorno anticipato alle urne diventa sempre più probabile ogni giorno che passa senza una soluzione allo stallo in cui siamo finiti.
Salvini ne ha parlato di nuovo recentemente in questi termini «o si va avanti e si lavora o tanto vale tornare dagli italiani con un voto chiaro a dire “facciam da soli”». La speranza del leader della Lega in caso di nuove elezioni è che gli italiani diano al centro-destra quella maggioranza assoluta di seggi che il 4 marzo gli è stata negata. È realistico?
Prima delle elezioni l’opinione corrente era che sarebbe bastato il 40% dei voti perché una forza politica potesse ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Salvini e altri forse lo pensano ancora. In fondo il centro-destra il 4 marzo è arrivato al 37%. Un altro piccolo sforzo e sarebbe fatta. Ma non è così. È più complicato. Con il 37% dei voti alla Camera il centro-destra ha ottenuto il 42,1 % dei seggi totali. Da qui al 50% più uno ce ne corre. Se non cambia la distribuzione delle preferenze partitiche degli italiani non basta ottenere un 3% di voti in più per arrivare alla meta. La formula per riuscirci resta la stessa di quando ne abbiamo parlato tempo fa sulle pagine di questo giornale: occorre mettere insieme il 40% dei seggi proporzionali e il 70% dei seggi maggioritari oppure il 45% dei primi e il 60% dei secondi. E anche così si arriverebbe a maggioranze risicate: 322 seggi nel primo caso e 318 nel secondo. Solo con la formula 45-65 si otterrebbe una maggioranza più solida.
Alla luce del risultato delle ultime elezioni a quali condizioni questo potrebbe succedere? Rispetto al 4 marzo il centro-destra dovrebbe vincere molti seggi in più nei collegi uninominali del Sud strappandoli al M5s. La tabella in pagine spiega il punto. Questo schieramento ha vinto alla Camera il 47,8% dei seggi maggioritari. Una percentuale molto lontana da quelle necessarie per arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi totali. Questo 47,8% è il risultato di rendimenti diversi in diverse zone del paese. Nei collegi del Nord ha vinto 79 seggi su 91 (l’86,8%). Nella ex-zona rossa ne ha vinti 19 su 40 (il 47,5%). Ma nel Sud ne ha conquistati solo 13 (il 12,9%) contro gli 84 del M5s (83,2%).
La conclusione è quella già detta. Solo se gli elettori meridionali si spostassero decisamente verso il centro-destra il ritorno alle urne darebbe un risultato diverso da quello del 4 marzo. Naturalmente lo stesso potrebbe accadere se le preferenze degli elettori del Nord cambiassero a favore del M5s. Ci sono buone ragioni per credere che questo evento sia meno probabile dell’altro. Per questo il centro-destra resta lo schieramento con qualche probabilità in più di raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi. Soprattutto al Senato. Ma le probabilità sarebbero comunque poche se il ritorno alle urne avvenisse in tempi brevi. Le preferenze partitiche cambiano ma dovrebbero cambiare radicalmente per produrre il risultato che Salvini auspica. Nei collegi uninominali del Sud il 4 marzo il distacco medio tra i voti ai candidati vincenti del M5s e quelli ai candidati di centro-destra è stato di 15,5 punti percentuali. Uno scarto difficile da colmare anche in tempi di grande volatilità elettorale.
Detto ciò, non si può però escludere in maniera netta che il centro-destra riesca a ottenere la maggioranza assoluta. Potrebbe succedere se la crescita dei suoi voti oltre il 40% si combinasse con la conquista di più seggi uninominali nelle regioni della ex-zona rossa e soprattutto al Sud grazie al calo dei consensi al Pd e al M5s. I dati di questi ultimi giorni parlano di una Lega in crescita. Ma non basta che salga il partito di Salvini occorre che cresca tutto il centro-destra per cambiare il risultato. E questo non sembra essere il caso. Per ora.
E allora, vale la pena di correre il rischio di un nuovo stallo dopo nuove elezioni? In Spagna tra il 2015 e il 2016 si è votato due volte. Il risultato è stato più o meno lo stesso e dopo la seconda votazione si è fatto il governo. Lì è successo che il maggior partito di opposizione ha consentito la nascita di un governo senza maggioranza guidato dal partito che aveva preso più voti. Così è nato il governo Rajoy. Il resto lo ha fatto il meccanismo della sfiducia costruttiva che noi non abbiamo. In parole chiare, ammesso che il centro-destra risulti di nuovo come il 4 marzo lo schieramento con più voti, Pd e/o M5s sarebbero disposti a far decollare un governo Salvini o chi per lui? Chissà. A noi sembra cosa molto complicata e poco probabile. Per questo c’è da chiedersi - a malincuore - se la soluzione meno peggio non sia un nuovo sistema elettorale che metta nelle mani degli italiani la scelta del governo, visto che i partiti non riescono a mettersi d’accordo. Non un sistema qualunque però, ma uno che consenta agli elettori di esprimere non solo le loro prime preferenze ma anche le seconde.

La Stampa 18.4.18
Gli egoismi pericolosi
di Gian Enrico Rusconi


Emmanuel Macron ha fatto il discorso più impegnativo della sua carriera politica. Vi ha concentrato le tesi-chiave della sua visione politica e della sua progettualità come presidente francese che intende «costruire una nuova sovranità europea che protegga i cittadini».
Ma lo ha fatto tenendo presente una prospettiva mai evocata in modo tanto esplicito e drammatico nella sede europea più alta: l’eventualità di una guerra civile. Ha detto infatti che quello in cui stiamo vivendo «non è un periodo normale» perché «sta emergendo una sorta di guerra civile europea».
È affermazione grave, paradossalmente usata spesso proprio dai molti, più o meno camuffati nemici dell’Europa. L’espressione «guerra civile europea» non può essere ripresa in modo ingenuo o meramente retorico. Certamente non da un uomo colto come Macron. Viene il sospetto che il giovane e ambizioso presidente francese incominci a sentire la durezza della situazione reale. Forse sente anche la sua solitudine, in una Europa che all’indomani della sua elezione presidenziale non ha affatto invertito la rotta che porta verso le democrazie autoritarie.
La sua diventa così un’appassionata perorazione perché si mantenga il «modello democratico in Europa che è unico al mondo», affinché si risponda «con l’autorità della democrazia alla democrazia autoritaria». L’Europa che Macron sogna è l’esatto opposto delle democrazie illiberali che stanno seducendo - sotto svariate forme (comprese le nostrane italiane) - molti cittadini europei. È qualcosa di molto più insidioso che non un generico «egoismo nazionale».
Il discorso di Macron ovviamente entra - sia pure a grandi linee - nel merito delle questioni concrete più pressanti. Innanzitutto quella della immigrazione. È urgente «sbloccare la riforma di Dublino, su cui c’è un dibattito avvelenato» e lanciare un «programma europeo per finanziare le comunità locali che accolgono i rifugiati». C’è la web tax «che in futuro darà risorse per il bilancio europeo».
Ma quando vengono elencati i problemi cruciali e decisivi della riforma dell’Eurozona, del completamento dell’unione bancaria, della creazione del bilancio dell’Eurozona, il clima dell’assemblea di Strasburgo sembra raffreddarsi. Su questi temi infatti l’assemblea è tuttora profondamente divisa, anche se dentro ad essi si annidano i motivi che evocano l’ipotesi catastrofica della «guerra civile».
Naturalmente - mettendoci nell’ottica di Macron - si può rovesciare il ragionamento. Il presidente francese si è spinto ad evocare questa deprecabile ipotesi proprio per motivare gli interessati a trovare assolutamente e urgentemente vie d’uscita.
Non possiamo concludere queste considerazioni senza ricordare che i progetti di Macron sono irrealizzabili senza la stretta cooperazione con la Germania. Per mesi e mesi Macron e la cancelliera Merkel sono stati in contatto in vista della attuazione di progetti comuni, aperti poi a tutti i membri dell’Unione. Ma frattempo la situazione tedesca è cambiata significativamente. Non solo per l’affermazione del partito «Alternativa per la Germania» ma per il sensibile irrigidimento della destra democristiana tradizionale, che è ostile a qualunque mutamento della politica e della struttura europea nel senso proposto dal presidente francese. È annunciato per giovedì un incontro diretto Macron-Merkel. Ci saranno molte affettuosità tra i due, ma dubito che la cancelliera farà o potrà fare sostanziosi passi in avanti.
A Strasburgo Jean-Claude Juncker ha ritenuto opportuno precisare che «l’Europa non è un club franco-tedesco. Per far funzionare il motore europeo serve anche l’apporto degli altri». È vero. Ma intanto il motore immaginato da Macron non si mette in moto.

Repubblica 18.4.18
L’attacco in Siria
Merkel smarrita perde la guida dell’Europa
di Tonia Mastrobuoni


Sotto un cielo vuoto, privato di un alleato fondamentale come gli Stati Uniti, Angela Merkel sembra sempre più smarrita. Superato il decennio della crisi economica — e di leadership tedesca nell’Ue — lo scenario internazionale rivoluzionato degli ultimi mesi rischia di esaltare i limiti della cancelliera. Che non sono solo caratteriali, causati dalla sua proverbiale cautela. Sono dettati anche da difficoltà politiche e culturali della Germania.
Ma tanto più è legittimo chiedersi — in un momento in cui l’Europa ha un disperato bisogno di progredire sul piano della sicurezza e della difesa, in cui si possono mettere da parte le preoccupazioni economiche, ma in cui sono cresciute quelle politiche e geostrategiche — se Merkel sarà all’altezza del compito di guidare il rilancio dell’Europa. E basta analizzare gli ultimi eventi per capire che anche la sua debolezza interna, la cacofonia che si registra nella Grande Coalizione su ogni dossier, non aiuta.
Sul complicato nodo dell’intervento in Siria, al netto delle fughe in avanti di Emmanuel Macron, è saltata agli occhi la chiusura di Berlino nel tradizionale ruolo di prudente “nano” militare, quello che ha ricoperto sin dalla fine della tragedia del nazismo. «Non parteciperemo a un intervento militare in Siria», è stata l’istintiva reazione di Merkel dopo l’annuncio dell’attacco da parte di Usa, Francia e Regno Unito.
In realtà, negli ultimi due decenni, la Germania è cambiata, anche sul piano militare. Dalla partecipazione alla guerra in Kosovo o all’intervento in Afghanistan, passando per la nuova filosofia del “dovere di immischiarsi” proclamata dall’ex presidente della Repubblica Gauck in un ormai storico discorso alla Conferenza di Monaco di quattro anni fa, Berlino ha dimostrato di volersi prendere “le sue responsabilità”. Dopo Monaco, Merkel ha aumentato la sua presenza nelle missioni militari all’estero e ha favorito il piano di Difesa comune, l’unica risposta emersa in Europa ad oggi dopo lo shock della Brexit.
Ma proprio il fondatore della Conferenza di Monaco ed ex ambasciatore tedesco negli Usa, Wolfgang Ischinger, ha messo il dito nella piaga e ha stroncato Merkel per aver «guardato dall’altra parte» mentre Usa, Francia e Regno Unito annunciavano l’attacco in Siria. «È troppo poco, per la Germania», ha commentato, ricordando il contratto di coalizione con cui il governo Merkel si è impegnato nuovamente «a prendersi le sue responsabilità nello scacchiere mondiale».
Anche alcuni giornali tedeschi hanno notato infastiditi che la Germania continua a muoversi «tra il poco e il nulla» sul piano militare. E l’assenza in Siria richiama l’astensione sulla Libia al Consiglio di sicurezza dell’Onu di sette anni fa. Ma il quadro in Siria, che coinvolge ormai tutte le potenze dell’area, oltre alle due tradizionali superpotenze, Usa e Russia, richiede che la Germania si lasci alle spalle lo scudo del “nanismo militare”. Del resto, era stata proprio Merkel, poche ore dopo la nomina di Donald Trump, ad ammettere che «i tempi in cui ci potevamo affidare ad altri Paesi sono finiti». E non basta, anche se è importante, il ruolo di mediazione con la Russia che Merkel si è ritagliata, telefonando ieri a Putin e cercando di dimenticare le frizioni recenti.
Lo spettacolo di un’amministrazione americana che oscilla tra una politica estera del mattino e una del pomeriggio, tra un tweet di Trump e una smentita, richiede che Germania ed Europa imparino a muoversi da protagoniste senza Washington, anche sul piano militare. Sotto un cielo vuoto, la Germania non può restare sola né lasciare sole Francia ed Europa.

Il Sole 18.4.18
L’azione della Merkel bloccata dal timore della destra estrema
di Alessandro Merli


È uscita ieri da Berlino, attraverso un’indiscrezione Handelsblatt, quella che potrebbe apparire una vicenda di ordinaria amministrazione, un ordine di servizio interno del ministero delle Finanze: il capo economista, Ludger Schucknecht, e il resto della prima linea dirigenziale dell’era di Wolfgang Schaeuble sono stati riconfermati dal nuovo ministro, il socialdemocratico Olaf Scholz.
Un segnale preciso di continuità, di non poco conto, soprattutto per quanto riguarda Schucknecht, uno dei fautori della ultra-ortodossia tedesca, che è anche il principale sherpa tedesco in tutte le discussioni europee e internazionali.
Ma è anche un segnale che va letto insieme a diversi altri provenienti negli ultimi giorni da Berlino. La dichiarazione dello stesso Scholz, secondo cui «un ministro delle Finanze tedesco è sempre un ministro delle Finanze tedesco», quasi a sgombrare il campo dalla possibilità di una sostanziale deviazione di rotta. E un documento del gruppo parlamentare dell’unione democristiana Cdu/Csu sulle proposte di riforma dell’eurozona. «Nein zu allem», no a tutto, disse una volta il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, in una delle sue rare sortite in lingua tedesca. No alla garanzia comune dei depositi bancari, che la Bce ritiene indispensabile per avere una moneta unica vera e propria, e no anche al fondo comune per la risoluzione delle banche in crisi. Quindi, niente terzo pilastro dell’unione bancaria e azzoppato anche il secondo. No al Fondo monetario europeo, proposta peraltro avanzata in prima battuta da economisti tedeschi.
La volontà di guardarsi il fianco destro dall’eurofoba AfD (Alternativa per la Germania), oggi il principale partito di opposizione al Bundestag, e in un certo senso di mettere sotto tutela Scholz è palese. Ma in fondo non c’è nel documento democristiano niente di più di quanto già non fosse contenuto nel testamento spirituale di Schaeuble, il “non paper” dello scorso settembre, che pure diceva di no a tutto.
Negli ultimi tempi ci hanno provato in diversi a cercare di inculcare nell’establishment politico tedesco, che peraltro come spesso è avvenuto su questi temi segue, e non guida, un’opinione pubblica relativamente compatta, la necessità di riforma dell’eurozona, anche a vantaggio della Germania stessa. Il direttore dell’Fmi, Christine Lagarde, che ha messo al primo posto delle priorità proprio il completamento dell’unione bancaria, e il responsabile delle questioni internazionali della Bce, Benoit Coeuré, sono intervenuti entrambi con discorsi a Berlino. Il secondo nella tana del lupo del “consiglio economico” della Cdu, spiegando che, senza ulteriori riforme dell’eurozona, la «prossima crisi potrebbe costringere la Bce a mettere alla prova i limiti del proprio mandato», proprio quello che i tedeschi non vogliono. Né Lagarde né Coeuré sembrano aver fatto breccia negli interlocutori.
I temi europei avevano avuto un riconoscimento di facciata in Germania nel programma di governo stilato dalla grande coalizione, occupando il posto d’onore della prime pagine del documento. Ma, da tempo, si è fatta largo la sensazione che Berlino sia determinata a cedere ben poco. È apparso evidente, per esempio, dai discorsi degli economisti tedeschi all’annuale conferenza degli Ecb Watchers a Francoforte, ma ancor più chiaramente, anche se in modo più sottile, nelle conversazioni private con esponenti di alto livello delle autorità tedesche. La situazione italiana, per la verità, contribuisce a rafforzarli nelle loro convinzioni.
La coincidenza di tutti questi segnali provenienti dalla Germania fa uno stridente contrasto con il discorso di Strasburgo con il quale il presidente francese Emmanuel Macron ha provato ieri a rilanciare la sua iniziativa europea. L’ultima parola, come sempre sulle questioni europee, spetta al cancelliere Angela Merkel, che finora si è mantenuta in silenzio quasi assoluto in tutta la vicenda. Salvo promettere che un impulso franco-tedesco sarebbe arrivato al vertice europeo di giugno. A questo punto appare però probabile che si tratti di concessioni modeste. Sarebbe una sconfitta bruciante per Macron. Ma, alla lunga, i danni arriverebbero anche in Germania. Dove per ora questo non è ancora stato capito.

