venerdì 13 aprile 2018

La Stampa 13.4.18
Germania, cori per Hitler e svastiche in caserma
Scandalo travolge l’esercito
Si indaga su 431 militari, ma crescono le denunce I soldati appartengono a gruppi di estrema destra
di Walter Rauhe


«Adesso ci facciamo vaccinare contro la febbre gialla e poi andiamo in Mali e spariamo ai negri fino a fargli saltare le teste». La conversazione telefonica fra due soldati della Bundeswehr è stata intercettata dagli agenti del Mad - i servizi segreti dell’esercito tedesco - pochi giorni prima della partenza delle reclute alla volta dell’Africa dove avrebbero dovuto prendere parte alla Missione internazionale di sostegno al Mali.
È solo uno dei tanti episodi di devianza xenofoba scoperti all’interno delle forze armate tedesche dal servizio di controspionaggio militare interno. Rispondendo a un’interpellanza parlamentare presentata dal partito della Die Linke, il Ministero della difesa ha confermato ieri l’avvio di ben 431 inchieste nei confronti di altrettanti soldati sospettati di appartenere a gruppi dell’estrema destra o di condividere le loro ideologie razziste, antisemite e totalitarie.
Un fenomeno in aumento visto che nell’arco di appena un anno il numero delle inchieste avviate dal Mad è aumentato di oltre il 50%. Svastiche disegnate sulle pareti delle caserme, inni nazisti cantati dai soldati nel corso di piccole feste, slogan che inneggiavano ad Adolf Hitler gridati durante marce d’addestramento, lugubri riti d’iniziazione di stampo razzista per le reclute. «I responsabili dell’esercito e il governo devono reagire con più determinazione contro simili episodi» esige la deputata della Die Linke, Ulla Jelpke. «L’esercito non può e non deve tollerare simili episodi».
Molti dei casi scoperti dal Mad sono stati poi denunciati alle procure che hanno provveduto all’avvio di inchieste formali. Solo in pochissimi casi tuttavia le indagini hanno portato a risultati concreti e all’allontanamento dei sospettati dall’esercito.
Secondo la Ministra della difesa Ursula von der Leyen (Cdu), il drastico aumento degli episodi d’intolleranza e di razzismo all’interno della Bundeswehr dimostra in primo luogo la crescente sensibilizzazione dei vertici militari nei confronti del problema.
Dopo il caso venuto alla luce nell’aprile del 2017, quando l’ufficiale della Bundeswehr Franco A. fu arrestato dagli inquirenti per aver preparato un attentato dinamitardo contro immigrati stranieri, la Ministra avviò una campagna di epurazione tra le fila dell’esercito volta a neutralizzare gli elementi neonazisti ed estremisti. La Ministra criticò in quell’occasione anche alcuni generali che secondo lei avevano contribuito a minimizzare e insabbiare il fenomeno. Ursula von Der Leyen ordinò un’inchiesta interna e incaricò i servizi segreti militari a tenere sotto controllo le attività dell’estrema destra neonazista.
Nel caso dei due soldati che nel corso di una conversazione telefonica avevano dichiarato di voler decapitare i «negri» nel Mali, l’inchiesta è stata però messa agli atti per mancanza di prove. I due militari sono ora in Africa nel contingente internazionale.

La Stampa 13.4.18
Stato di diritto in Ungheria
L’Ue divisa sul veto a Orban
di Emanuele Bonini


Ancora problemi con le libertà fondamentali in Ungheria. Due giorni dopo la vittoria elettorale di Viktor Orban, al governo per la terza volta di fila e accusato di minare lo stato di diritto con le sue politiche, chiude il giornale di opposizione Magyar Nemzet. Il suo proprietario, Lajos Simicska, ha annunciato che non finanzierà più il gruppo e comunicato la chiusura delle redazioni.
Simicska è l’ex tesoriere di Fidesz, il partito di Orban con cui l’editore è entrato in rotta di collisione nel 2015. Da allora la testata da lui controllata ha cambiato linea editoriale, passando da filo-governativa a governo-critica. Un cambiamento non gradito. Orban avrebbe fatto terra bruciata attorno all’ex amico, escluso da ogni tipo di bando e gara.
Magyar Nemzet era considerato una delle ultime voci anti-Orban. Chiude dopo Népszabadság, quotidiano di sinistra sparito dalle edicole l’8 ottobre 2016 sotto le pressioni, mai comprovate ma denunciate da più parti, dell’esecutivo di Budapest.
Il Parlamento Ue ritiene che il deterioramento dello stato di diritto nel Paese dell’est sia tale da richiedere la sospensione dei diritti di voto dell’Ungheria in seno al Consiglio. La commissione Libertà civili contesta, tra le altre cose, «la riduzione al silenzio delle voci critiche». I gruppi parlamentari sono divisi, ma potrebbero cambiare idea dopo le ultime notizie che arrivano da Budapest.

il manifesto 13.4.18
L’irriducibilità dell’oggetto
Storia delle idee. Nuova edizione per i testi di Alfred Schmidt e Hans-Georg Backaus, due classici francofortesi che indagano l’opera di Marx in relazione con l’idealismo tedesco. «La realtà sfugge sempre alla presa del concetto, che non si lascia identificare»
di Stefano Petrucciani