Il Sole 18.4.18
Contraddizioni europee
L’Eliseo tra ideali e cruda realtà
di Adriana Cerretelli


Quasi un anno fa era entrato trionfalmente sulla scena europea al suono dell’Inno alla Gioia, brandendo un incontenibile volontarismo riformista e anche rivoluzionario. Una sorta di redivivo Robespierre che, dimentico della Marsigliese, si voleva lanciare nella guerra giusta contro l’Europa accomodata sulle proprie cattive abitudini, divisa, agnostica e abulica anche se tutt’altro che soddisfatta di sé.
Almeno nel piglio oratorio, Emmanuel Macron non ha perso smalto e nemmeno ambizioni, che ieri ha solennemente ribadito davanti all’Europarlamento con convinzione testarda e quasi disperata. Però la traversata di poco meno di 12 mesi nelle complessità e contraddizioni della partita europea, lo scontro con la Germania di Angela Merkel, che da demiurgo incontrastato della politica tedesca ed europea è divenuta l’ostaggio debole e prigioniero di crescenti condizionamenti interni, costringono il presidente francese al realismo. Alla cruda consapevolezza che la sua crociata potrebbe concludersi con i vessilli a mezz’asta.
Non è un caso del resto se, nelle stesse ore in cui vibrava di europeismo nell’emiciclo di Strasburgo, la Cdu-Csu, il partito del cancelliere, si riunisse a Berlino per confermare il gran rifiuto alle riforme Macron per l’eurozona, affermando che «l’obiettivo della politica europea della Germania è sempre stata quella di preservare gli interessi tedeschi».
Irrituale la tempistica del messaggio, come la brutalità volutamente acclarata del suo contenuto: uno sgarbo a Parigi impensabile solo pochi anni fa. Tanto più alla vigilia dell’incontro Merkel-Macron di domani a Berlino.
Nonostante le nubi che si stagliano sul suo orizzonte interno ed europeo e malgrado la solitudine del suo impegno riformista in un’Europa diffidente e riluttante, Macron non smette di martellare sul suo vangelo europeista, di farne lo strumento di lotta contro il pericolo dei nazionalismi ovunque in ascesa e la leva per riconciliare la nuova Europa con i suoi popoli in collera.
È vero che le sintonie franco-tedesche, che non ci sono, oggi sarebbero solo l’ingrediente necessario ma non sufficiente per ricostruire l’Europa dei 27 nel dopo Brexit. Ma è altrettanto vero che non più tardi di dieci giorni fa a Varsavia anche la Merkel ha enunciato il suo credo europeo: «L’Europa che mi sta a cuore è quella dei 27, non quella dell’euro o di gruppi e sottogruppi di Paesi». Altro messaggio esiziale per il macronismo d’assalto che teorizza l’Unione multi-speed.
Il suo autore comunque non demorde. Anzi insiste a remare controcorrente e ripete che «non esiste al mondo uno spazio monetario che funzioni con le costrizioni della moneta unica ma senza un bilancio comune che garantisca investimenti, convergenza e stabilità contro gli shock. L’euro invece ha strumenti di responsabilità ma manca di quelli di solidarietà».
Di qui l’insistenza per dargli nuove strutture politiche ed economiche, un bilancio, un parlamento e, se non un ministro, una figura che gli assomigli: adottando entro il vertice di giugno, se non decisioni precise, almeno una tabella di marcia. Di qui l’invito a completare parallelamente l’unione bancaria. A varare un Fondo monetario europeo, uscendo dalla logica puramente intergovernativa in nome del controllo democratico e parlamentare. Un bilancio Ue pluriannuale più ricco e coerente.
Tutti argomenti più che ragionevoli che però per ora sbattono contro l’apparentemente irriducibile opposizione della Germania e della coalizione degli 8 Paesi del Nord, capeggiata dall’Olanda, contraria a qualsiasi riforma dell’euro per i costi nazionali che rischia di trascinarsi dietro.
Anche sulle altre sovranità europee che in un mondo instabile e incerto promuove come complemento di quelle nazionali, dalle politiche di sicurezza e difesa a quelle sociali, ambientali, commerciali e digitali, Macron incontro più riserve che entusiasmi tra i partner. Già, perché se in vista delle europee del 2019 il presidente francese punta alla fuga in avanti, i suoi interlocutori invece, Germania in testa, tirano il freno per non eccitare i malumori degli euroscettici.
Così, dopo la grande illusione di un rapido rilancio della costruzione europea grazie alla resurrezione politica di una Francia ringiovanita e ansiosa di agire, l’Europa rischia di reimpantanarsi nella solita e sterile strategia di galleggiamento sulle proprie insolute contraddizioni. Però il mondo non l’aspetta, la Siria è troppo vicina, l’America di Trump pretende, la Cina preme: anche la ridotta del preteso realismo ormai è un lusso proibito.

il manifesto 18.4.18
Il Fronte sconfitto, la pesante eredità di De Gasperi
1948. La paura del bolscevismo ateo ne riassumeva molte altre, alimentate dalle notizie dall’est Europa, mentre in Cecoslovacchia nasceva un governo dominato dai comunisti
di Fulvio Lorefice


In tema di sconfitte storiche, dopo quella del 4 marzo, oggi ne ricorre un’altra: quella del 18 aprile 1948. Socialisti e comunisti, nel Fronte Democratico Popolare, persero quasi 10 punti rispetto ai risultati dei due partiti alle elezioni per la Costituente.
Si attestarono al 31% consentendo alla Democrazia Cristiana di raggiungere il 48,4%. Per capire perché occorre fare un passo indietro.
Nella primavera precedente e più in particolare con le elezioni della prima assemblea regionale siciliana, avevano prevalso socialisti, comunisti e azionisti, raggruppati nel Blocco del Popolo. La decisione di De Gasperi di porre fine alla collaborazione governativa con comunisti e socialisti fu influenzata, infatti, non soltanto dal quadro internazionale segnato dall’avvento di Truman alla presidenza degli Stati uniti ma anche dalla minaccia, nitidamente avvertita in Sicilia, che, se un cambiamento di rotta non fosse intervenuto, un’altra formazione politica sarebbe potuta divenire riferimento dei settori più conservatori della borghesia italiana, insidiando quindi alla Dc la leadership dello schieramento delle forze moderate.
Le sinistre, di converso, consapevoli dello spessore raggiunto dalla loro iniziativa politica e della saldezza del legame instaurato con le masse popolari, avevano ipotizzato che la scelta di De Gasperi fosse temporanea, non si riteneva cioè plausibile che il partito cattolico avesse potuto procedere a lungo separatamente dalle forze del movimento operaio, individuando nella già sperimentata formula frontista la soluzione tattica maggiormente efficace. Il Fronte, nel raggruppare segmenti molto diversi della società civile – dalla Costituente della Terra, al Congresso del Popolo meridionale, passando per l’Alleanza per la Cultura e il Congresso dei Comuni – si proponeva, infatti, quale base di un futuro governo democratico-popolare.
La campagna elettorale ricalcò il conflitto ideale della guerra fredda, la contrapposizione assunse però i tratti della crociata religiosa: una volgarizzazione abilmente perseguita dalla Democrazia Cristiana e che costituì, come notò Calamandrei, una sua prima vittoria. La paura del bolscevismo ateo ne riassumeva in sé molte altre, alimentate dalle notizie che nel frattempo giungevano dai paesi dell’Europa dell’est e più in particolare dalla Cecoslovacchia dove una crisi politica governativa si era risolta con la costituzione di un governo dominato dai comunisti.
La situazione di apparente vantaggio delle sinistre nella contesa elettorale lasciò presto il passo al multiforme intervento della Chiesa cattolica e del governo degli Stati Uniti d’America. Esemplificativi furono gli inviti, a mezzo lettera attraverso schemi di testo preordinati, a non votare per il Fronte da parte di migliaia di emigrati oltreoceano, e le non velate minacce di ritorsioni economiche qualora avessero prevalso le sinistre cui era ricorso George Marshall, segretario di Stato americano nonché promotore dell’omonimo piano di aiuti per la ricostruzione post-bellica in Europa.
Benché la sconfitta del Fronte maturò in quella che si presumeva essere la sua roccaforte, ovvero le regioni del nord-ovest dove più forte era l’industrializzazione e maggiormente presenti operai e proletari urbani, il percorso di analisi e ricerca dei comunisti non si limitò a quest’ambito ma venne ampliato nella direzione dello studio di quei ceti medi, tecnici, piccoli e medi proprietari, cui invero era stato rivolto il programma politico. Ad eccezione di Emilia, Toscana e Umbria, le elezioni avevano sancito, infatti, il mancato sostegno di questi gruppi sociali alle sinistre.
Un’impostazione che avesse confinato la questione ai meri interessi economici immediati, sulla scorta di uno schematismo analitico, risultava insufficiente ove non preceduta e accompagnata da un esame delle forme in cui questi gruppi esprimevano una coscienza sociale. Da qui il tema del cattolicesimo e del suo predominio ideologico su ceti medi e mondo contadino.
Le elezioni del 18 aprile 1948, ha osservato Mario G. Rossi, «rispetto alla storica interruzione della continuità istituzionale e politica operata nel quinquennio 1943-47» rappresentarono pertanto «il tentativo, riuscito, di una normalizzazione, intesa, se non ad annullare il cambiamento, almeno a fissarlo sull’equilibrio più arretrato» garantendo «alle classi dominanti la possibilità di recuperare il massimo spazio consentito dalle pur nuove condizioni create dalla sconfitta storica delle forze reazionarie in Italia e in Europa».
Tale normalizzazione si tradusse, fra le altre cose, nel ritorno alla mezzadria, dopo la mobilitazione delle campagne suscitata dal decreto Gullo del 1944; in una «clericalizzazione» della società, sconosciuta alla stessa Italia liberale postunitaria; nell’indebolimento della democrazia a causa della conventio ad excludendum dei comunisti; nell’emarginazione di quei settori progressisti pur presenti nello schieramento cattolico.
Per lungo tempo, non a caso, sarebbero rimasti inattuati i più avanzati contenuti programmatici della Costituzione. Prendeva forma il cosiddetto «caso» italiano, nota ancora Rossi, «quel misto di crescita economica e di immobilismo politico, di dinamismo sociale e di fragilità istituzionale, considerato spesso in passato un’anomalia positiva, gravata sì da pesanti tare storiche, ma ricca anche di potenzialità inedite rispetto alle altre democrazie di più antica e consolidata tradizione».

Il Fatto 18.4.18
La fuga da Forza Italia in Molise anticipa il tracollo alle Regionali
Azzurri al minimo storico e la Lega in crescita (pure in Friuli): e domani B. torna a Campobasso all’inseguimento di Salvini
di Marco Palombi


“E in Friuli va anche peggio. Solo che il presidente non lo sa”. Più d’uno ormai, dentro Forza Italia, ritiene che il fu partitone berlusconiano si stia rapidamente dirigendo contro un muro all’insaputa dello stesso “proprietario”. La preoccupazione immediata sono le regionali di domenica prossima in Molise e di quella successiva in Friuli Venezia Giulia: in entrambe le regioni gli azzurri sarebbero, a stare ai sondaggi commissionati, assai sotto i voti racimolati alle Politiche. Se all’estremo nordest – visto pure il candidato del centrodestra, cioè il “salviniano” Fedriga – nessuno si stupirà di vedere la Lega sopra al 30% (partiva dal 25,8 del 4 marzo con FI al 10,6) e gli azzurri scendere ancora, è il piccolissimo ex feudo molisano la vera spia della dissoluzione del berlusconismo politico, tanto più che il fu Caimano, assai malconsigliato, ci è persino andato a fare campagna elettorale (e ci tornerà domani con 50 parlamentari, all’inseguimento di Salvini che ne porterà invece 80).
Gli elementi per la débâcle ci sono tutti, a partire dalla transumanza silenziosa di quadri politici verso altri lidi che continua persino in queste ore. Com’è noto, Berlusconi ha affidato Forza Italia in regione alla giovane e avvenente Annaelsa Tartaglione, neodeputata. La sua presa sul partito, però, non è delle più salde: l’accusa più recente, non del tutto campata in aria, è di aver riempito le liste per le regionali di ex dem sostenitori del governatore uscente Paolo Di Laura Frattura (che viene a sua volta da Forza Italia) e di aver lasciato proliferare nel centrodestra liste e listarelle di ex forzisti in appoggio al candidato Enzo Di Giacomo – sono 13 in totale – che alla fine prosciugheranno proprio il voto azzurro.
Gli esempi sono rivelatori: non solo sulla scheda c’è il movimento dell’ex governatore Michele Iorio, ma pure un partitino messo in piedi alla bisogna da un altro campione delle preferenze, Aldo Patriciello, che di lavoro fa l’europarlamentare di Forza Italia. E così da febbraio è iniziata la grande fuga, diventata esodo tra marzo e aprile: se n’è andato Giacomo Papa, responsabile nazionale di Forza Italia per i rapporti con la P.A. e già braccio destro in regione dell’ex commissaria Nunzia De Girolamo; via pure Adriano Iannacone, responsabile regionale “difensori del voto”, e un po’ di altri consiglieri comunali in entrambe le province. Alcuni tra quelli rimasti, peraltro, hanno firmato duri documenti contro Tartaglione e i vertici nazionali del partito.
Il risultato, secondo le previsioni della vigilia, si vedrà nelle urne. Il 4 marzo era finita così: 5 Stelle al 44,7% (favoritissimi anche oggi), centrodestra poco sotto al 30% con Forza Italia al 16,1 e la Lega all’8,6. Lunedì si potrebbe scoprire che le percentuali interne alla coalizione si sono rovesciate, forse peggio. Per questo è sorprendente vedere Berlusconi impegnarsi in campagna elettorale in regione: il Cavaliere autosospeso (dalla carica) non ha mai amato mettere la faccia sulle sconfitte, piuttosto sparire e poi dar la colpa al fatto che non c’era. Stavolta, invece, alla fine in Molise si fermerà per due volte dedicandosi ad attaccare i grillini e, soprattutto, l’alleato leghista. L’anziano leader però – isolato in un tramonto gestito da consiglieri, famigli e familiari – non sa che il suo partito nella regione non esiste quasi più e che per riempire la sala della sua cena elettorale a Campobasso è stato necessario “importare” qualche decina di partecipanti da regioni vicine: rischia di scoprirlo domenica notte, come la notte tra il 4 e il 5 marzo scoprì il sorpasso di Salvini.
A quel punto, bisognerà valutare l’effetto della cosa sugli equilibri nazionali: “Le regionali potranno avere un loro ruolo sul futuro governo per l’effetto psicologico che creeranno, anche se questo non è razionale”, dice Gaetano Quagliariello. E alla fine torneremo a dimenticarci del Molise. Michele Petraroia, una vita in Cgil e nella sinistra politica, vicepresidente della Regione in quest’ultima consiliatura, la mette così: “Nessuno avrebbe potuto immaginare che 2.100 anni dopo le devastazioni perpetrate da Silla nell’ultima guerra sannitica, questo lembo di un Sud nascosto anche a se stesso, si venisse a trovare al centro di una contesa politica capace di influenzare la nascita del primo governo della Terza Repubblica”. Davvero.

Corriere 18.4.18
Virzì in sezione dà la scossa al Pd 

E accusa Orfini: non fare il buttafuori
di Monica Guerzoni


Al circolo Ostiense anche Archibugi. Il regista: ma che c... avete combinato?
ROMA Sedici anni dopo l’urlo di Nanni Moretti in piazza Navona («Con questi dirigenti non vinceremo mai!»), un altro grande nome del cinema italiano fa irruzione nella travagliata vita del Partito democratico. È Paolo Virzì, il regista di film di successo come Ovosodo, La bella vita, Il capitale umano, La pazza gioia : «Sono venuto qui per fare l’esploratore e vi chiedo, ma che cazzo avete combinato a Roma?».
Al quartiere Ostiense, teatro di un’assemblea di circolo che sa di set cinematografico quanto di seduta di autocoscienza, si ride e si riflette sugli errori che hanno portato alla sconfitta più bruciante di sempre. Il segretario reggente Maurizio Martina prende umilmente appunti e, fra i tanti militanti dai capelli bianchi che affollano la sala, spunta il viso noto di Francesca Archibugi. Anche a lei è dedicato il tweet con cui il leader pro tempore ringrazierà a fine serata i due registi per «il confronto appassionato» su come rilanciare il Pd.
«Bel dibattito, Virzì è stato molto duro» commenta l’onorevole Patrizia Prestipino, che si è catapultata dalla Camera per non perdersi lo sfogatoio con l’ospite illustre. «Poiché gli haters mi hanno rinfacciato di fare i film grazie ai soldi del Pd — esordisce il regista livornese— ho detto “andiamolo a vedere, un circolo del Pd”».
Assediato da compagni ex pci ed ex ds Virzì picchia forte, rimprovera a Matteo Renzi la «torbida» defenestrazione del sindaco Ignazio Marino, sferza la «debole» opposizione dei dem a Virginia Raggi e li sprona a confrontarsi con i 5 Stelle sul loro stesso terreno: «Attenti a irridere, da sinistra, la democrazia diretta o il reddito di cittadinanza». E ce n’è anche per il presidente del Pd, che Virzì bacchetta per le ironie contro Carlo Calenda: «Scusa Orfini, non ci serve un buttafuori, non ci piace. Ci serve un buttadentro».
Tra una foto di Antonio Gramsci e un maxiposter di Enzo Foschi, il candidato al municipio, il regista livornese denuncia il «problema di vivibilità enorme» che sta soffrendo la Capitale e strappa ovazioni anche quando dice basta con termini come «renziani», «franceschiniani», «orlandiani». Proposta accolta. Martina promette che etichette e casacche «saranno abolite dal vocabolario del Pd perché è ora di cambiare linguaggio» e scherza su Virzì che «si è candidato segretario».
Per il regista «con il cuore a sinistra», che abita nel popolare quartiere della Garbatella, doveva essere il gran giorno dell’iscrizione al Pd. O almeno per questo Martina aveva invitato Virzì, il quale ammette di avere «abbastanza paura» di un governo a trazione leghista: «Mi iscrivo, mi piace salire sul carro degli sconfitti». Ma poi forse qualcosa è andato storto. «Virzì era ve nuto per prendere la tessera, a me però non risulta che l’abbia fatta — rivela un dirigente —. Speriamo che ritorni!».
Per Martina è il giorno delle tre proposte programmatiche «per ripartire» lanciate su Facebook (povertà, lavoro, famiglia), che molti hanno letto come un amo gettato ai 5 Stelle. «Sono per gli italiani, non per questo o quel partito», smentisce il ministro uscente dell’Agricoltura. Le minoranze apprezzano il tentativo del reggente di tirar fuori il Pd dall’immobilismo, i renziani invece non gradiscono né il merito né il metodo dell’iniziativa.
«Un governo con tutti dentro? Il tempo di aprire la fase due verrà quando sarà Matteo a deciderlo — avverte un fedelissimo del senatore di Scandicci —. Dopo che Di Maio e Salvini si saranno schiantati, vedremo».

Repubblica 18.4.18
Il dibattito a sinistra
Al circolo dem bussa Virzì I militanti: “Mai con Di Maio”
di Concetto Vecchio


ROMA Paolo Virzì racconta la seguente storia, mettendo piede nel circolo Pd dell’Ostiense: «Al bar sotto il mio ufficio, all’indomani delle elezioni, più d’uno diceva: “Ora m’iscrivo al partito”. Ho chiesto dove fosse la sede. Facce interrogative. Quindi l’amico mio ha alzato la voce, rivolgendosi al meccanico dall’altra parte della strada: “Roberto, ’ndo sta er Pd qua?” Manco lui lo sapeva». Il regista di Ferie d’agosto è venuto in sezione con «i miei dubbi» e un bloc notes fitto di appunti. Si iscrive? «Ma no. Sono venuto a litigare». Con lui il segretario reggente Maurizio Martina, che racconta com’è nato l’incontro: «Dopo la sua intervista a Concita De Gregorio su Repubblica l’ho chiamato e lui mi ha espresso l’intenzione di entrare in contatto con i militanti».
Viene fuori una serata che ricorda “La Cosa”, il film di Nanni Moretti sulla fine del Pci: sessanta iscritti stipati in cinquanta metri quadri che discutono per ore di politica. La botta del 4 marzo fa ancora male. Qui il Pd ha 370 iscritti in un municipio di 170mila abitanti.
Martina fa un discorso sulla necessità di uscire fisicamente dalle sezioni: «Voi ogni tanto bussate al piano di sopra?».
Risposta dalla sala: «Hai voglia.
Guarda la perdita sul tetto».
«State facendo scouting?» domanda Virzì, di fronte a una sala perlopiù anziana, ma il segretario ha 26 anni, Luca Bortolani, studente in medicina.
E il più applaudito sarà il segretario dei giovani, Flavio Conia, 25 anni, dottorando alla Sapienza: «Quando il mio iscritto più piccolo, che ha 16 anni, mi chiede cosa fa il Pd per cambiare il mondo, io non gli so rispondere. La nostra narrazione non funziona più». Conia è contrario al governo con i Cinquestelle: «Non c’è proprio spazio». E pure Bortolani. Un vecchio compagno, Vittorio Fiorito, 81 anni, «iscritto dal ‘68», che si scaglia contro il presidente del partito Matteo Orfini per avere cacciato l’ex sindaco Ignazio Marino, suscitando un enorme applauso, pure: «Siamo noi che dobbiamo imporre la linea al M5S». Contarissimi anche due militanti, Antonio Mergiotti, 80 anni, ex Dc e Ennio Giorgi, 81 anni, ex Pci: «Se le cose andassero bene, sarebbe merito dei Cinquestelle, in caso contrario sarebbe solo colpa nostra», dice Giorgi.
«M’iscrivo a parlare», dice Virzì, e si fa un gran silenzio. «Sono qua perché mi sono sempre piaciuti i perdenti. Però dovremmo abolire dal vocabolario tutte quelle definizioni delle correnti, renziani, franceschianiani, orlandiani». E poi, rivolto a Orfini che ha pestato Calenda, «servono buttadentro non buttafuori».
«Andrei a vedere le carte del M5S, al bluff si va a vedere, come dicono i miei amici che giocano a poker. Hanno vinto le elezioni con le bugie e le promesse, ma non si può irridere il reddito di cittadinanza. Ci sono pezzi di mondo in difficoltà, che quando gli si parla di un paese smart, si deprimono ancora di più. Il Pd ha perso le elezioni sugli immigrati, lì si è balbettato». E poi racconta la storia di Elliot, un immigrato che ogni giorno si presenta davanti al supermercato nei pressi via della Moletta, «dove ho il mio studio e che ho ribattezzato Piazza Virginia Raggi per l’incredibile quantità di immondizia che c’è. Elliot ha attraversato il deserto, è stato torturato, vive aiutando i vecchietti a portare la spesa a casa. E poi c’è mio suocero ad Acilia, che ha paura a ritirare la pensione perché deve fare lo slalom tra i tanti stranieri che stazionano lì. Sono due facce della stessa medaglia. Infine c’è mia figlia che va in terza elementare a San Saba, in una classe multiculturale. Questo è il futuro, ma senza trascurare le paure». «Abbiamo perso perché abbiamo dimenticato i bisogni della gente umile», quasi urla il militante Umberto Sposato. Voce dal fondo: «Io dopo 50 anni non ho votato». È arrivata anche Francesca Archibugi: «Che fare per il governo? Non credo alla sincerità dei vertici M5S, ma il loro popolo va ascoltato».
Martina prende appunti. «Virzì ha fatto un discorso da candidato segretario», dice.

La Stampa 18.4.18
Pd pronto a entrare in gioco per un governo con Fico
Anche i renziani valutano lo scenario di un esecutivo senza Di Maio Le tre condizioni di Martina per l’accordo, Orlando apprezza l’apertura
di Carlo Bertini


Non è solo il capo della sinistra Dem Andrea Orlando, a ipotizzare con i suoi uno scenario di accordo Pd-5Stelle una volta certificato il flop del centrodestra. Anche nella maggioranza renziana se ne parla al riparo dai riflettori. «E poi, se dopo la certificazione del fallimento di centrodestra e grillini, con l’Italia da due mesi senza governo, spuntasse un incarico a Fico, o a una personalità d’area, noi andremmo a vedere le carte. Tutti, Pd unito». Così dice uno dei big del partito. Certo, quando si parla di scenari con chi segue le trattative delicate, la richiesta di anonimato è prassi, così come la smentita è preannunciata su ogni ipotesi che possa suonare troppo prematura. O azzardata, magari buttata lì pure perché produrrebbe l’effetto di spaccare il mondo grillino. Di certo spaccherebbe anche i Dem: a sentire Orlando, arrivare ad un accordo del genere non sarebbe cosa facile, poiché non è dato sapere se lo reggerebbe la componente renziana. Basta sentire cosa ne dice Orfini per capire che sarebbe difficile far digerire questo scenario. Preso in considerazione però nei colloqui dello stato maggiore del Nazareno. Ma facendo attenzione a non dargli alcuna pubblicità.
Perché per arrivare al traguardo analizzato come ipotesi del terzo tipo, (incunearsi nelle contraddizioni dei grillini e poi arrivare a fare anche un governo con loro, potendo staccare la spina in ogni momento) i vari passaggi preliminari devono compiersi sotto gli occhi degli italiani: e squadernare una via subordinata, pure se impervia, non agevola il perseguimento dell’obiettivo di far vedere al paese che i vincitori, centrodestra e 5Stelle, sono incapaci di formare un governo. Questo è il motivo per cui su un eventuale accordo con i grillini, gli argomenti contro si sprecano e quelli a favore non si percepiscono. Insomma le voci ufficiali negano, quelle ufficiose - ma molto ben informate - no. Anzi, inseriscono un accordo di governo tra il Pd e M5S, senza Di Maio premier, tra i tre scenari di cui si discetta nelle stanze che contano.
Gli altri due sono quello di un governo di centrodestra, che verrà esperito forse dalla Casellati: esecutivo cui i boatos di Palazzo riservano poche speranze, anche se qualcuno non esclude che possa beneficiare di voti sparsi qui e là, pure in casa Dem, per poter partire; e quello di un «governo con tutti dentro», giudicato però assai debole, per il rischio di naufragare al primo stormir di fronda: basterebbe una sola forza politica a sfilarsi per far cadere tutto l’impianto.
Ma ieri qualcosa ha cominciato a muoversi sull’asse Pd-M5S. Il primo segnale captato forte dai radar è stato lanciato da Roberto Fico, che ha dato ragione al Pd sulla riforma carceraria, mettendosi contro i suoi che volevano mandarla in soffitta insieme ai leghisti.
Il secondo segnale è arrivato da Martina ed è suonato come musica soave alle orecchie di Orlando e dei «governisti». Il “reggente” ha messo nero su bianco tre punti centrali di programma - povertà, lavoro e famiglie - benedetti dai capigruppo pentastellati come buona base di partenza. Ma sono un’apertura ai 5Stelle? «Questo chiedetelo a Martina», ha reagito polemico un guardiano dell’ortodossia come il capogruppo Andrea Marcucci. Svelando il grado di fiducia che corre tra le parti. Durezza che fa il paio con quella del presidente del Pd, Matteo Orfini. Convinto che il «tentativo della Casellati andrà a vuoto» e che quello di Fico aprirebbe «un caos tra i grillini», ma vedrebbe il Pd sempre schierato sul no grazie. Perché se si votasse di nuovo, sarebbero grillini e centrodestra a «pagare il prezzo maggiore, scontando il loro fallimento».
Fatto sta che Orlando, bastona Di Maio, «democristiano alla Forlani, quello delle domande incisive e delle risposte evasive». Ma tende una mano ai grillini. Interpellato poi sullo stato dei rapporti tra Pd e M5S, nota infatti che «piano piano sta maturando una posizione meno intransigente di quella che diceva “guardiamo coi popcorn quel che fanno gli altri”». Insomma, le acque si muovono.