Gli anni Sessanta del Novecento non sono stati solo la grande stagione dei movimenti, ma anche un periodo di straordinario rinnovamento e ripensamento del marxismo. A mio modo di vedere, il maggior rilievo lo hanno avuto tre correnti di pensiero che proprio in quella fase si sono sviluppate, non senza rapporto con i movimenti che attraversavano la società.
Le tre nuove letture del marxismo che hanno segnato il periodo sono state quella operaista di Panzieri, Tronti e Negri, quella althusseriana e quella francofortese. Tre esperienze nate nel cuore del vecchio continente (Italia, Francia, Germania) e molto diverse, anzi persino antagoniste, tra loro.
Il filone operaista e quello althusseriano sono stati certamente più innovativi; il vantaggio della lettura francofortese di Marx, però, stava nel fatto che essa era, almeno a mio parere, decisamente più aderente a quello che Marx era veramente stato. Gli interpreti di scuola francofortese, infatti, non contaminavano Marx con esperienze culturali eterogenee, ma lo leggevano in stretta connessione con tutta la vicenda dell’idealismo tedesco tra Kant e Hegel, cioè lo riportavano a quello che era stato veramente il suo terreno di formazione, i dibattiti e le polemiche dentro la scuola hegeliana e l’uso che si poteva fare del pensiero del grande maestro.
Ma cosa intendiamo quando parliamo di una lettura francofortese di Marx? Cerchiamo di chiarirlo in poche parole. I maestri della Scuola di Francoforte, come Horkheimer e Adorno, non avevano scritto libri su Marx; avevano cercato piuttosto di interpretarne creativamente il pensiero. Ma la lettura dell’autore del Manifesto che era presente nei loro testi suscitò, negli anni Sessanta, nel contesto dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, un nuovo approccio dialettico a Marx e al Capitale, dal quale scaturirono alcune opere e linee di ricerca che meritano ancora oggi di essere studiate con attenzione.
Tra i frutti migliori di quella stagione ci furono il lavoro di Reichelt sulla Struttura logica del concetto di Capitale (recentemente riproposto da manifestolibri), gli scritti del prematuramente scomparso Hans-Jürgen Krahl, gli studi di Alfred Schmidt e di Hans-Georg Backaus. I testi di questi ultimi due sono oggi nuovamente disponibili per il lettore italiano grazie al meritorio lavoro di Riccardo Bellofiore, che ha introdotto una nuova edizione del miglior libro di Schmidt (Il concetto di natura in Marx, Edizioni Punto Rosso, pp. 302, euro 20) e che ha curato, con Tommaso Redolfi Riva, una summa degli studi di Backhaus (Ricerche sulla critica marxiana dell’economia, Mimesis, pp. 416, euro 28), considerato l’iniziatore di quella che i tedeschi chiamano la Neue Marx-Lektüre, cioè un nuovo modo di leggere i testi marxiani.
Al di là della denominazione un po’ pomposa, la sostanza del discorso è abbastanza chiara: il Capitale non deve essere letto come una nuova o migliore teoria economica, ma come una critica delle categorie economiche, a cominciare da quelle di valore e denaro; mentre l’economia borghese le assume come date, Marx sviluppa dialetticamente, usando gli strumenti che gli derivano da Hegel, la loro genesi e le loro contraddizioni interne. E giunge così a mostrarne il carattere feticistico: è l’economia borghese che assume come feticci, come dati, come cose, delle categorie economiche che sono in verità il risultato di un processo di sviluppo, e che come tali hanno una loro genesi e un loro tramonto. Il nucleo del Capitale è lo svelamento di questo feticismo, cioè il mostrare come quelli che si presentano come dati o leggi dell’economia siano in realtà il risultato di rapporti sociali e conflittuali tra gli individui e le classi, superabili e non eterni.
Backhaus mostra come il sistema delle categorie economiche venga sviluppato in Marx attraverso un metodo dialettico che riprende per molti aspetti essenziali quello hegeliano. Non del tutto però, perché quella del Capitale di Marx non è una totalità compiuta come quella hegeliana, ma una totalità ancora contraddittoria, e dunque insidiata dal suo tramonto.
Proprio su questo, allora, si può innestare una riflessione come quella che Schmidt sviluppa nel suo Concetto di natura in Marx. Il punto lo aveva fissato chiaramente già il pensatore di Treviri nella famosa Introduzione del 1857, non pubblicata, a Per la critica dell’economia politica. Per il Marx della Introduzione la totalità concreta (il che vuol dire: concettualmente elaborata) è certamente un prodotto del pensiero, ma non «del concetto che genera se stesso», quanto piuttosto «dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e della rappresentazione». La ricostruzione in concetti della realtà sociale come totalità contraddittoria è pur sempre (ed è qui che Marx si volge contro Hegel) il lavoro interpretativo di una mente che si misura con un oggetto reale che sta fuori di essa. Che rimane, come scrive Marx, «saldo nella sua autonomia fuori della mente». Il pensiero è attività di decifrazione che si esercita su qualcosa di altro, di non riducibile: l’oggetto o, come anche si può dire, la natura.
Su questo punto insiste il lavoro di Schmidt, profondamente segnato dall’insegnamento sia di Horkheimer che di Adorno. Da Horkheimer riprende il tema del materialismo e del naturalismo. Di Adorno Schmidt sviluppa, in connessione sempre col tema materialistico, un aspetto fondamentale: il concetto di natura allude a quello che Adorno chiamava il «non-identico»; cioè la realtà che sfugge sempre in qualche modo alla presa del concetto, che non si lascia identificare da esso pienamente e senza residui. E qui è forte il retaggio kantiano, del Kant che aveva insistito sui limiti del sapere che non può conoscere altro che il «nostro» mondo, ma non le cose come sono in se stesse.
Il punto d’approdo al quale coerentemente Schmidt arriva, perciò, è che l’epistemologia di Marx rappresenta una sorta di creativa e originale combinazione del momento hegeliano con quello kantiano. Come si legge nel Concetto di natura in Marx, «tra Kant e Hegel, Marx assume una posizione mediatrice difficilmente definibile. La sua critica materialistica alla identità hegeliana di soggetto e oggetto lo riconduce a Kant, anche se Marx non torna a concepire l’essere non-identico con il pensiero come una inconoscibile cosa in sé». Marx per un verso mantiene, contro Hegel, la tesi kantiana della non-identità di soggetto e oggetto.
Per altro verso però, schierandosi con Hegel contro Kant, sostiene che i due poli non hanno niente di statico, ma interagiscono e si modificano reciprocamente nel processo storico: noi cambiamo il mondo con le nostre azioni e questo retroagisce sui nostri modi di pensare. Seguendo Hegel, Marx storicizza le categorie kantiane; andando oltre Hegel, connette più strettamente le trasformazioni dei modi di pensare con quelle del lavoro e dei rapporti sociali.
Per concludere con una nota più leggera bisogna ricordare che la prima edizione italiana del libro di Schmidt uscì nel 1969 per Laterza con una prefazione di Lucio Colletti. Colletti apprezzava molto il lavoro di Schmidt, perché credeva anche lui che si dovesse recuperare il lato kantiano di Marx; ma nutriva un’antipatia assoluta per Adorno e per i francofortesi; e cercava dunque, nella sua prefazione, di sganciare Schmidt dai suoi maestri. Ma si trattava di un’operazione fallimentare perché, come è evidente a chi legga con attenzione, la «natura» di Schmidt e il «non-identico» di Adorno sono concetti che, in ultima istanza, prendono di mira esattamente la stessa questione.