Repubblica 18.4.18
l dibattito sul futuro del Pd/1
Ripartiamo da legalità e libertà
di Carlo Lucarelli e Marco Raccagna


Caro direttore, per il Partito democratico e la sinistra italiana la ferita del 4 marzo è ancora vivissima. Non sottovalutiamo l’importanza del dibattito in corso sul chi e come dovrebbe formare un governo per l’Italia e su quale dovrebbe essere in tutto ciò il ruolo del Pd, tuttavia, ci interessa di più contribuire da subito ad avviare anche pubblicamente una ricostruzione di senso, culturale, sociale, identitaria, del più grande partito della sinistra italiana.
Iniziando da dove? Dal dizionario del Pd, dalle parole, che se facciamo attenzione poi ci definiscono e fanno comprendere a chi ci ascolta chi siamo e cosa vogliamo. Sì, perché noi pensiamo che una delle cause della sconfitta stia proprio lì. Nell’aver smarrito nel tempo la capacità di avere parole precise per descrivere la realtà in modo adeguato e comprensibile a tutti, nel non essere stati magari capaci di inventarne di nuove o nell’aver preso scorciatoie, utilizzando parole di altri. E a poco a poco la realtà spesso è scomparsa. Lost, ci siamo persi non in un’isola, ma nel “virtuale”, e non siamo più stati credibili. Pioveva e noi uscivamo in maglietta, c’era il sole e aprivamo l’ombrello. E dopo dieci anni di crisi le persone hanno voltato la testa da un’altra parte.
Ricominciamo allora da qui. Dal dizionario. Perché nelle parole c’è una radicalità, una nettezza che alla sinistra occorre come l’ossigeno da respirare. Ricominciamo da una ricostruzione identitaria, senza dibattiti interminabili e autoreferenziali, ma con quella serietà e con quel rigore che crediamo siano dovuti a chi ha votato i democratici e a coloro che potrebbero farlo in futuro.
Ricominciamo da parole difficili. Legalità e libertà, che non sono in alcun modo confondibili con sicurezza e ordine. Una persona si sente davvero libera quando sente di non essere in pericolo e percepisce la stessa sensazione per i suoi cari e per i suoi beni.
È partendo da qui che il Pd, prima con qualche timidezza e poi sempre con maggior coraggio, ha iniziato a usare la parola sicurezza con fin troppa disinvoltura, cercando di sdoganarla come parola di sinistra e accompagnandola di volta in volta con qualche aggettivo, come la sicurezza urbana, sulla quale ci limitiamo a sottolineare che dotare, per esempio, un viale di lampioni e panchine adeguate e magari di qualche ristoro privato significa semplicemente rendere più bello un pezzo di città. Renderlo più libero e pieno di vita, in una parola. E non ordinato. Se un bambino ci gioca a palla in quel viale e spacca un vetro che si fa? Leviamo lampioni e panchine?
Abbiamo preso una scorciatoia, abbiamo usato le parole dei nostri avversari, quelli che in queste ore vogliono dare un’arma a tutti per poter sparare ai ladri. Abbiamo sbagliato. Legalità e libertà. Sono la legalità e il rispetto della legge che permettono a tutti di sentirsi liberi e non in pericolo, senza distinzione di situazione economica, culturale, di sesso, di provenienza. È questo che si dovrebbe contrapporre a chi ha in testa per esempio di scimmiottare la legislazione americana riguardo l’uso delle armi in Italia. Ed è questo che ha precise conseguenze anche sul piano pratico. Perché è evidente che oggi questo in Italia non è del tutto garantito.
C’è un lavoro enorme da fare nel nostro Paese sulla certezza della pena, che quando è evanescente rischia di rendere non credibile la legge, con conseguenze sociali e culturali pericolose. Ci sono investimenti cospicui da fare sulle forze dell’ordine, sia in termini di risorse umane che economico- tecnologiche. Ci sono i Comuni, che devono modificare e rafforzare il lavoro dei corpi di polizia municipale. Ci sono, insomma, risposte concrete e precise, risposte che funzionano perché vanno a colpire le vere cause delle nostre paure. Perché la paura si ascolta. Non la si insegue, o peggio ancora si crea. Si ascolta, si analizza, si capisce. E si risolve.

Repubblica 18.4.18
Il dibattito sul futuro del Pd/2
L’economia tradita dalla sinistra
di Vincenzo Visco


Caro direttore, la crisi della sinistra è evidente nei Paesi occidentali. La seconda metà del XX secolo è stata l’epoca della sinistra, egemone sul piano culturale e per quanto riguarda le strategie economiche. Il compromesso keynesiano ( o socialdemocratico) aveva creato sistemi economici “misti” caratterizzati da una crescita sostenuta, piena occupazione, Welfare State, redistribuzione del reddito, riconoscimento del ruolo dei sindacati e dei corpi intermedi, internazionalizzazione delle economie sotto controllo degli Stati, programmazione economica, controllo della politica sull’economia.
La sinistra, quindi, aveva di fatto realizzato pressoché tutto quello per cui aveva combattuto per oltre un secolo ed era pronta a entrare in crisi per “eccesso di successo”, come puntualmente avvenne: inflazione galoppante, strapotere sindacale, negazione delle compatibilità economiche, burocratizzazione, corruzione politica, rigidità operative, ecc. provocarono una reazione che riuscì a capovolgere negli anni ’ 80 i paradigmi fondamentali del patto socialdemocratico-keynesiano.
La sinistra viene quindi contestata e travolta in tutte le sue credenze fondamentali, e si ripropone un’epoca di neo-liberismo senza regole, molto simile a quella che aveva preceduto la grande crisi del 1929. E non è un caso che una crisi analoga si sia poi verificata nel 2007-2008. I partiti della sinistra sono in qualche modo costretti a prendere atto della sconfitta, ma invece di considerarla temporanea e recuperabile, la interpretano come definitiva, accettando con poche correzioni tutte le “nuove” ricette economiche basate su individualismo degli operatori economici, riduzione ossessiva dei salari, pareggio dei bilanci pubblici, indipendenza delle banche centrali, disinteresse per le condizioni di vita dei lavoratori, ridimensionamento del Welfare. In altre parole, si riconosceva che il liberismo era non solo moderno, ma “di sinistra”.
Ciò non era vero, e quindi si è perso il contatto con la base sociale di riferimento, che si è sentita abbandonata, non più rappresentata e difesa, e si è allora rivolta a nuovi soggetti politici che contestano radicalmente l’establishment. È quindi necessario, preliminarmente, che la sinistra recuperi la propria identità, diversa e antagonista rispetto agli interessi che il liberismo rappresenta.
Per quanto riguarda l’Italia, il Pd è nato in ritardo, frutto della convergenza di interessi di ceti politici di diversa tradizione culturale, ma di orientamento genericamente progressista. Ne è venuto fuori un partito condizionato da mediazioni perenni e reciproche diffidenze — con incarichi lottizzati, l’apparizione di “ signori delle tessere” e cacicchi locali intoccabili — segnato spesso da episodi di corruzione, ispirato a un moderatismo di principio, impegnato a realizzare alleanze improbabili se non impresentabili, che ha via via abbandonato le periferie, i luoghi di lavoro, l’abitudine ad ascoltare le persone in difficoltà e di immaginare soluzioni a loro favorevoli. L’equivoco su cui si è fondato, e si fonda tuttora il Pd, va dunque sciolto.
Analoga valutazione va fatta per l’attività di governo. È sorprendente come, pure dopo i risultati elettorali, il gruppo dirigente del Pd e i ministri continuino a sostenere, in totale buona fede, che il lavoro del governo sia stato eccellente. Così non è. Il bilancio è positivo per quanto riguarda i diritti civili, ma molto scadente per l’azione economica. L’economia resta caratterizzata da crescita stentata, molto più bassa di quella degli altri Paesi, produttività stagnante, investimenti insufficienti perfino a compensare l’ammortamento del capitale esistente (il cui stock si è ridotto nell’ultimo decennio) e ciò nonostante generosissimi incentivi. La disoccupazione è elevatissima e l’occupazione precaria. I redditi sono bassi, le diseguaglianze in crescita e le speranze per il futuro inesistenti.
Ciò deriva in buona misura dalle (errate) scelte di politica economica: in Europa si è andati dalla “piena condivisione” delle posizioni di Schaeuble (Padoan), alle polemiche infantili e inconcludenti di Renzi, senza promuovere un dibattito sull’austerità, abbandonando la Grecia al suo destino e limitandosi a chiedere flessibilità sprecata per concedere bonus, incentivi e riduzione di imposte per le imprese che non potevano avere effetto, causa carenza di domanda. Si è fatto affidamento su misure di flessibilità del mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica e riduzione delle tasse, senza rendersi conto che l’unica possibilità di rilancio dell’economia si basa, nelle condizioni attuali, su un massiccio programma pluriennale di investimenti pubblici. La crisi bancaria è stata gestita in modo autolesionistico per il Paese e per il partito. Si sono millantati risultati inesistenti di recupero di evasione e si è data l’impressione di non combattere adeguatamente la corruzione e le mafie. Non si sono stanziate risorse sufficienti per il Rei, lasciando campo libero alla propaganda sul reddito di cittadinanza dei 5S che non è poi così diverso.
Si potrebbe continuare. Ma se si vuole affrontare un dibattito a sinistra, pur ai fini di una sua ricomposizione e di un recupero elettorale, è dal dibattito su tali questioni che bisognerebbe partire. Altrimenti la sinistra rinascerà al di fuori delle organizzazioni e delle forme tradizionali.

La Stampa 18.4.18
L’applauso incrociato alle Camere avvicina Pd e Cinque Stelle
Il tetto atlantico potrebbe rappresentare la casa comune
di Fabio Martini

All’ora del crepuscolo, nell’ovattata aula di palazzo Madama, il dibattito sulla Siria sta proseguendo con una modalità davvero originale: ognuno si fa i fatti suoi. Quando parla il rappresentante di un gruppo, alla fine lo applaudono soltanto i suoi sodali e quando parlano gli altri, nessuno disturba o interrompe. È andata così alla Camera dopo le comunicazioni del presidente del Consiglio e sta proseguendo con le stesse cadenze al Senato: un Parlamento cloroformizzato. Ma proprio alla fine il rito viene interrotto da parole apparentemente semplici ma non banali. Sta parlando Danilo Toninelli, presidente dei senatori dei Cinque stelle, una delle poche voci che pesano nel movimento: «Ringrazio il presidente Gentiloni Silveri per avere informato le Camere, come richiesto e sollecito lei, presidente, e tutto il Governo a fornire costanti aggiornamenti sugli sviluppi in corso». E poi la chiusa: «L’Italia ha urgentemente bisogno di un nuovo Governo, forte anche sul piano internazionale». Appena Toninelli finisce di parlare scatta l’applauso dei suoi ma anche dell’ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano
Quelle di Toninelli sono state parole politicamente e sostanzialmente garbate e, se raffrontate al passato, inusuali in bocca a un rappresentante dei Cinque stelle. Parole che corrispondono anche all’unica, vera indicazione politica affiorata nella discussione sui bombardamenti in Siria: M5S, Pd e presidente del Consiglio hanno espresso posizioni quasi identiche, sicuramente le più vicine tra loro rispetto a quelle degli altri gruppi. Se sia un segnale verso una futura e futuribile alleanza di governo, è presto per dirlo. Ma una cosa è certa: il sovranismo di Giorgia Meloni, la simpatia per i russi di Valentino Valentini per Forza Italia, le rampogne dei leghisti verso l’attacco al territorio siriani - ricostituendo un minimo comun denominatore nel centrodestra - hanno fatto risaltare la “confluenza” Pd-M5S.
Nell’aula di Montecitorio aveva aperto il dibattito il presidente del Consiglio, che proprio all’inizio del suo intervento si è trovato a registrare la prima sorpresa. Diceva Gentiloni: «Non possiamo accettare che si torni, un secolo dopo la fine della Grande Guerra, all’uso e alla legittimazione dell’uso delle armi chimiche. Non possiamo accettarlo!». E qui la sorpresa: si è alzato un applauso, oltreché dai banchi del Pd, anche da quelli dei Cinque stelle. E da nessun’altra parte.
Ma la convergenza più significativa è stata sulla sostanza. Nel doppio intervento, a Camera e Senato, il presidente del Consiglio ha fatto lo stesso discorso: l’Italia sta da più di 60 anni dentro un sistema di alleanze strategiche, che corrispondono a valori politici e culturali, ma questo non ha mai significato rinunciare a margini di autonomia, capaci di valorizzare l’interesse nazionale senza penalizzare quelli atlantici. E Toninelli ha replicato: «L’Italia deve giocare un ruolo di mediazione tra i due blocchi. Gli Usa sono il principale alleato, ma consideriamo la Russia un importante interlocutore per la stabilizzazione delle aree di crisi». E parafrasando Gentiloni, ha chiosato: «Mediazione e dialogo sono l’unico modo per risolvere i conflitti».