il manifesto 13.4.18
Gaza, il venerdì delle bandiere
Marcia del Ritorno. Migliaia di palestinesi oggi bruceranno le bandiere di Israele e isseranno quelle della Palestina a ridosso delle linee con lo Stato ebraico. Si teme un'altra giornata di sangue. Ieri altri due palestinesi uccisi
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Migliaia di palestinesi oggi parteciperanno alla Marcia del Ritorno e alle nuove ‎manifestazioni popolari a ridosso delle linee di demarcazione tra Gaza e Israele nel ‎giorno che porta il nome di “Venerdì delle bandiere”. Saranno bruciate bandiere ‎israeliane nei cinque gli accampamenti eretti nella fascia orientale di Gaza e subito ‎dopo verranno issate bandiere della Palestina.
Oltre trenta palestinesi, tra cui un ‎giornalista e alcuni adolescenti, sono stati uccisi dal fuoco dei tiratori scelti ‎israeliani il 30 marzo e il 6 aprile.
Si teme che quella di oggi possa rivelarsi ‎un’altra giornata di sangue, con morti e feriti.
Le ultime ore sono state segnate dalle ‎uccisioni di altri due palestinesi. Ieri pomeriggio i militari israeliani hanno colpito ‎all’altezza di Khan Yunis, Abdullah al Shehri, 28 anni, che si era avvicinato alle ‎barriere con lo Stato ebraico. Un altro palestinese, Mohamed Jahila, 30 anni, è ‎rimasto ucciso in un raid dell’aviazione israeliana su Gaza. Il ministero della sanità ‎lo ha identificato come Mohammed Jahila, di 30 anni. Il portavoce militare ha ‎detto alcuni palestinesi hanno aperto il fuoco con una mitragliatrice contro gli ‎aerei.‎
Intanto Gaza lancia l’allarme-feriti. Secondo le cifre del Ministero della sanità i ‎feriti degli ultimi due venerdì sono oltre 1.200 da proiettili veri e circa 1.500 per ‎inalazione di gas lacrimogeni o colpiti da munizioni rivestite di gomma. Alcuni ‎saranno disabili a vita.
Un numero tanto elevato di feriti da armi da fuoco ha ‎appesantito la già difficile situazione degli ospedali e delle strutture sanitarie di ‎Gaza. Sono finite le protesi per i feriti alle ossa e scarseggiano i medicinali ‎salvavita per le persone con gravi patologie.
«Il personale medico gestisce ‎attentamente le poche risorse che abbiamo a disposizione ma non basta. Operiamo ‎al limite, non possiamo curare in modo efficace decine di feriti gravi, colpiti da ‎pallottole che una volta entrate nel corpo hanno provocato danni estesi», avverte ‎il dottor Ayman Sahbani, direttore del pronto soccorso dell’Ospedale Shifa di ‎Gaza city‏.‏
In questo quadro difficile è giunta la notizia positiva dell’apertura per tre giorni ‎da parte dell’Egitto del valico di Rafah per i casi “umanitari”, ossia per le persone ‎malate o ferite che non possono ricevere cure a Gaza. I palestinesi sperano di poter ‎trasferire in Egitto alcuni dei feriti più gravi.
Dall’inizio dell’anno è solo la quarta ‎volta che il Cairo apre il transito, l’unica porta di Gaza sul mondo arabo. Secondo ‎i media israeliani, l’Egitto avrebbe avviato colloqui con i palestinesi per ‎allontanare dalle linee con Israele le manifestazioni della Marcia del Ritorno. ‎

il manifesto 13.4.18
Caos a Washington: «Nessuna decisione su attacco alla Siria»
Medio Oriente. Dopo giorni ad alta tensione, la Casa bianca prende tempo. Attivata una linea rossa con il Cremlino. Solo May accelera. La Gran Bretagna indossa l’elmetto: «Non serve il sì del parlamento per intervenire». A Ghouta est arriva il team dell’Opac, da domani raccoglierà campioni per verificare l’uso di gas
di Chiara Cruciati


Sull’incendio bellico acceso in Siria dai pruriti trumpiani i due fronti ieri gettavano acqua e benzina. Con l’ennesima retromarcia, doppia, ieri il presidente Trump ha prima rallentato la corsa interventista contro Damasco, poi ha confuso di nuovo le carte.
«Non ho mai detto quando un attacco in Siria sarebbe stato realizzato – aveva scritto in mattinata su Twitter – Potrebbe essere molto presto o non così presto. In ogni caso gli Stati uniti, sotto la mia amministrazione, hanno fatto un gran lavoro contro l’Isis nella regione». Nel pomeriggio, parlando prima di un vertice con i suoi consiglieri, ha annunciato invece una decisione «a breve».
Dopo la minaccia di mercoledì di una pioggia di missili «belli e intelligenti», dietro l’apparente frenata c’è la frenetica azione diplomatica russa che ieri si è concretizzata nel rilancio della linea di comunicazione diretta tra Casa bianca e Cremlino, che fa tornare alla mente la linea rossa istituita durante la crisi dei missili a Cuba, 55 anni fa.
A comunicarne il pieno funzionamento è stato il portavoce del governo di Mosca, nell’idea di evitare un’escalation disastrosa per il Medio Oriente e il globo: «Continuiamo a ritenere estremamente importante evitare ogni passo che possa condurre a maggiori tensioni in Siria», ha detto Peskov. Nelle stesse ore undici navi russe lasciavano la base militare di Tartus per schierarsi lungo la costa siriana, pronte nel caso di un attacco aereo statunitense, e Mosca chiedeva per oggi una riunione d’urgenza al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
A Washington monta la preoccupazione e di conseguenza la confusione: la foga bellica – accesa da un presidente con più di un guaio in casa e da un rimescolamento dell’establishment che ha visto la nomina di falchi come Pompeo a segretario di Stato e Bolton a consigliere per la sicurezza nazionale – deve fare i conti con l’ovvia reazione della Russia, vero ago della bilancia nella regione.
Da qui il freno tirato: ieri la portavoce della Casa bianca Sanders, riportando del vertice tra Trump e il capo del Pentagono Jim Mattis del giorno precedente, ha detto ai giornalisti che «tutte le opzioni sono sotto esame e una decisione definitiva non è stata ancora presa».
Lo stesso Mattis è rimasto sul piano della possibilità: «Credo ci sia stato un attacco chimico, stiamo cercando prove concrete. Non abbiamo ancora deciso se lanciare un attacco militare in Siria».
La nuova cautela statunitense non contagia per ora gli alleati europei, Francia e Gran Bretagna, fin da subito pronti a infilarsi l’elmetto. Ieri la premier britannica Theresa May (mentre i sottomarini di Sua Maestà nel Mediterraneo si mettevano in posizione, verso le coste siriane, e la Raf rendeva operativi i caccia di stanza a Cipro) ha riunito il gabinetto per la sicurezza per discutere le misure militari da assumere contro il presidente siriano Bashar al-Assad, specificando di non aver bisogno del via libera del parlamento di Londra.
E mentre l’Iran ribadisce con il comandante in capo in Siria, Ali Akbar Velayati, sostegno all’alleato siriano «in ogni circostanza», a mostrare titubanza ora è la Turchia, costretta tra le due superpotenze. Tanto che fonti interne al governo turco negano che Ankara possa permettere a Washington l’uso delle basi Usa sul proprio territorio per lanciare attacchi su Damasco, e dunque contro la Russia. Erdogan resta in attesa del 16 aprile, quando il segretario della Nato Stoltenberg volerà ad Ankara; nel caso di richiesta diretta da parte dell’Alleanza Atlantica – aggiungono altre fonti interne – la Turchia si troverebbe di fronte a una scelta difficile.
Meno dubbi li dimostra la Germania che si è già sfilata dalla corsa alla guerra. La cancelliera Angela Merkel ha detto ieri che Berlino non parteciperà a interventi militari in Siria.
Chi è invece partito per il paese sono gli esperti dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac): ieri l’ambasciatore siriano all’Onu Jaafari ha annunciato l’arrivo di due team entro oggi. L’Opac conferma: gli esperti inizieranno a lavorare domani a Douma, a Ghouta est, il luogo del presunto attacco chimico di cui è accusato Assad.