Repubblica 18.4.18
Democrat e M5s più convenienza che convergenza
di Stefano Folli


Lo scoop del Foglio sui Cinque Stelle che cambiano i programmi a seconda della convenienza può avere conseguenze imprevedibili. Nel senso che testimonia il trasformismo del movimento fondato da Grillo e oggi gestito da Di Maio. Un trasformismo volto alla conquista della “stanza dei bottoni”, unica carta che il candidato premier può spendere per consolidare il suo potere all’interno di un partito/non-partito tutt’altro che coeso sulla strategia filo-governativa. Tuttavia la coperta è sempre troppo corta. Nel momento in cui i Cinque Stelle accettano da un’ora all’altra il pacchetto completo (Nato, Unione Europea, moneta unica), secondo la dichiarazione di Di Maio dopo il colloquio con Mattarella, essi compiono un passo avanti verso l’area del governo, ma al tempo stesso creano una lacerazione con chi li ha votati in base ad altri presupposti, primo fra tutti il culto della Rete, l’infallibilità del web. Con ogni probabilità è uno scotto da pagare; ma occorre adesso intravedere un punto d’approdo, altrimenti la sigla votata dal 32,5 per cento degli elettori si troverà in mezzo al classico guado: troppo lontana da entrambe le rive e annaspante. Non è un caso se da qualche giorno, un passo dopo l’altro, Di Maio e i suoi amici guardano verso il Pd. E certo non è casuale se anche il vertice del Pd, pur fra mille cautele, ricambia questi primi segnali senza l’intransigenza delle scorse settimane. Per ora non si capisce con esattezza su cosa dovrebbe avvenire un’eventuale convergenza, dato che i temi suggeriti da Martina (lotta alla povertà, lavoro, famiglia) sembrano ancora generici. Eppure s’intuisce la reciproca convenienza. I Cinque Stelle devono gettare in fretta le ancore in un porto, tanto più dopo le giravolte sulla politica estera; e il Pd ha bisogno di uscire in qualche modo dal vicolo cieco dell’opposizione pregiudiziale a qualsiasi governo. Detto questo, il cammino è ancora lungo. L’intervento di Gentiloni in Parlamento sulla crisi siriana e le armi chimiche ha confermato la distanza fra le forze che hanno prevalso il 4 marzo. I Cinque Stelle, nel solco della conversione di cui abbiamo detto, condividono nella sostanza la posizione del presidente del Consiglio (in cui c’è la condanna dell’illusione “sovranista”). La Lega ovviamente è critica, sia pure senza toni oltranzisti, e condanna la “russofobia”. È evidente che la divaricazione è tale da rendere impensabile — e non da ieri — un esecutivo Di Maio-Salvini. Se è vero che esistono ormai due Europe in tensione fra loro, parole del presidente francese Macron a Strasburgo, si deve riconoscere che la frattura attraversa la politica italiana come mai in passato. L’Europa di Orban e quella di Visegrad, da un lato, e quella classica, fondata sull’asse franco-tedesco, dall’altra. Salvini con il primo fronte; M5S, Pd e Forza Italia con il secondo. Solo che il vecchio motore Berlino-Parigi perde molti colpi. E il rischio è che il vuoto di potere in Italia venga usato per scaricare sull’inconcludenza di Roma la responsabilità della paralisi. Certo, i Cinque Stelle, con l’entusiasmo dei neofiti, ieri hanno applaudito Macron che parlava di «sovranità europea». Fanno ogni sforzo per rendersi accettabili. Ma il sentiero verso un’intesa M5S-Pd resta a dir poco accidentato. Dovrà avere un carattere istituzionale e non potrà tradursi in una vera maggioranza politica anche perché i numeri parlamentari sono insufficienti. Il lavoro di Mattarella per certi aspetti è appena agli inizi.

Repubblica 18.4.18
Il timore del passo indietro
Di Maio senza sbocchi chiede aiuto a Casaleggio. A Fico applausi dal Pd
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Sono due gli scenari che Luigi Di Maio proprio non vuole immaginare, ma che si ritrova davanti ogni volta che si ferma a pensare: e ora? Il primo prevede la sua uscita di scena come candidato premier per far partire un governo col Pd. Il secondo vede il presidente della Camera Roberto Fico che riceve un mandato da esploratore dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e trova i numeri per trasformarlo in un incarico pieno. Il capo politico M5S ieri mattina aveva dettato la linea convinto: «Salvini ha ancora 24 ore di tempo, poi addio. E vada come vada». I richiami nei confronti del Carroccio perché abbandoni Forza Italia sono continuati negli ultimi giorni attraverso gli intermediari. Ma l’esito, a ieri notte, era ancora negativo. A pranzo, nell’ora che ha dedicato a Davide Casaleggio dietro il riservato paravento del Caffè Illy, il deputato ha informato il manager dello stallo in atto. Di come con la Lega non si veda via d’uscita. Di quanto lo schema iniziale, quello che «per far partire il Parlamento» aveva funzionato così bene, si sia incagliato sullo scoglio più grande: la guida di Palazzo Chigi. «Forse Salvini ha davvero paura che Berlusconi gli faccia fare la fine di Fini o di Alfano», rifletteva in un Transatlantico affollato per il dibattito sulla Siria l’ex esponente del direttorio Carla Ruocco. Tra i parlamentari del Movimento lo scetticismo nei confronti del Partito democratico resta alto. E la paura delle armi non convenzionali che potrebbe tirar fuori Silvio Berlusconi comincia a esprimersi: «Salvatore Caiata diceva di voler restar fedele a noi?», chiede poco fuori dall’aula Carlo Sibilia. «Andate a domandarglielo adesso, guardate come si sta muovendo il presidente del Potenza calcio...».
Che i tentativi di reclutamento di nuovi “responsabili” possano portare sessanta deputati nella pancia del centrodestra è dato per improbabile. Ma ieri, per la prima volta da oltre un mese, Di Maio non ha fatto nulla per celare il suo nervosismo. Si è precipitato in aula, inusualmente senza cravatta, rifiutandosi di rispondere a qualsiasi domanda.
Ha ascoltato in silenzio l’intervento sulla Siria. Poi ha dribblato i cronisti per partire verso il Molise. Comizio elettorale a Montenero di Bisaccia. E una frase che suona come l’anticamera di una rinuncia: «L’importante è fare un governo fatto bene, che cambi le cose, altrimenti non ne vale la pena».
Eppure ieri qualcosa si è mosso. La proposta del segretario pd Maurizio Martina di parlare di temi a partire da «povertà, famiglia, lavoro» è subito accolta dai capigruppo M5S come un’«iniziativa utile». Soprattutto, il presidente della Camera Roberto Fico — che schiva qualsiasi domanda politica fingendo di non sentirla — ha conquistato con una sola mossa il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro e il deputato Francesco Boccia. In pratica, mezzo pd, dopo aver chiesto — in conferenza dei capigruppo — che si faccia «un supplemento di riflessione sulla possibilità di esaminare il decreto legislativo che attua la riforma delle carceri» dopo il richiamo del garante dei detenuti. Si tratta di norme che rischiano di scadere e contro cui la Lega si è battuta con tutte le sue forze, appoggiata dal ministro della Giustizia in pectore dei 5 stelle, il fedelissimo di Di Maio Alfonso Bonafede.
Le affinità elettive tra la terza carica dello Stato e il centrosinistra non sono notizia di ieri. Ma i vertici del Movimento negano preoccupazioni: «Fico sta facendo quel che voleva davvero grazie a Di Maio e non gli farebbe agguati. È irrealistico pensare che possa diventare premier al posto suo». Dopo il prevedibile fallimento della possibile incaricata di oggi, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, però, Mattarella non avrà molte opzioni: una volta sondato il centrodestra, potrebbe dare un preincarico a Di Maio.
Oppure cercare un nome terzo, a partire da quello del presidente della Camera. A quel punto il capo politico del Movimento dovrà scegliere se rischiare, accettando l’incarico senza avere in mano un patto già chiuso. O se abbandonare il campo e la stessa idea di diventare premier. Quello che spera, è che Mattarella gli ponga davanti quella scelta il più tardi possibile.

Repubblica 18.4.18
Ronde e periferie così è nato il fascioleghismo
La mutazione genetica del Carroccio per sedurre l’Italia di estrema destra
di Paolo Berizzi


Il mio viaggio nell’Italia che si è riscoperta fascista racconta la permeabilità del nostro Paese. È la stessa permeabilità che ha favorito l’ascesa e il successo elettorale, lo scorso 4 marzo 2018, del leader politico che più di tutti usa sovranismo e xenofobia come strumenti di propaganda: Matteo Salvini. Con lui la Lega si è trasformata in un ricettacolo di idee un tempo inconciliabili: dalle istanze autonomiste e secessioniste, al nazionalismo identitario e antieuropeista, fino al fascioleghismo.
Grazie a questo cambio di pelle il nuovo Carroccio è riuscito a fare l’en plein alle ultime elezioni.
Un’affermazione arrivata dopo anni di “vicinanza” a CasaPound e, più recentemente, ai neofascisti hammerskin di Lealtà Azione. La Lega ha aspirato come un’idrovora i voti dell’ultradestra spezzandone (per ora) ogni illusione di entrare alla Camera.
Salvini è stato il Grande Traghettatore, il taxi sul quale è salita l’Italia nera. Quei voti li ha cercati a lungo, e se li è presi (...) Per capire il “quando” e il “chi” di questa “svolta” fascioleghista bisogna andare al giugno 2014: ad Anzio si tiene un summit neofascista. L’organizzatore è Stefano Delle Chiaie, il “signore” di Avanguardia Nazionale (“er caccola”, negli ambienti dell’eversione). Si festeggia l’anniversario di fondazione di Avanguardia, nata il 25 aprile 1960 e sciolta nel ’76 per tentata ricostituzione del partito fascista (grazie alla vecchia Legge Scelba) (...) All’incontro di Anzio c’è un ospite importante la cui presenza aiuta a capire meglio questa storia: l’europarlamentare leghista Mario Borghezio. Una delle sue ultime dichiarazioni è stata: «Hitler ha fatto molte ottime cose, purtroppo sono poco conosciute». Assieme a Borghezio e a Delle Chiaie ci sono altri tre vecchi fasci: Gabriele Adinolfi (fondatore di Terza Posizione e cofondatore di CasaPound), Bruno Di Luia (ex Avanguardia Nazionale) e Adriano Tilgher (presidente del Fronte Italiano). Sotto il drappo bianco rosso e nero della gioventù hitleriana — con il simbolo della runa — Borghezio si rivolge a Delle Chiaie: «E allora ti dico, comandante, è ora di dissotterrare l’ascia di guerra.
Perché quando un popolo sente il bisogno di una rivoluzione nazionale, noi abbiamo semplicemente il dovere di metterci alla guida di questa rivoluzione. Questo è un compito anche tuo». Poi il leghista che un tempo esclamava «Affanculo Roma», va al punto. «Oggi da parlamentare europeo giro di più Roma e mi accorgo che i romani amano nel profondo questa città. E quindi, perché non far breccia nel cuore dei romani e organizzare noi delle iniziative per difendere la grande bellezza di questa città, violentata schifosamente da quelli che l’hanno riempita di immigrati e di immondizia e illegalità diffusa? Se voi partite con iniziative di questo genere, io sarò con voi e alla prima ronda ci voglio essere».
C’è un’altra frase illuminante.
Rivela la strategia territoriale dell’estrema destra che nelle periferie inascoltate vuole occupare gli spazi lasciati vuoti dalla vecchia politica. Dice Borghezio: «Andiamo nei quartieri dove la gente si sente abbandonata. Andiamo la prima volta in venti, la seconda magari in trenta… In questo modo riacquistiamo una credibilità che oggi la sparizione dei politici dal territorio ci consente di conquistare molto facilmente».
Le ronde, dunque. Caso vuole che di lì a poco CasaPound inizi a organizzarle: all’inizio nei quartieri di Roma, poi nelle periferie di molte città italiane.
Sono le stesse ronde di Forza Nuova. Ronde neofasciste sul modello di quelle leghiste che andarono in scena, con scarsi successi, tra il 2009 e il 2010. Una sintesi tra vecchio e nuovo rondismo, che spiega la voglia di “ordine” della nuova Lega nazionale. E che è riassunta in una frase agghiacciante di Matteo Salvini: «Per l’immigrazione ci vuole una pulizia di massa. Una pulizia via per via, quartiere per quartiere» (...) Chiedo a Borghezio di spiegarmi la gestazione della saldatura tra leghismo ed estrema destra. Mi racconta: «È Salvini che mi ha mandato in missione a Roma per creare questo esperimento politico. E credo di avere portato dei frutti. Il primo manifesto “Prima gli italiani” (che diventerà lo slogan forte della nuova Lega, nda) è mio, l’ho coniato tre anni fa. All’inizio mi chiedevo: “Ma perché Salvini mi candida a Roma? Io che sono sempre stato un nordista secessionista… Che discorso politico posso fare io a Roma e nel centro Italia?” Invece Matteo ha avuto fiuto. Voleva intercettare un nuovo elettorato. E ci siamo riusciti. Anche al Sud.
Sì, chiamiamolo pure fascio-leghismo. Di questa operazione io mi attribuisco il 33% del merito. Il restante 66% è stata fortuna».
Borghezio riconosce di avere fatto da “facilitatore” nell’accordo con CasaPound Italia, che alle elezioni europee 2014 l’ha votato mandandolo di nuovo al Parlamento di Bruxelles. «Ci siamo trovati su un terreno comune. E su quel terreno abbiamo lavorato», dice.
«L’Italia sta perdendo la sua identità, sta andando in mano agli immigrati... Le nostre città sono popolate da potenziali delinquenti che arrivano da fuori. Basta. È ora di agire». (...) Incassati gli utili di un’operazione politicamente border line, la nuova Lega vira a destra assieme all’estrema destra. Mi dice ancora Borghezio: «La Lega è diventata un grande e solido partito nazionale. Un partito in grado di governare questo Paese. Io nelle periferie con CasaPound ci sono andato.
Ma non basta distribuire i pacchi di pasta per dire che fai politica.
Cose utili, per carità. Però quello è assistenzialismo di quartiere. A noi interessano progetti strutturati, fatti dalle istituzioni.
La Lega è per uno Stato sociale che aiuti i cittadini e le imprese...
Loro (CasaPound, nda) si definiscono “fascisti del terzo millennio”? Va bene. Ma il fascismo ha creato la tredicesima, le pensioni, mica dava i pacchi di pasta per strada».