Il Fatto 13.4.18
Gentiloni & C., grande fuga dalla guerra come “affari correnti”
Lo spauracchio del coinvolgimento diretto in un conflitto e l’adesione di facciata alle mosse degli alleati atlantici
Gentiloni & C., grande fuga dalla guerra come “affari correnti”
di Fabio Mini

L’attacco delle truppe siriane alle ultime roccaforti dei ribelli nel Goutha orientale avrebbe dovuto portare alla definitiva sconfitta (se esiste qualcosa di definitivo in Siria) delle fazioni jihadiste che ancora si oppongono al regime di Bashar Assad. In particolare le sparute unità di Al Islam asserragliate a Douma avrebbero dovuto sloggiare e scomparire dalla scena. Si sarebbe quindi aperta la fase tanto attesa di definizione del regime politico e della consistenza territoriale della Siria del dopo guerra. Tuttavia la definizione sarebbe stata opposta a quella prevista da Stati Uniti, Israele, paesi europei e paesi arabo-sunniti impegnati da sette anni nel tentativo di rovesciare Assad e spartirsi la Siria. Saltava il disegno americano del Grande Medio Oriente sotto l’egemonia statunitense, saltava il progetto di Trump di ritirare le proprie truppe e lasciare il compito di sceriffo ad “altri” (leggasi Israele, Francia e Gran Bretagna); saltava perciò il primato politico-militare israeliano e sparivano nel buco nero della sconfitta i dollari e le armi fornite ai ribelli.
Si presentava invece lo scenario di un nuovo assetto mediorientale garantito da Russia, Iran e Turchia. È superfluo dire che un tale scenario non piacesse a chi per anni aveva organizzato, diretto e armato la destabilizzazione mediorientale perfino tramite il cosiddetto Stato islamico creato proprio in versione anti irachena e anti-siriana. Il presunto attacco chimico su Douma ha fatto saltare i piani russo-siriani e anzi ha riaperto la crisi in una chiave ancor più bellicista con il minacciato scontro diretto fra Stati Uniti e Russia e tra i relativi vassalli e tributari.
Secondo la logica del cui prodest non è credibile che l’attacco chimico sia veramente avvenuto e, se avvenuto, piuttosto che un errore siriano è molto più probabile che sia stata una provocazione degli stessi ribelli tesa a riacutizzare la guerra e impedire agli sponsor di svignarsela.
È stato notato che con tale evento la guerra in Siria da civile è diventata internazionale, ma si tratta di un errore di prospettiva: la guerra in Siria è sempre stata internazionale con o senza intermediari (proxies). Non è mai stata una guerra civile e la crisi è passata dallo stadio non bellico di repressione interna alla guerra internazionale.
Oggi semmai diventano più chiari i contorni delle parti in guerra: i protagonisti appaiono ben distinti dalle comparse e molti veli d’ipocrisia si squarciano con lo schieramento dei missili concomitante alle bordate su Twitter. La fase è quindi di una gravità senza precedenti e colpisce il fatto che venga trattata con preoccupante superficialità e conclamato bullismo. Ce lo dimostra Trump che urla, ma anche la May che allerta i sommergibili, Macron che promette guerra e la Nato pronta a sostenere gli Stati Uniti in questa ulteriore fase avventuristica.
L’Italia dovrebbe essere tra le più preoccupate perché gli aerei americani e i droni armati partono da qui. In Sicilia strutture strategiche americane come Sigonella e il sistema radar Muos di Niscemi sono obiettivi altamente paganti. Ma l’Italia è nel cuore di tutti i russi e prima di bombardarne il territorio Putin vorrebbe pretesti e provocazioni ben valide. Non è escluso però che tali pretesti siano forniti ad arte proprio da qualche alleato o amico senza scrupoli.
Vista dall’Italia e con la lente della nostra politica la tragedia diventa commedia. Trump ha chiamato a raccolta gli alleati europei, Salvini si oppone e il Segretario del Pd Martina ha detto che bisogna rispettare gli impegni con gli alleati. Trump dimentica che la Nato e la coalizione anti-Isis sono nate e organizzate per scopi completamente diversi dalla formazione di un Grande Medio Oriente o dalla punizione di polizia internazionale. Martina finge di non saperlo. Il presidente del Consiglio in carica per gli “affari correnti” sostiene gli alleati americani e parla di azioni siriane intollerabili e di prove evidenti delle responsabilità russe e siriane. Sono prove che nemmeno gli americani hanno e le loro analoghe accuse in passato si sono dimostrate insussistenti.
Finora, in Siria quando è stato provato l’uso di ordigni chimici le investigazioni internazionali non hanno potuto individuare i responsabili. In un caso è stato dimostrato da uno scienziato americano che un ordigno a caricamento chimico era stato fatto esplodere a terra (non lanciato dall’esterno) proprio dai ribelli. Le dichiarazioni del nostro capo del governo sembrano ispirarsi a una fonte informativa sola e in questo momento rappresentano una fuga in avanti verso un’avventura che sa bene di non dover gestire. Ma non è il solo: l’imbarazzo dei presunti leader riflette il timore di dover maneggiare la crisi politicamente e militarmente, verificare il rapporto con l’Alleanza atlantica, sostenere le pressioni americane, russe e israeliane e impartire gli ordini operativi di attacco, difesa o neutralità.
C’è da scommettere che finchè dura la crisi nessun aspirante premier spingerà per la formazione del nuovo governo. E sarebbe proprio da “italiani” avviare o evitare una guerra come “affare corrente”.

il manifesto 13.4.18
La gente di Damasco attende senza ansia le mosse di Trump
Siria. La vita scorre come gli altri giorni nella capitale siriana nonostante le minacce del presidente americano. Le testimonianze di una cooperante italiana e di un giornalista libanese
di Michele Giorgio


I media legati all’opposizione siriana descrivono una Damasco in preda al panico, ‎con i suoi abitanti che si preparano a un devastante attacco militare da parte degli ‎Stati uniti. Gente incollata alla tv, strade vuote e taxisti che fanno fatica a trovare i ‎clienti, questo il quadro fatto, ad esempio, dal sito d’informazione al Hal che ‎sottolinea che i più preoccupati sono i damasceni di Mezzeh, un’area residenziale ‎non lontana da un aeroporto che con ogni probabilità è sulla lista degli obiettivi ‎del Pentagono. Ma le cose non stanno affatto così. Damasco vive giornate uguali ‎alle altre nonostante le minacce di Trump. Proprio a Mezzeh abbiamo raccolto, via ‎telefono, la testimonianza di Monica Mazzotti, una cooperante della Ong di ‎Bologna GVC, in Siria per seguire i progetti della sua organizzazione nei settori ‎dell’istruzione e delle risorse idriche. ‎«Sono alloggiata in un hotel del centro di ‎Damasco – ci ha detto Mazzotti -, questa mattina (ieri) ho preso un taxi per ‎raggiungere l’ufficio del Gvc a Mezzeh, una zona più periferica. Durante il ‎percorso non ho notato nulla di insolito. Tutto normale, il traffico della scuola, dei ‎lavoratori. Poco fa sono andata a comprare un po’ di cose e tutto è assolutamente ‎normale, tranquillo».‎
 La cooperante ha aggiunto di essere rimasta molto sorpresa quando qualche ‎giorno fa è giunta a Damasco. ‎«Non ero mai stata qui prima – ha precisato – e ‎seguendo la crisi siriana dall’Italia o dal Libano mi aspettavo una città impaurita, ‎una popolazione affranta per la guerra, certo un’atmosfera non serena. Ho trovato ‎invece una Damasco viva, le scuole sono aperte, la gente va a lavorare, c’è ‎movimento. La scorsa settimana le strade erano piene per i festeggiamenti della ‎Pasqua (ortodossa). E in questi ultimi due giorni l’atmosfera non è cambiata. ‎Credo i siriani, lo noto anche tra i miei colleghi, si siano abituati al conflitto, ‎perciò affrontano con resilienza la situazione. E ironizzano sulla minaccia di un ‎attacco da parte di Trump che prendono sul serio ma fino a un certo punto».‎
 Una parvenza di vita normale torna poco alla volta anche nella Ghouta ‎orientale, l’area a ridosso della capitale dove sarebbe avvenuto l’attacco con ‎presunte armi chimiche che avrebbe provocato decine di vittime e che Washington ‎attribuisce all’aviazione governativa siriana. Damasco nega con forza e, assieme ‎alla Russia, parla di una messinscena. In varie zone della Ghouta le distruzioni, a ‎causa di bombardamenti aerei e combattimenti, sono enormi, con centinaia di ‎edifici, forse di più, ridotti in macerie. Tanti altri sono danneggiati spesso in modo ‎irreparabile. Tuttavia sta già dando frutti l’uscita dalla Ghouta dei gruppi armati ‎Jaysh al Islam, Ahrar ash Sham, Nusra e Faylaq ar Rahman, formazioni jihadiste e ‎qaediste che in Europa verrebbero considerate terroristiche ma che in Siria i ‎governi e i media occidentali definiscono come “ribelli”. Otto scuole hanno ‎riaperto a Saqba, Kafr Batna, Ayn Tarma, Haza e Harasta e altre lo faranno presto ‎secondo i media locali. Nei prossimi giorni almeno 10mila ragazzi della Ghouta ‎dovrebbe rientrare nelle aule.‎
 «La liberazione della Ghouta aiuta il ritorno alla normalità anche in altre parti ‎della Siria» ci spiegava, sempre ieri, Talal Kraiss, un giornalista libanese in questi ‎giorni a Damasco. ‎«Si passa per la Ghouta per andare dalla capitale a Homs e in ‎altre città o per andare in Giordania e ora le strade sono libere. Nella capitale e ‎nelle aree intorno non c’è alcuna preparazione (in vista del possibile attacco Usa, ‎ndr). La gente va nei caffè come sempre, al mercato, fa le solite cose. Non è ‎cambiato nulla». A giudizio di Kraiss le autorità siriane sono relativamente ‎tranquille. ‎«Alcuni ufficiali della sicurezza che ho incontrato dicono che il motivo ‎per cui Trump ha moderato un po’ i toni è legato all’Iran, al movimento sciita ‎libanese) Hezbollah e all’esercito siriano che hanno promesso che risponderanno ‎ad un attacco contro obiettivi strategici e che la loro risposta sarà contro Israele. La ‎Russia ha fatto sapere al ministro della difesa (israeliano) Lieberman che la ‎reazione all’attacco Usa sarà contro le città israeliane. Per questo Israele che ‎premeva per l’attacco alla Siria ora è più silenzioso e non rincara la dose‎. I siriani, ‎le persone comuni, seguono questi sviluppi e forse questo contribuisce alla ‎nomalità della situazione». ‎
 Trump comunque va avanti e ieri ha annunciato che ‎«Le decisioni saranno ‎prese abbastanza presto‎». Il capo del Pentagono, James Mattis, gli ha presentato le ‎opzioni sulla Siria nel corso di una riunione del Consiglio per la sicurezza alla ‎Casa Bianca. Tra queste ci potrebbero essere anche sanzioni politiche ed ‎economiche.‎

il manifesto 13.4.18
Un canale al centro del mondo, storia e leggenda di Suez
L'esposizione all’Institut du Monde Arabe di Parigi fino al 5 agosto. Storia, economia e cultura sono passati per l’opera che ha unito tre continenti
di Anna Maria Merlo