Il Fatto 18.4.18
“Lo ammetto, neanche io so se Rossi è stato ucciso”
Antonino Monteleone - L’inviato de “Le Iene” ha indagato sulla morte dell’ex dirigente Mps ed evocato festini e ricatti: sospetti molti, prove poche
di Selvaggia Lucarelli


Chi ha letto libri e atti giudiziari sulla morte di David Rossi non può non accorgersi del fatto che Le Iene, nella serie di servizi sul caso (con un paio di scoop), hanno omesso sempre e con furbizia tutto quello che potesse indebolire la tesi del suicidio, tanto che oggi è tutto un fiorire di “l’hanno ammazzato”. Se il tema fosse rimasto “le indagini sono state fatte male” senza la seconda, fumosa costola dei festini, Le iene avrebbero fatto cosa buona e giusta, raccontare un’inchiesta della Procura di Siena fatta con i piedi. Chiedo qualche spiegazione all’autore dei servizi, Antonino Monteleone.
Leggendo il libro di Davide Vecchi e vedendo il documentario su Rossi di Bersaglio mobile, si nota che i tuoi servizi sono sbilanciati su una tesi che non è quella del suicidio.
Il mio convincimento non è mai stato definitivo.
Braccare i due amici di Rossi che per primi si avvicinarono al corpo, Filippone e Mingrone, e rimproverarli di freddezza non è un modo neutro di raccontare la vicenda.
Rivendico il diritto di dire che il linguaggio del corpo di Filippone e Mingrone mi fa impressione, ma ogni testa è un tribunale.
Salvatore Parolisi, assassino di sua moglie, piangeva.
Non seguo la cronaca nera.
Piangeva disperato.
Ok, il linguaggio non verbale non è indicativo, ma in un video il miglior amico di Rossi lo guarda, da morto, con distacco da medico legale. E non vuole aiutarci a ricostruire i fatti.
Ma uno può non aver voglia di parlare con voi e non essere sospettato?
Mai detto che sia colpevole di qualcosa.
Perché non dite che quel lampo, che per la difesa, sarebbe la caduta dell’orologio di Rossi successiva al suicidio, è simile ad altri 20 lampi nel video? Lo dice Zavattaro del Ris.
Concordo con Zavattaro, l’unico fatto strano legato all’orologio è il luogo di ritrovamento e che i soccorritori non l’avessero visto (Però la questione lampo/orologio è in tutti i servizi, ndr).
Non dite nulla dei tagli che si procurava da solo David Rossi sui polsi. Ne aveva parlato con la figlia Carolina: “il dolore alle volte serve a riportarti nella realtà”.
Non era fondamentale per sostenere che si possa essere suicidato.
L’autolesionismo mi pare importante in un quadro che ha a che fare con un suicidio.
Il fratello di David dice che la direzione dei tagli non è compatibile con la mano dello stesso corpo che se li procurava.
Aveva cerotti sui polsi, se glieli ha fatti un altro poi glieli ha medicati, strano.
Comunque abbiamo mandato in onda Carolina che parlava dell’autolesionismo nel primo servizio (Lo riguardo e riguardo anche gli altri filmati ma non se ne parla mai, ndr).
Che fine hanno fatto i vestiti di Rossi che tu dici “dissequestrati e mai analizzati”?
Non lo so (Dopo un’animata discussione ci ripensa).
Certo che lo so, tu lo sai?
Sì e mi chiedo perché sia sempre omesso nei servizi.
Metti in discussione la mia correttezza argomentativa?
Dove sono finiti i vestiti?
Infilati in una busta della Coop e messi nelle mani di Ranieri Rossi, fratello di David.
Parliamo di escort e festini: la tesi è che grazie a questi presunti festini con politici, magistrati e imprenditori, si sia creata un’alleanza tale da viziare le indagini e magari occultare un omicidio.
Queste cose falle tue, però non me le attribuire.
Allora dimmi tu a che scopo colleghi i festini a Rossi.
Perché una fonte qualificata e molto influente a Siena, l’ex sindaco Piccini, che ha lavorato per Mps con Rossi, ci ha suggerito di indagare su cosa accadesse nelle ville vicino Siena… un avvocato sua amica che ha il marito nei Servizi gli ha detto questa cosa.
Piccini però vi ha detto che sicuramente Rossi è stato ammazzato, ma in un suo libro del 2014 scrive che si buttò dalla finestra.
Sai, i politici… poi non è che siccome l’ha detto Piccini è vero. Forse nel 2014 sposò la tesi del suicidio pensando che fosse la più conveniente politicamente.
Magari ora che si vuole ricandidare gli serve sposare la tesi dell’omicidio.
Ma se mi ha fatto una telefonata dicendo che politicamente, secondo i sondaggi, lo abbiamo ucciso…
Lui vi aveva dato la pista dei festini ma non voleva esporsi: l’avete ripreso di nascosto.
A chi ci vuole usare gli dice sempre male.
L’incappucciata che parla dell’organizzatore dei festini è attendibile?
Quando usciamo da quell’intervista diciamo che quello che dice è così enorme che non vogliamo crederci.
Allora perché la mandate in onda?
Dopo l’intervista a Piccini ci sono arrivate decine di segnalazioni e abbiamo reso il senso di tutte queste dichiarazioni con un’intervista. Dopo diciamo che è lunare, fantasia.
Quindi avete mandato in onda una persona a cui non credete e la definite “ex funzionario”, termine generoso per un’ex vigilessa licenziata perché andava al mare anziché a lavorare, con decine di querele, hater di fama sul web. È stata denunciata pure da un amico di Rossi…
Mi stai chiedendo di rivelarti una fonte e non lo farò, ma non l’abbiamo presentata come autorevole.
Potevi cestinarla.
Mi sono fatto il culo per questa inchiesta e lo stesso culo me lo sto giocando. Se questa cosa conduce a esiti che demoliscono la mia credibilità, mi sono suicidato. Più io di David Rossi. Non ho l’ambizione di risolvere il caso, troppe prove sono andate perse. E non sono abituato ai giornalisti che intervistano giornalisti su quello che fanno.
Cane non morde cane?
Il mio approccio giornalistico ha basi solide, poi Le Iene dà spazio a linguaggi che offrono la possibilità di mettere un mio punto di vista, cosa che per un tg non avrei fatto.
David Rossi si è suicidato?
La verità? Non lo so.

Corriere 18.4.18
La strage dimenticata 45 anni dopo
Primavalle, il rogo e i depistaggi Così la sinistra perse l’innocenza
I due figli del «fascista Mattei» uccisi una seconda volta dalla campagna di veleni
di Pierluigi Battista


Oggi Stefano Mattei, arso vivo in un delitto politico che si consumò la notte del 16 aprile 1973, avrebbe 55 anni. Suo fratello Virgilio, invece, ne avrebbe 67. Morirono tutti e due nell’incendio che, appiccato da un manipolo di delinquenti politici, stava divorando la piccola casa popolare in cui vivevano con tutta la famiglia. Una fotografia scattata quella notte di esattamente quarantacinque anni fa, dalla strada ritrae Virgilio carbonizzato dalle ustioni, che cerca inutilmente di gettarsi dalla finestra. Nella foto non si vede invece il piccolo Stefano, che in quel momento se ne sta avvinghiato alle gambe del fratello grande che non era riuscito a salvarlo. Due morti vittime dell’odio politico. Due vittime dell’indifferenza con cui la cultura democratica e progressista aveva reagito all’assassinio così orrendo che aveva colpito dei ragazzi colpevoli solo di essere figli di un fascista.
La vicenda giudiziaria è stata lunga, complessa, ma ormai nessuno più dubita dell’identità dei responsabili. Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, militanti di Potere Operaio, sono stati condannati come esecutori materiali di quel delitto. Sono riparati all’estero anche grazie all’aiuto di una sinistra che, come Dario Fo e Franca Rame, è stata talmente trascinata dall’odio ideologico contraffatto con le parole dell’antifascismo da considerare veniale la morte di un bambino e di un ragazzo nel rogo di Primavalle, il luogo dove la giovane sinistra uscita dal Sessantotto perse la sua innocenza. La casa dove abitavano i fratelli Mattei, era un appartamento a Primavalle di appena 40 metri quadri, al terzo piano della Scala D, lotto 15, in uno dei più famosi quartieri proletari di Roma. Ci abitavano in otto in quella casa di 40 metri quadri del «fascista Mattei», che poi era Mario Mattei, segretario della sezione «Giarabub» del Movimento Sociale Italiano: i genitori e sei figli, Stefano, Virgilio, Giampaolo, Antonella, Lucia e Silvia.
Quella notte terribile, mentre tutta la famiglia dormiva, gli assassini si misero in fretta a cospargere di benzina il pianerottolo al terzo piano, davanti alla porta e a far filtrare il combustibile con un piano inclinato, lasciare l’innesco e scappare. Probabile che quel gesto criminale volesse essere un irresponsabile gesto dimostrativo, i rampolli della borghesia di sinistra romana forse non avevano nemmeno idea di cosa fosse una casa di appena 40 metri quadri abitata da otto persone. Fatto sta che l’innesco esplose, la benzina prese fuoco e in un battibaleno bruciò l’intero appartamento del «fascista Mattei», i mobili, i letti, l’armadio, i vestiti, persino i pigiami dei bambini. Mario e la moglie spaccarono i vetri delle finestre e aiutarono i ragazzi a buttarsi nel vuoto. Ce la fecero tutti, sia pur con ustioni e fratture. Tranne due: Virgilio, 22 anni, che si era attardato per salvare il fratellino, e appunto Stefano, 10 anni, bruciato vivo in quello che passerà alla storia come il «rogo di Primavalle».
Ma l’Italia non rimase sgomenta e interdetta per la fine così orribile di un bambino, il figlio di un fascista non meritevole di pietà e cordoglio sincero. Cominciò invece una campagna di disinformazione e di depistaggio, partita dall’estrema sinistra ma appoggiata dagli organi tradizionali della stampa e della televisione, per cancellare la vera matrice politica di quel misfatto.
Stefano e Virgilio furono uccisi una seconda volta da titoli oltraggiosi e insensati che servivano a colpevolizzare le vittime e a scagionare politicamente e materialmente i responsabili del delitto. Si urlò al «regolamento dei conti tra i neri», si delirava di una «faida tra fascisti», si farneticava di una «provocazione fascista che arriva al punto di uccidere i propri figli»: ma a queste farneticazioni vollero credere in tanti, purtroppo non solo nell’estremismo di sinistra, ma anche negli ambienti rispettabili dell’establishment antifascista. Si faceva pure dell’ironia sulla fiamma «assassina» che sarebbe stata una «fiamma tricolore», come il simbolo del Msi in cui militava il «fascista Mattei». Partirono i cortei con gli slogan per «Lollo libero». Il padre di uno dei tre indagati venne raggiunto da una lettera aperta scritta da alcuni dei più accreditati esponenti della sinistra in cui si suggeriva il blasfemo paragone tra il carcere in cui era rinchiuso il figlio e un campo di concentramento nazista.
Per questa velenosa campagna di disinformazione, di odio ideologico, di disprezzo per le vittime, di cinica indifferenza per la morte di un bambino bruciato vivo nessuno ha chiesto veramente scusa. E in quella assurda campagna di autoinnocentizzazione insincera davvero una parte della sinistra ha perduto la sua innocenza morale e politica. Sono passati quarantacinque anni e quella vicenda terribile è quasi dimenticata, derubricata a uno dei tanti episodi di cieca violenza politica degli anni Settanta. Ma fu molto peggio. E a distanza di tanto tempo facciamo ancora fatica a rendercene conto.

il manifesto 18.4.18
Virtuosi contrasti dentro un laboratorio sempre aperto
Futuro prossimo. «Marx e la follia del capitale», il nuovo libro di David Harvey per Feltrinelli. Limiti e incompletezza dell’opera marxiana come presupposto per una sua esplorazione attuale. La capacità innovativa che serve per ripensare la tensione tra produzione, distribuzione, consumo
di Benedetto Vecchi


Due secoli separano il presente dalla nascita di Karl Marx. E come ogni bicentenario che si rispetti, sono in preparazione convegni, seminari, pubblicazioni di saggi e monografie. Finora sono annunci di iniziative organizzate da comunità intellettuali non accademiche o di titoli o ristampe da parte di piccole e indipendenti case editrici, ma c’è da augurarsi che abbiano la capacità di porre le basi per una apertura non episodica o rituale di un laboratorio marxiano.
L’autore del Capitale non ha infatti goduto negli ultimi lustri di buona fama presso i grandi gruppi editoriali o presso le istituzioni culturali e c’è da augurarsi una qualche renaissance non effimera. D’altronde, non c’è proprio bisogno di una rilettura dell’opera marxiana privata di quella tensione alla trasformazione sociale interna che l’anima, come già proponeva Jacques Derrida negli Spettri di Marx, o come un teorico ante litteram della globalizzazione, secondo quanto va sostenendo da alcuni anni quell’agit-prop settimanale del liberismo che è l’Economist. Operazioni di normalizzazione culturale che stridono con la diffusione, lo scorso fine settimana, di una dichiarazione del presidente della Banca d’Inghilterra sul rischio di un ritorno politico in grande stile del pensiero marxiano se non verranno varati provvedimenti per attenuare le disuguaglianze sociali e la povertà dovute alla disoccupazione presente e prossima ventura dovute all’automazione dei processi lavorativi. La disoccupazione tecnologica e la crisi sono stati due temi ampiamente analizzati da Marx sin dalla prima stesura di quell’introduzione alla Critica dell’economia politica dove illustrava un ambizioso progetto di ricerca di un ’analisi scientifica del Capitale.
Per gran parte della sua vita, tuttavia, Marx scrisse molto, ma pochi, in rapporto ai materiali lasciati in eredità, sono stati i libri «finiti». La montagna di appunti stilati per chiarirsi le idee, per circostanziare le sue critiche al capitalismo attendono ancora di essere sistematizzati. È toccato a Engels mettere ordine in una parte di quei materiali, magari per pubblicarli in un secondo momento, come è accaduto al secondo e terzo libro del Capitale. Che l’opera marxiana sia da ritenere un’opera aperta ne erano e ne sono convinti molti marxisti. Ne è consapevole anche David Harvey, che apre il nuovo libro pubblicato da Feltrinelli, Marx e la follia del capitale (pp. 240, euro 22), mettendo in rilievo le contraddizioni presenti nell’opera marxiana, considerandole indicazioni di percorsi da intraprendere; segnali cioè di una ricchezza analitica che fanno della critica marxiana dell’economia politica un elemento indispensabile nell’analisi del presente e delle possibilità di trasformare l’esistente.
Coglie il punto Harvey quando scrive che in Marx non c’è una teoria dello stato come regolatore dei processi di valorizzazione, che è assente una teoria marxiana del prelievo fiscale, delle politiche di sostegno alla domanda, delle istituzioni pubbliche come strumento della governance tesa alla riproduzione sociale. Non sottacere i limiti e l’incompletezza dell’opera di Marx è l’unico modo per mettere nuovamente al lavoro la sua critica all’economia politica.
Nella sua rilettura, Harvey si è avvalso delle discussioni avute con studiosi conosciuti all’interno dei suoi interessi disciplinari – la geografia – e dei suoi campi di studio, come è stata l’urbanistica o l’economia mondiale. Le sue riflessioni sono state arricchite dal diritto alla città di Henri Lefebvre, dalla critica al postmoderno di Frederic Jameson, dall’economia mondo di Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein. Ha fatto inoltre tesoro degli «studi culturali» e delle genealogie di Michel Foucault sul neoliberismo. Ne ha tratto materiale buono da condensare in una serie di lezioni introduttive al libro I e II del Capitale che una volta «postate» in Rete sono diventate uno dei successi del web in termini di materiale scaricato o di vision on line.
Per svelare l’arcano del capitale, Harvey propone di considerarlo come una totalità che ha subito interventi e mutamenti propedeutici a rendere fluida l’interdipendenza tra produzione, distribuzione e consumo. Una fluidità cercata nell’aggirare i limiti e vincoli costituiti dalle differenze dello spazio e del tempo nei quali ognuno dei tre momenti si esplica.
È noto che la produzione non è più concentrata in un solo luogo, ma disseminata nel pianeta. Le distanze tra nuclei produttivi vanno dunque annullate sincronizzando le differenze temporali affinché i frammenti vengano ricomposti in una unità dotata di logica e dove la produzione di plusvalore sia resa possibile. Si può produrre un manufatto tra il Laos, la Germania, il Brasile e la Spagna, ma poi i suoi componenti vanno assemblati e dunque spostati da diversi luoghi che hanno un orologio diversificato. Da qui l’importanza della logistica sia per sincronizzare i nodi della rete produttiva, ma anche per far giungere al mercato o al consumatore finale le merci.
Il sistema di macchine messo in campo sia nella produzione che nella distribuzione e nel consumo non serve quindi solo ad aumentare la produttività individuale e sociale, ma va considerato come una vera e propria tecnologia organizzativa per sincronizzare e potenzialmente annullare tanto le differenze spaziali che temporali. Ovvio che l’organizzazione produttiva si avvalga di droni, intelligenza artificiale, di reti telematiche, di smartphone e dispositivi che rendono possibile stabilire l’esatta posizione di un manufatto dalla sua produzione all’assemblaggio con altri manufatti e dal prodotto finito alla sua destinazione finale. E che abbia bisogno di tanto sudore: quello dei camionisti, dei facchini, dei riders che consegnano le merci.
L’immagine che meglio illustra il funzionamento della produzione di merci è un flusso che deve scorrere senza strozzature o barriere, pena il blocco del processo di valorizzazione. Ma se l’analisi si fermasse qui, scrive Harvey, la critica dell’economia politica rimarrebbe bloccata al I libro del Capitale. Ogni innovazione teorica è quindi benvenuta per completare quel II libro e III libro. Harvey affronta così il tema del capitale fittizio (il denaro dato in prestito per finanziare la produzione ma soprattutto per ricavare profitti dovuti agli interessi maturati), della finanza, ma soprattutto delle sacche inoperose del capitale: ambito, questo, di conflitti sociali che possono mettere in discussione il capitalismo. I servizi sociali, la sanità, la casa, la mobilità, la formazione, la ricerca scientifica, il consumo critico hanno costituito le sacche inoperose del capitale ma sono stati gli ambiti dove si sono manifestati conflitti sociali aspri, continuativi nel tempo e nello spazio, proprio quando la lotta di classe negli atelier della produzione sembrava un ricordo del passato. Allo stesso tempo, anche la riproduzione sociale del capitalismo (cioè il lavoro di cura di donne e uomini), le attività autogestite, le comunità autonome, gli spazi occupati, le comuni agricole, le lotte per la riqualificazione produttiva delle metropoli e dell’ambiente fanno parte di quell’antivalore che stride con le logiche mercantili dominanti nel capitalismo.
Per gestire la follia del capitale occorre dunque, questo il messaggio nella bottiglia di Harvey, politicizzare questi ambiti che attengono alla realizzazione monetaria del valore o alla riproduzione sociale. Senza cadere in una paralizzante visione nichilista dove il capitalismo è visto come un moloch o una totalità che non lascia margini di manovra, i temi affrontati da Harvey possono tuttavia essere letti anche come gli ambiti dove i processi di valorizzazione prevedono una rimessa in discussione da parte capitalista della separazione tra lavoro produttivo e improduttivo e dove la finanza, più che dimensione parassitaria, acquisisce il ruolo di governance del processo di valorizzazione.
È nel ripensare la tensione tra produzione, distribuzione e consumo che il laboratorio marxiano può manifestare la sua capacità innovativa. Fa bene David Harvey a soffermarsi sugli aspetti meno indagati dell’opera di Marx, ma il sentiero di ricerca che indica – tutto rimane invariato, conta solo di colmare le lacune della teoria – è però quello già ampiamente battuto proprio dalla tradizione marxista dalla quale l’autore prospettava una presa di distanza indispensabile per non diventare prigionieri del già noto. Non si tratta di rompere con la tradizione, ma di cercare di far entrare nel laboratorio marxiano l’intelligenza, la creatività, il desiderio di una vita in comune che vengono mantenuti latenti nel capitalismo.
Quel che serve è farli irrompere nel trittico che compone il regime di accumulazione, evitando le trappole di una governance interessate solo a mantenere costante e senza barriere il flusso ordinato di produzione e consumo.