È un’opera umana che, 150 anni fa, ha realizzato un sogno che durava da quattromila anni e che ha permesso di unire tre continenti, Asia, Africa e Europa. Un punto nevralgico del commercio mondiale, che collega nord e sud, est e ovest. E che ha il suo rovescio della medaglia: «lei ha indicato il luogo delle grandi battaglie del futuro», disse lo storico Ernest Renan ricevendo Ferdinand de Lesseps, il creatore del canale di Suez, all’Accadémie française il 23 aprile 1885.
A L’epopea del canale di Suez – dai faraoni al XXI secolo, l’Institut du Monde Arabe dedica una mostra (fino al 5 agosto, poi sarà a Marsiglia e nel 2019 al Cairo, al nuovo Museo delle civiltà), che si apre con il ricordo dell’inaugurazione dell’opera, una grande festa internazionale durata più giorni nel novembre del 1869, duemila invitati, teste coronate, con ospite d’onore l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III. L’Aida commissionata a Verdi non è ancora pronta e l’Opera del Cairo inaugura con il Rigoletto il 1° novembre 1869.
Nel 2015, il canale di Suez è stato raddoppiato su 72 km. Da qui passano ventimila navi l’anno, che trasportano un miliardo di tonnellate di merci, il 14% del trasporto mondiale, l’8% del commercio internazionale. Le innovazioni tecniche, la filosofia (i Sansimoniani), la geopolitica, le guerre, la nazionalizzazione e la guerra coloniale del ’56, la chiusura dopo la guerra dei Sei giorni fino al ’75, due anni dopo la guerra del Kippur e la fine della presenza delle forze dell’Onu: la storia del canale di Suez è un concentrato di quella dell’ultimo secolo e mezzo.
Edouard Riou, «Cerimonia di inaugurazione del Canale di Suez, il 17 novembre 1869, foto © RMN-Grand Palais
L’IDEA DI COLLEGARE il Mediterraneo e il Mar Rosso è antichiss ma. Il faraone Sesostris III (1878-1762 aC) aveva fatto scavare un passaggio che collegava il Mar Rosso al delta del Nilo, una stele attesta che l’opera venne conclusa più di mille anni dopo da Dario, imperatore persiano. Poi il canale si insabbiava più volte, venne riaperto, distrutto, ricostruito. Fino alla chiusura definitiva per ragioni politiche nel 755 – il califfo Al-Mansur voleva soffocare economicamente Medina. Sono i veneziani a ripensare il progetto nel XVI secolo, per contrattaccare la concorrenza dei portoghesi nel commercio con l’oriente, dopo la nuova rotta aperta nel 1498 da Vasco de Gama attraverso il capo di Buona Speranza.
IL PROGETTO di Venezia non va in porto. Dopo la sconfitta ottomana a Lepanto, la Francia sembra essere interessata. A Richelieu viene sottoposto un piano. La storia accelera con Napoleone, che nel 1798 sbarca in Egitto. Napoleone gioca tutte le carte, cerca anche di convincere lo zar Paolo I, ma la Gran Bretagna reagisce: gli inglesi sbarcano a Alessandria e Suez (e poco dopo lo zar è sgozzato a San Pietroburgo).
IL «LETTO NUZIALE» destinato a «conciliare» oriente e occidente, caro ai Sansimoniani, prende corpo nel 1854. Il viceré Said Pacha ne decide la realizzazione e la affida al diplomatico e uomo d’affari francese di fede sansimoniana, Ferdinand de Lesseps, contro la Gran Bretagna e l’Impero ottomano.
Inizia la grande saga finanziaria della Compagnie universelle du Canal maritime de Suez di Lesseps: 21mila azionisti francesi, il 44% del capitale all’Egitto. Dieci anni di lavori, dal 1859 al 1869, migliaia di egiziani obbligati ai lavori forzati, molte morti che solleveranno l’indignazione internazionale. Dal 1864, il cantiere è così forzato a modernizzarsi, con macchine a vapore, draghe, enormi innovazioni tecniche che rivoluzionano per sempre i lavori pubblici.
LO SCULTORE Auguste Bartholdi nel 1867 propone un faro, con una gigantesca figura di egiziana che tiene in mano una torcia, l’idea non viene accettata e Bartholdi la riciclerà per il centenario dell’indipendenza degli Stati uniti: è la Statua della Libertà, regalo della Francia agli Usa, che ancora oggi è al largo di New York.
Per l’Egitto è un disastro finanziario: gli inglesi ne approfittano, nel 1875 sono già i primi azionisti della Compagnia, obbligano Ismail a vendere (cento milioni di franchi, che in trent’anni saranno rivalutati a ottocento milioni) e nel 1882 Londra prende il controllo del canale. Nel 1888, la convezione di Costantinopoli, ne stabilisce però la neutralità: «libero e aperto, in tempo di guerra come in tempo di pace».
LE GUERRE, PERÒ, interferiscono: dal 1940 al ’45, il canale è chiuso per i non alleati della Gran Bretagna. La tutela britannica finisce nel ’56, quando Nasser lo nazionalizza. La risposta di Gran Bretagna, Francia e Israele è un fiasco diplomatico e militare (ma non finanziario per Londra, che fa rimborsare la Compagnia dall’Egitto per l’interruzione anticipata della concessione, che avrebbe dovuto durare fino al ’68). Il canale verrà chiuso per 8 anni dopo la guerra del Sei giorni (’67) e quella del Kippur (’73). Oggi, rappresenta il 20% del budget dello stato egiziano.

La Stampa 13.4.18
Gli studenti diminuiscono
In 10 anni la scuola italiana perderà un milione di allievi
Fondazione Agnelli: il calo di nascite e di madri potenziali causerà una drastica diminuzione di classi e insegnanti
La sfida è puntare sulla qualità dell’istruzione
di Andrea Gavosto
Direttore Fondazione Agnelli


La popolazione scolastica fra i 3 e i 18 anni passerà da 9 a 8 milioni in dieci anni. L’impressionante calo è già iniziato, a partire dalla scuola dell’infanzia e dalla primaria; verso la fine del decennio toccherà anche la scuola superiore. Tutta l’Italia sarà coinvolta dal declino demografico, che si tradurrà in una diminuzione delle classi, ponendo problemi inediti a chi governerà.
Lo studio della Fondazione Agnelli pubblicato oggi sul nostro sito e raccontato su queste pagine ci ricorda che – come per la sanità – nessuna politica dell’istruzione può ignorare o sottovalutare le onde lunghe, ma inesorabili, del cambiamento demografico.
Qualunque seria riforma della scuola deve darsi un orizzonte temporale e strategico abbastanza ampio da consentirle di tenere conto di fenomeni così importanti. Raramente questo è avvenuto, certamente non con la Buona scuola.
55 mila prof in meno
Il secondo avvertimento è che la perdita di decine di migliaia di posti e cattedre in tutti i gradi scolastici rende più problematico il rinnovamento del corpo insegnante. Perché, quando verranno a mancare le cattedre per assenza di allievi, a norme vigenti non ci saranno licenziamenti; verrà invece assunto un numero inferiore di insegnanti per sostituire quelli che andranno in pensione. C’è dunque da temere che il rallentamento dell’ingresso dei giovani docenti a sua volta freni la capacità di innovazione dell’intero sistema d’istruzione, già oggi in ritardo rispetto agli altri Paesi avanzati, e, in definitiva, danneggi la qualità dell’offerta formativa.
Un esito grave non solo per gli studenti, ma anche per il Paese, proprio quando il capitale umano giovane dell’Italia va riducendosi. Se non si riuscirà a compensare il declino quantitativo con un innalzamento della qualità avremo un problema serio, che andrà ad aggiungersi ai molti altri che caratterizzano la nostra scuola.
I dati ci dicono, infine, che si è chiusa la fase in cui per anni si è detto: «Gli insegnanti sono al Sud, ma i posti sono al Nord», con tutto il corollario, a volte molto polemico, sui trasferimenti dei docenti (ricordate la retorica delle «deportazioni»?). Nei prossimi anni i posti cominceranno a scomparire anche al Nord. Di conseguenza, è prevedibile un raffreddamento della mobilità dei docenti dal Sud al Centro-Nord per entrare in ruolo.
È evidente che la concatenazione di questi fenomeni propone quesiti nuovi alle politiche scolastiche.
Una prima soluzione è non fare nulla: accettare la riduzione degli organici determinata dal declino demografico, rallentando il turn over, con un rischio per la capacità di rinnovamento del corpo docente. In tal caso, peraltro, si risparmierebbero quasi 2 miliardi di euro all’anno: non poco in un Paese che deve comunque risanare i conti pubblici.
Ma ci sono alternative. Ad esempio, aumentare il numero medio di insegnanti per classe, come avvenne nel 1990 con l’introduzione del modulo didattico alle scuole elementari. Oppure, fare come in Francia, diminuendo il numero medio di studenti per classe: la «riforma Macron» ne prevede addirittura il dimezzamento nelle aree più problematiche.
L’alternativa che tuttavia appare preferibile a chi – come noi – ritiene una priorità assoluta il miglioramento della qualità dell’istruzione in Italia è invece puntare su un rafforzamento generalizzato della cosiddetta «scuola del pomeriggio», che dia maggiori possibilità di scelta del tempo pieno per le famiglie, in particolare al Sud, dove è ancora del tutto insufficiente; e che inoltre garantisca attività integrative, sostegno ai percorsi personalizzati – per i più fragili, ma anche per i più talentuosi –, maggiori opzioni di scelta delle materie di studio e, infine, nuove soluzioni di contrasto all’abbandono scolastico.

Corriere 13.4.18
Calano gli studenti «Ci sarà un esubero di 55 mila docenti»

I dati della Fondazione Agnelli sulla scuola
«Ecco come può diventare un’opportunità»di Gianna Fregonara


Da oggi al 2028 l’Italia «perderà» un milione di studenti e dunque scomparirà una classe su 10 e non servirà più un professore ogni tredici. Sono i dati dello studio pubblicato dalla Fondazione Agnelli «Scuola, orizzonte 2028: evoluzione della popolazione scolastica in Italia e implicazioni per le politiche» che mira a fare il punto — con una proiezione statistica — su quelle che saranno le risorse in termini di professori e di studenti nel sistema educativo italiano dalla scuola dell’infanzia alla maturità, ponendosi come orizzonte appunto i prossimi dieci anni.
E poiché prima di immaginare e affrontare qualsiasi riforma o modello di scuola è necessario conoscere i dati e le risorse, il rapporto offre dati fondamentali sia a chi lavora nel mondo della scuola sia a chi dovrà, a partire dalle prossime settimane, indicare le linee di politica scolastica.
Secondo il modello usato dalla Fondazione Agnelli gli studenti passeranno dai circa 9 milioni attuali a 8 milioni circa a causa della scarsa natalità ma anche del tasso sempre più ridotto di immigrazione (che è dimezzato peraltro negli ultimi dieci anni) e alla diminuita propensione alla natalità anche nella popolazione immigrata, alle elementari nel 2028 ci saranno nel Nord Italia il 16 per cento dei bambini in meno, nel Sud gli alunni scenderanno addirittura di 19 punti e nel Centro di 14. Alle scuole medie ci sarà una crescita lenta del numero di studenti ancora per qualche anno ma tra dieci anni le regioni del Nord perderanno uno studente su 10, così come il Centro (-9 per cento) mentre il Sud, interessato dal fenomeno dell’emigrazione interna ed esterna ormai da diversi anni, perde uno studente su 5 (-19 per cento).
Il fenomeno della «scomparsa» degli alunni tra dieci anni non interesserà ancora le scuole superiori del Nord e Centro Italia, che faranno segnare ancora una «gobba» positiva del 4 e del 6 per cento. Ma la tendenza del Sud non lascia dubbi sull’evoluzione: -13 per cento. Cresceranno le classi delle scuole superiori in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e nel Lazio, ma il saldo complessivo delle classi è di meno 36.721. Una su dieci. Il che significa che rispetto ai dati di oggi ci sarà un esubero di 55 mila professori.
Sono numeri che devono indurre governo e Parlamento a riflettere perché significano un rallentamento del turn over e dunque un nuovo invecchiamento complessivo degli insegnanti nonostante lo sforzo dei nuovi concorsi — una volta esaurita la fase attuale delle sanatorie dei «vecchi» precari — di reclutare docenti subito dopo la laurea. In termini di stipendi, se non si farà nulla, ci sarà una riduzione della spesa di quasi due miliardi all’anno.
Quello che la Fondazione Agnelli propone è di considerare questi cambiamenti come un’opportunità. «La disponibilità di altri insegnanti non impegnati nelle lezioni potrebbe consentire l’apertura delle scuole anche al pomeriggio, l’aumento del numero di professori per classe o anche la riduzione del numero di studenti», spiega il direttore della Fondazione Andrea Gavosto. La forte diminuzione di studenti al Sud, dove sono presenti più insegnanti in cerca di cattedra, e la scarsa o nulla recettività che ci sarà nelle scuole del Nord, cambia definitivamente anche le chance dei prof in esubero di trovare lavoro, pur lontano da casa. «Ma quello che si deve evitare — conclude Gavosto — è che rallentando il turn over la scuola accumuli altri ritardi nelle pratiche di insegnamento più moderne».