Repubblica 18.4.18
Quelle vite filmate tra i libri
Arriva in sala il 23, 24 e 25 aprile “Ex libris” di Wiseman sulla biblioteca di New York
di Natalia Aspesi


Questo documentario, se possibile, bisognerebbe proprio vederlo: dura tre ore e 17 minuti, pare troppo (però c’è chi passa l’intera domenica a guardare tutte le puntate di una fiction) e racconta di un luogo che forse molti ritengono antiquato e non gli verrebbe mai in mente di frequentarlo; una biblioteca. Ma Ex Libris (in sala 23, 24 e 25 aprile) non porta solo nello splendore di uno dei luoghi più celebri al mondo, la New York Public Library; ma racconta una città sconosciuta, una New York inedita, i tanti quartieri, le comunità di diverso colore e religione, le strade scintillanti di vetrine e quelle sommerse dalla spazzatura, i suoi intellettuali, i suoi diseredati, i ricchi, gli abbandonati, gli studiosi, i vecchi e i bambini e gli studenti.
I responsabili dell’istituzione, che si riuniscono per programmare il futuro, ottenere denaro pubblico e naturalmente privato, dare il web a tutti, attrezzarsi al più presto oltre la banda larga che è già obsoleta; riuscire, in uno degli ultimi luoghi di accanita democrazia culturale, ad aiutare chi non sa a sapere, chi sa a sapere meglio, chi non ce la fa a farcela, chi non avrebbe futuro ad averlo.
L’autore del film è, per chi lo conosce, il grande Frederick Wiseman, una quarantina di documentari in 50 anni, che, avendo 88 anni, viene descritto come un miracolato: ancora vivo e ragionante! E molto democratico, forse anche troppo e in modo un po’ antico, da tempi migliori, in un presente trumpiano e leghista e assadiano ecc. in cui prevalgono ignoranza, indifferenza, discriminazione. Il suo modo di filmare è avvincente: non sa nulla del luogo in cui va a girare (in altri film un ospedale per psicopatici criminali, un laboratorio di esperimenti sulle scimmie e molto altro), e per Ex Libris si è piazzato in varie sedi della biblioteca, aspettando che succedesse qualcosa, casualmente, senza sapere cosa, senza parlare prima con nessuno, senza costruire una storia, senza mai intervenire, né con la voce né con la sua immagine, senza mai sentirsi dire di no, senza intervistare, solo osservando ciò che accadeva davanti a lui. Girando per 12 settimane, ore ed ore di un film interminabile, ridotto poi alla lunghezza attuale. Sin dalle prime immagini si prova un’emozione inaspettata, un senso di partecipazione, di condivisione, di scoperta: tra i passanti della Quinta Strada che fotografano il maestoso palazzo del 1911, con gradinate e colonne e leoni di marmo, dedicata adesso a un finanziatore che nel 2008 regalò all’istituzione 100 milioni di dollari in un solo colpo.
Lì, ma anche nelle altre 92 sedi metropolitane (ne ha filmate 12) può esserci la conferenza di uno scienziato che esalta il pensiero laico, Elvis Costello con cappello e la sua autobiografia ben in vista, che ricorda la sua vecchia canzone antiThatcher, un giovane storico di colore che spiega come la religione islamica non abbia mai appoggiato lo schiavismo, come invece sostengono altri studiosi. Patti Smith dai lunghi capelli bianchi spettinati racconta di sé, un giovane professore illustra una sua ricerca sul simbolismo fallico del pastrami tra gli ebrei americani di seconda generazione. E i libri? Ce ne sono ovviamente milioni, di tutto il mondo e anche antichi: li danno in prestito e per gli acquisti gli amministratori discutono di best seller e testi di ricerca, di cartaceo e di ebook, di diritti del popolo e degli studiosi, ma bisogna anche rincorrere chi non li restituisce. A un servizio telefonico rispondono gentilissimi: no, la Bibbia Gutenberg al momento non è disponibile, sì l’unicorno è una invenzione del XIII secolo, mi scusi ma cerco di tradurre dall’inglese medioevale. Ecco i saloni di lettura, ognuno davanti a un computer in cerca di risposte ai loro bisogni: scorrono sugli schermi giornali del primo Novecento, consigli medici, fotografie di moda, romanzi attuali, c’è chi scorre montagne di vere fotografie o incisioni dal 1915, divise secondo i nomi e le situazioni; cane, cane che salta, cane che morde, cagnetti, cagnoni, cane che distrugge una palla. Wiseman, regia, sonoro, montaggio, tutto curato da lui, si sposta nelle sedi di Harlem, del Bronx, di Lower e Mid Manhattan, di Staten Island; un mondo di neri, di asiatici, di povertà, abbandono, vecchiaia, ma anche bambini piccoli, allegri e già abili col web. In queste Public Library di quartiere si decantano la vita del pompiere o dell’infermiera per offrire lavoro, si insegna ai ciechi l’uso del Braille e si prestano audiolibri, le anziane ritrovano gioia imparando l’uso del pc per fare ricerche sui loro parenti. Durante i concertini, la pianista, il quartetto, offrono musica contemporanea, e il poeta legge le sue opere a ritmo metal, e tanti, al riparo dalla strada, si addormentano. La grandezza di Wiseman è nel rispetto con cui si sofferma sulle facce: belle ragazze nere dalle pettinature stravaganti, vecchie nere assopite in carrozzella, disoccupati neri disperati, nere colte che denunciano i testi scolastici che sorvolano sullo schiavismo, o incantano con un profondo paragone tra Marx e Lincoln. Non sappiamo i nomi di chi vediamo, neppure delle signore ingioiellate che partecipano alle cene di fundraising; non ce ne è bisogno, perché qui non conta l’individuo, la celebrità, il potente, il nessuno, ma il luogo, il sapere, l’umanità, l’impegno, la speranza, o l’illusione, di una vita migliore per tutti. Gli amministratori della Public Library si chiedono, democraticamente, come rispettare i diritti di tutti, dei tanti homeless che trovano rifugio nelle varie sedi con il loro carico di desolazione, e chi è lì per sapere, studiare creare e può sentirsi distratto, oppresso da quelle presenze di eterna marginalità.
Questo meraviglioso Wiseman non esagera mai, non vuole commuovere, neanche far sentire vagamente in colpa, né giudicare, né fare la morale: mostra ciò che non si vede o non si vuole vedere, ricorda il valore della cultura, la necessità di conservare il passato e quella di impegnarsi nell’eliminare quell’esclusione che invece si sta diffondendo.
Sarebbe semplicemente democrazia, ma chi si ricorda più cosa sia davvero?

Corriere 18.4.18
«I comizi con mio papà Alcide e quel 18 aprile del 1948 Con Togliatti parlava di Dante ma poi lui gli tolse il saluto»
di Aldo Cazzullo


Maria Romana De Gasperi ha davanti un foglietto con un elenco di città italiane. A 95 anni, ha avuto il riguardo per i lettori del Corriere di dedicare una giornata a ricostruire le tappe della campagna elettorale del padre. Lei era al suo fianco, come primogenita e come assistente. «Il primo comizio fu a Roma, il 16 febbraio 1948, alla basilica di Massenzio. Poi andammo a Lecce, Taranto, Ancona, Torino, Catanzaro, Cosenza, Brescia, Bologna, Mantova, Varese, Caserta, Frosinone, Cassino, Cagliari, Sassari, Nuoro, Trento, Vicenza, Bolzano, Pescara, Pisa, Imperia, Genova, Savona, Milano, Palermo, Caltanissetta, Enna, Catania. Papà chiuse la campagna venerdì 16 aprile a Napoli, in piazza del Plebiscito» .
Che ricordo ha del 18 aprile di settant’anni fa?
«Andammo a messa in piazza San Pietro. Nulla di solenne. Allora l’immensa chiesa era sempre aperta, non c’erano metal detector; ogni quarto d’ora suonava una campanella e usciva un prete a celebrare davanti a uno dei tanti altari, anche per pochi fedeli. Poi andammo a comprare le paste. Una a testa, come sempre: per me, la mamma, le mie sorelle Lucia, Cecilia e Paola, e zia Marcella, la sorella di papà che non aveva più nessuno e viveva con noi» .
De Gasperi pensava di vincere?
«Sì; ma non così tanto. Commentò: “Mi aspettavo che piovesse, non che grandinasse”» .
Le testimonianze però lo raccontano come il meno entusiasta tra i capi Dc.
«È vero. Tutti erano euforici, io tirai fuori le bandiere. Lui invece era preoccupato. Sapeva che avrebbe dovuto fare molto con poco. Ma aveva una grande fiducia nel popolo italiano» .
Fu una svolta.
«Una svolta morale. Gli italiani si sentirono più sicuri. Capirono che potevano lavorare nella fiducia e nella libertà, e ricostruire il Paese» .
I comunisti lo chiamavano austriacante.
«Questo lo faceva soffrire moltissimo. Mio padre si sentiva profondamente italiano. Amava la patria a maggior ragione perché era nato suddito dell’imperatore asburgico. Da Roma mandava a Trento cartoline piene di ammirazione per la città, la sua storia, la sua bellezza» .
Scrissero che aveva gioito per l’impiccagione di Cesare Battisti.
«I comunisti ripresero le vecchie calunnie dei fascisti. Quella lo indignò particolarmente, perché papà era stato due settimane con Cesare Battisti nelle carceri austriache. Insieme si erano battuti per istituire un’università italiana» .
Chi era Alcide De Gasperi?
«Un intellettuale. Dalla prigione scriveva lettere in latino. Quand’era presidente del Consiglio, la sera per rilassarsi leggeva le egloghe di Virgilio e l’ Anabasi di Senofonte in greco. Durante il fascismo lavorava il mattino in Vaticano come bibliotecario, e il pomeriggio per arrotondare traduceva testi in tedesco, che parlava come l’italiano. Papà dettava ad alta voce, mamma batteva a macchina, e noi dovevamo mettere le pantofole per non far rumore» .
In famiglia com’era?
«Dolcissimo. Adorava le canzoni di montagna, faceva il capocoro, dirigeva noi figlie e i nostri amici. Quando combinavamo qualcosa, mia madre ci diceva: “Lo dico a papà!”. E noi eravamo contente perché sapevamo che non ci avrebbe fatto nulla».
Maria Romana è un nome lungo. Come la chiamava?
«Mana. Io mi occupavo di lui, e lui di me. Durante il viaggio in America del ’47 cominciai a parlare in inglese con un signore. Papà mi mandò un bigliettino: “Attenta a ciò che dici perché è quello della bomba atomica”. Era Enrico Fermi» .
Cosa ricorda di quella storica visita?
«Un viaggio terrificante, su un piccolo aereo, uno Skywalker, che volava basso, radente alle nubi. Facemmo un primo scalo per rifornirci, poi in vista delle coste americane dovemmo tornare indietro e fare un secondo rifornimento su un’isola. Ma lui era tranquillissimo. Era un rocciatore, scalava le Dolomiti con le corde e i chiodi. Non conosceva la paura fisica. Come quella volta sull’auto che stava precipitando…» .
Come andò?
«Eravamo in Valsugana. Lui era da solo, seduto dietro. Il freno a mano non era tirato bene, e la macchina prese a muoversi verso il precipizio. Il vetro che separava i passeggeri dal posto di guida gli impediva di intervenire. Per fortuna un uomo della scorta riuscì a balzare dentro e a salvarlo. Papà non si scompose: “Tanto non avrei saputo che fare, sapete che non ho la patente…”» .
Come fu la campagna elettorale?
«Trovavamo piazze gremite come questa (la signora De Gasperi indica una foto di piazza del Popolo strapiena di tricolori e bandiere bianche della Dc, ndA ). Molto calore, più al Sud che al Nord. Ma non era folla plaudente. La gente lo interpellava. Molti avevano cartelli con domande: “Perché ha fatto questo?”. Papà rispondeva e il cartello si abbassava. Lui del resto aborriva il populismo, che considerava retaggio del fascismo» .
Del Duce cosa diceva?
«Non ne parlava mai. Solo una volta in Liguria, davanti a un assalto di sostenitori che picchiavano le mani sul vetro per invitarlo a fermarsi, mi disse: “Ora comprendo Mussolini. È difficile capire se lo fanno perché sei il capo, o perché hai fatto qualcosa di buono”. Credeva che la vanità fosse un’insidia per un politico» .
E del regime cosa pensava?
«Ne aveva un’opinione pessima. Teneva un quadernetto in cui annotava tutte le cose negative, che lo facevano soffrire: i cattolici che inalberavano i simboli fascisti, i sacerdoti che benedivano i gagliardetti. Somatizzava il dolore e infatti aveva sempre problemi di stomaco, stava male, mangiava solo in bianco. Non so come abbia poi trovato l’energia per fare quel che ha fatto» .
Con Togliatti che rapporto aveva?
«Quand’erano al governo insieme concordavano una decisione, e il giorno dopo l’Unità attaccava mio padre. Dopo il 18 aprile Togliatti gli tolse il saluto. Poi ripresero a parlarsi: avevano interessi in comune, ad esempio amavano molto Dante; ma per mesi quando lo incrociava alla buvette Togliatti faceva finta di non vederlo, girava la faccia dall’altra parte» .
E con Nenni?
«Avevano un rapporto più umano; del resto, Nenni stesso era più umano. E poi erano stati nascosti insieme in un convento a San Giovanni, nella Roma occupata. Un giorno vennero i nazisti, loro si rifugiarono in cantina, e Nenni disse a papà: “Tu la chiami Provvidenza, io Fato; in ogni caso oggi noi due siamo spacciati”. Invece non li trovarono. Quando mio padre seppe che la figlia di Nenni era morta in campo di concentramento, volle andare di persona a dargli la terribile notizia».
E con Pio XII?
«Può sembrare incredibile, ma quando era presidente del Consiglio non lo vide mai. Del resto il Papa allora era inavvicinabile, non si nominava neppure, lo chiamavano la Persona. Mio padre gli scriveva una nota quando riteneva servisse l’intervento dei movimenti cattolici, senza ricevere né attendere risposte» .
Ma disse no quando il Pontefice tentò di imporgli un’alleanza con i missini alle amministrative di Roma.
«Papà considerava la religione un fatto personale. Credeva alla laicità della politica. Ed era convinto che la Dc avrebbe vinto lo stesso, come infatti accadde. Ma quando poi chiese un’udienza per i trent’anni di matrimonio, e per far benedire mia sorella Lucia che si era fatta suora, Pio XII rifiutò» .
Il 18 aprile la mobilitazione della Chiesa fu decisiva.
«Ma mio padre non diede ascolto a chi sosteneva che la Dc dovesse governare da sola. Non solo parte della Chiesa, anche Dossetti e la sinistra erano su quella linea. Lui però sapeva che molti avevano votato Dc non perché fossero democristiani, ma per paura dei comunisti. E voleva allargare il consenso, ad esempio alla base operaia dei socialisti di Saragat» .
Perché scelse Andreotti come sottosegretario?
«L’unico posto dove trovare giovani non irreggimentati dal fascismo erano le associazioni cattoliche. Da studente Andreotti era andato a chiedergli materiale per la sua tesi sulla marina pontificia, e lui si era sorpreso: «Non potrebbe trovare un argomento più interessante?». Poi si erano rivisti in una riunione carbonara di cattolici, dove ci si preparava alla fine del regime» .
Qual è il suo giudizio su Andreotti?
«Non mi faccia parlare di una persona che non c’è più».
Le elezioni del 1948 furono condizionate anche dagli americani.
«Mio padre si batté per l’indipendenza e nello stesso tempo coltivò il rapporto con l’America, perché si viveva nella miseria più nera. Era un’Italia in cui i poliziotti non avevano scarpe: aspettavano a piedi nudi in caserma che rientrassero i commilitoni per calzare le loro. Davanti al Viminale, allora sede della presidenza del Consiglio, c’erano operai che scavavano e riempivano buche: erano lavori inventati per pagare qualche stipendio» .
Com’era il rapporto di De Gasperi con il denaro?
«Per il denaro aveva un disinteresse assoluto. Lo stipendio lo portava alla mamma, che gli dava l’ argent de poche per i giornali e i sigari. Il Viminale era un porto di mare: arrivava di continuo gente a chiedere qualcosa, e spesso finivano da me. C’era un piccolo prete che passava tutti i giorni. Finalmente riuscì a fermare papà: aveva raccolto una comunità di orfani di guerra, gli serviva aiuto» .
E suo padre?
«Gli uscieri volevano mandarlo via. Lui disse che non poteva disporre dei soldi dello Stato, ma tirò fuori l’assegno dello stipendio e glielo girò. Poi mi guardò e chiese: “E ora chi lo dice alla mamma?”» .
E lei quanto guadagnava?
«Niente».
Come niente?
«Mio padre riteneva che in famiglia non potesse esserci più di uno stipendio pubblico. Così mi passava qualcosa del suo» .
Morì nel 1954, un anno dopo aver lasciato Palazzo Chigi .
«Verso la fine stava già molto male. Se doveva tenere un discorso, il giorno prima doveva stare a letto. Poi crollò di colpo» .
La bara fu portata dal Trentino a Roma in treno tra due ali di folla inginocchiata.
«Noi non ce la facemmo a seguirlo. Ricordo il funerale. La salma era nella chiesa del Gesù. Corso Vittorio Emanuele nereggiava di folla. Gli italiani gli erano riconoscenti per aver ristabilito la dignità nazionale» .
Il suo testamento morale è considerato il discorso alla Conferenza di pace di Parigi.
«Di solito si cita l’incipit».
Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto tranne la vostra personale cortesia è contro di me…
«Rappresentava un Paese che aveva fatto la guerra accanto a Hitler, e l’aveva persa. Ma io trovo più significativo il finale di quel discorso, là dove dice ai rappresentanti delle democrazie: “Vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia; un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano”. Era questo lo spirito del nostro Paese, settant’anni fa» .

il cortometraggio «La lotta» di Marco Bellocchio
il manifesto 18.4.18
Un’edizione di «passaggio» nel cinquantennale del ’68
Cinema. Stefano Savona, Ciro Guerra, Gaspar Noè, il cortometraggio «La lotta» di Marco Bellocchio. Il programma della Quinzaine des Réalisateurs 2018
di Cristina Piccino


La festa per i cinquant’anni è già cominciata qualche settimana fa, con una rassegna di film alla Cinématheque di Parigi, ieri Edouard Waintrop ha annunciato il programma di un’edizione che segna anche il passaggio di «consegne» tra la sua direzione artistica e quella di Paolo Moretti, delegato per la sezione prestigiosamente parallela dal prossimo 2019.
E se il sessantotto da cui è nata la Quinzaine des Realisateurs dialoga in modo quasi esplicito con la presenza di Marco Bellocchio tra i cortometraggi (in prima mondiale La lotta), la selezione sembra puntare, come sempre, a un insieme di registi e di opere che affermano più tendenze e diversi sguardi di cinema e sul mondo.
Il cinema italiano è presente, oltreché con Bellocchio, con due film, La strada dei Samouni, che è il nuovo film (infine!) di Stefano Savona, palermitano ma da molti anni a Parigi assecondando la sua indole di viaggiatore-esploratore (all’origine è un archeologo). La storia di una famiglia, i Samouni del titolo, che con l’attacco israeliano a Gaza nel 2009 – l’operazione «Piombo fuso» – ha perduto tutto, e ora deve ricostruire un presente (e un futuro) dalle macerie, fisiche ma soprattutto emotive.
Senza dimenticare, come la piccola Amal, gli alberi su cui coi fratelli giocava a arrampicarsi. E, come film di chiusura, Troppa grazia di Gianni Zanasi, sulla carta commedia del presente con un cast perfettamente sintonizzato col cinema italiano – Mastandrea, Rohrwacher, Battiston…
L’inaugurazione è affidata invece a Pajaros de Verano (Uccelli di Passaggio) di Ciro Guerra (il regista del molto premiato e nominato agli Oscar, la prima volta di un film colombiano con L’abbraccio del serpente, visto sempre alla Quinzaine) e Cristina Gallego, un western nella Colombia degli anni Settanta parlato in lingua wayuunaiki, che segue le vicende di una famiglia di contadini coinvolta nel traffico di marjiuana.
Tra gli altri titoli Climax di Gaspar Noé, Leave No Trace di Debra Granik, Amin di Philippe Faucon.

Repubblica 18.4.18
La Quinzaine
Bellocchio, Zanasi, Savona l’Italia a Cannes tra nazisti commedie folli e cartoon
di Arianna Finos


ROMA Alla Quinzaine des Réalisateurs c’è la guerra ai nazisti del corto La lotta, firmato da Marco Bellocchio, e quella di Gaza sospesa tra realtà e animazione nel film di La strada dei Samouni di Stefano Savona (con le animazioni di Simone Massi). È invece una battaglia per la bellezza paesaggistica quella di Alba Rohrwacher in Troppa grazia di Gianni Zanasi che chiude la sezione del Festival di Cannes (9-19 maggio). I tre titoli si affiancano a quelli della selezione ufficiale: Dogman di Matteo Garrone, Lazzaro felice di Alice Rohrwacher ed Euforia di Valeria Golino ( Un certain regard).
Stefano Savona, documentarista premiato ( Piombo fuso e Tahrir Liberation Square), al telefono da Parigi spiega che l’invito alla Quinzaine è già il riconoscimento « a un lavoro durato sette anni.
Volevamo un film per tutti, Cannes è il luogo perfetto».
Una storia, la sua, scelta «non sulla carta: sono andato a Gaza nel 2009 quando ho girato Piombo fuso, diario dei giorni di guerra.
Il giorno dopo la fine del conflitto ho conosciuto queste persone e la loro storia tragica, unica, speciale». Lo sterminio della famiglia Samouni, a cui sono sopravvissuti la giovane Amal e i suoi fratelli. Nel film dialogano le immagini dal vivo e quelle animate: «Le animazioni sono il racconto di Amal, disegnato nella lavagna della sua memoria.
Sogni e ricordi di persone che non ci sono più. Abbiamo digitalizzato i volti in 3D e ricostruito il quartiere: un lavoro utilizzato come base per i disegni di Massi».
È lontano il 3D di Valzer con Bashir, «i disegni qui sono pastelli grattati. I fogli sono grattati uno a uno come i protagonisti devono rigrattare nella memoria per far venir fuori il passato. La tecnica di Massi fa sì che ogni fotogramma sia strappato al buio, all’oblio.
È una storia di eroismo e sopravvivenza, racconta di una bambina che è sopravvissuta e non era affatto detto». Impossibile portare la giovane Amal a Cannes? «Non ci illudiamo. Ma lavoriamo per proiettare il film a Gaza».
Marco Bellocchio ha scritto e diretto La lotta, corto ambientato nella Seconda Guerra Mondiale (fotografia di Daniele Ciprì, musica di Nicola Piovani).
La storia si apre sul fiume Trebbia in una giornata d’estate. Sulla riva opposta, in lontananza, una pattuglia di soldati nazisti, le armi in pugno, sono all’inseguimento di qualcuno. Tonino è il fuggiasco, un partigiano al quale non resta che tuffarsi nel fiume...
Un fiume che però lo riporterà alla sua vita reale.
Il terzo film, Troppa grazia di Zanasi, è stato definito dal direttore della Quinzaine Edouard Waintrop «una commedia folle».
Racconta della geometra Alba Rohrwacher, incaricata dal Comune di un controllo su un terreno dove sorgerà una grande opera architettonica: scoprirà che le mappe comunali sono state manipolate per nascondere rischi geologici. Decide di tacere per non perdere il lavoro, ma da quel momento viene “perseguitata” da quella che le sembra una giovane “profuga”: “Vai dagli uomini e di’ loro di costruire una chiesa là dove ti sono apparsa...”. Per Zanasi è «emozionante tornare alla Quinzaine dove ho esordito».

Il Fatto 18.4.18
Un bancario impiega 3 vite per guadagnare quanto un banchiere

Un ad di banche italiane può guadagnare oltre 100 volte lo stipendio medio di un bancario del suo gruppo, che deve così lavorare tre vite per avere la stessa retribuzione annuale: è quel che emerge da uno studio del sindacato First Cisl. Per il segretario Giulio Romani ci vuole subito una legge. “Considerate le varie voci di remunerazione e il fair value delle azioni ricevute come incentivo – spiega il responsabile dell’Ufficio Studi di First Cisl, Riccardo Colombani – l’Ad di Intesa, Carlo Messina (in foto), ha incassato quasi 5,5 milioni di euro, che equivalgono allo stipendio medio annuo di 122 dipendenti del gruppo. L’Ad di Unicredit, Jean Pierre Mustier, è a meno della metà: 6.200 euro al giorno, inclusa la parte azionaria, per un totale di 2,3 milioni, pari a 53 salari medi del gruppo. Gli ad del Banco Bpm, Giuseppe Castagna, e di Ubi, Victor Massiah, hanno incassato rispettivamente 1,5 e 1,6 milioni di euro, mentre l’Ad del Monte dei Paschi, Marco Morelli, ha ricevuto 1,1 milioni, come lo stipendio di 22 dipendenti, il doppio rispetto al moltiplicatore di 10 retribuzioni imposto dalla Ue quando fu approvato il salvataggio della banca.