Repubblica 13.4.18
La ricerca della Fondazione Agnelli
Si svuotano le aule “Tra dieci anni un milione di alunni in meno”
Colpa della denatalità. L’Italia in controtendenza rispetto a Germania e Regno Unito. L’effetto: un calo di quasi 56mila cattedre e prof più anziani
di Corrado Zunino


ROMA L’orizzonte scuola, visibile con un binocolo puntato al 2030, dice che gli istituti italiani si svuoteranno: perderemo 36.721 classi nei prossimi dieci anni e — purtroppo per maestri e professori, ma anche per l’innovazione didattica — 55.600 posti cattedra dalla primaria all’ultimo anno delle superiori.
Il turn- over dei docenti dovrà rallentare e i ragazzi, dopo un tentativo di svecchiamento iniziato con la “Buona scuola”, torneranno a vedere insegnanti anziani.
La Fondazione Agnelli ha posizionato il suo nuovo lavoro — “ Evoluzione della popolazione scolastica in Italia” — nel medio periodo e, avvalendosi di studi statistici raffinati anche se perfettibili, ha mostrato come la crisi di natalità italiana inciderà profondamente sull’istituzione scolastica. I governi che verranno potranno usare questa diminuzione di insegnanti per risparmiare un miliardo e 826 milioni di euro lasciando incancrenire problemi antichi. Oppure potranno impegnare i soldi facendo tre cose: allungare l’orario scolastico al pomeriggio offrendo così corsi di recupero e alternative alla dispersione, ripristinare doppi maestri alle elementari, come già negli Anni ’90, e ancora spezzare in due le classi aiutandole a respirare, come già ha fatto la Francia di Macron nelle zone più spopolate.
Riavvolgendo il nastro, prima delle conclusioni, l’analisi di “ Evoluzione...” spiega che cosa sia, davvero, la crisi demografica italiana: un unicum in Europa. Nel quindicennio 2015- 2030 si assisterà una forte contrazione della popolazione studentesca ( tra i sei e i sedici anni): nel nostro Paese l’aliquota dei bambini- adolescenti passerà da 100 a 85. Solo da noi. La Spagna scenderà da 100 a 93, la Francia resterà quasi in pari fermandosi sulla media dell’Unione europea: 99. Germania e Regno Unito saliranno a 109 e la Svezia vedrà crescere il proprio comparto ragazzi di un quarto: da 100 a 125. Ora gli studenti italiani — e qui il conteggio si fa tra i tre e i diciotto anni — sono 9 milioni. Nel 2028 saranno 8 milioni. Mancano madri italiane ( meno dieci per cento nel periodo 2007-2017) e si sono ridotti i saldi dei flussi migratori internazionali. La novità illustrata dal lavoro della Fondazione Agnelli è che la diminuzione, in tempi più lunghi, riguarderà anche il Nord Italia. E questo introduce una nuova questione: gradualmente l’esodo di insegnanti meridionali verso il Settentrione del Paese si fermerà.
Nei prossimi dieci anni gli iscritti alla scuola primaria diminuiranno consistentemente in tutte le circoscrizioni. Alle superiori di primo grado (le medie) la crescita al Centro- Nord continuerà per alcuni anni, ma poi si fermerà e invertirà la direzione. La popolazione degli istituti superiori secondari crescerà ancora per un decennio al Centro- Nord. Al Sud, invece, proseguirà il declino. Alcuni esempi. Dal 2018 al 2028 i bambini frequentanti la primaria in Valle d’Aosta scenderanno del 19 per cento, in Friuli e in Emila del 17. In Campania del 20 per cento ( 2.371 classi in meno) e in Sardegna del 24: uno su quattro in meno, una crisi demografica acuta. Sono in totale 36.721 classi perse e significano, appunto, 55.600 posti cattedra cancellati nei prossimi dieci anni.
Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, dice: « Possiamo usare questi dati per restare fermi e risparmiare oppure per organizzare una scuola migliore».

Corriere 13.4.18
I 1.600 bimbi soli per colpa dei femminicidi
di Virginia Piccolillo


Dal 2000 a oggi sono 1.600 gli orfani di femminicidio. Bambini il cui destino rischia di essere segnato dal trauma. Stando ai dati forniti dal presidente del tribunale dei minori di Bologna Giuseppe Spada-ro: un adolescente su tre, tra quelli che commettono reati, ha assistito a scene di violenza in famiglia. E molte ragazze subiranno le stesse violenze dal partner. È un fenomeno allarmante ma ignorato quello emerso al convegno del Csm sulla violenza sulle donne. Basti pensare che dai pediatri al Tribu-nale dei minori di Bologna sono arrivate zero segna-lazioni. Il bambino vede; il 46%, secondo l’università di Bologna, in età presco-lare. Assorbe, si identifica. E si fa vittima o carnefice. Che fare? «La sola repres-sione non basta contro il cancro che corrode le nostre relazioni, il senso di umanità e di giustizia», dice il vicepresidente Csm, Giovanni Legnini. Una riorganizzazione degli uffici sì. E oggi ne saranno illustrate le linee guida. «Un uomo che uccise la compagna mi raccomandò pene più severe», dice la neopresidente del Senato Elisabetta Casellati. E chiede: «Non chiamateli assassini per amore: l’amore non c’entra». Le soluzioni ci sono. Processi rapidi. Fari accesi sulle separazioni: è lì che esplode la violenza e i figli sono spesso usati come armi. Non trattare chi de-nuncia come «un’isteri-ca»: capitò così a Lucia Annibali. E rendere utiliz-zabili le querele che le donne, minacciate, ritira-no. Ma soprattutto, rac-comanda Paola Balducci: «Nessuno sia indiffe-rente».

Corriere 13.4.18
Quei sette milioni di figli venuti al mondo con la fecondazione assistita
La fecondazione eterologa è una forma di procreazione medicalmente assistita che consiste in un programma di fecondazione in vitro utilizzando spermatozoi od ovociti donati, attraverso banche del seme, alla coppia interessata alla nascita. Si ricorre all’eterologa quando uno dei partner ha problemi di sterilità
di Elena Tebano


Sono trascorsi 40 anni da quando è nata la prima bambina concepita con la fecondazione assistita in vitro, Louise Brown, all’ospedale di Oldham, nel Regno Unito. Da quel 25 luglio 1978 si calcola siano 7 milioni i neonati venuti al mondo grazie a queste tecniche, diventate via via più complesse. E saranno sempre di più: secondo i dati presentati la settimana scorsa all’Ebart di Barcellona (uno dei principali congressi internazionali di medicina della riproduzione), continuano ad aumentare al ritmo di mezzo milione all’anno. In particolare in Europa, il continente dove più si ricorre alla fecondazione assistita: si è passati dai 100 mila cicli del 1995 ai 700 mila del 2014. L’Italia è l’ottavo Paese al mondo per numero di trattamenti (l’Istituto superiore di sanità registra 55 mila cicli di fecondazione in vitro iniziati nel 2015, l’ultimo per cui sono disponibili i dati, 10 mila gravidanze e 7.700 bambini nati nello stesso anno).
Una rivoluzione silenziosa che tocca uno degli aspetti più intimi e fondamentali della vita umana: come la diffusione della pillola ha separato la sessualità dalla riproduzione, le nuove tecniche di fecondazione assistita hanno separato la riproduzione dalla sessualità, ponendo interrogativi etici e morali senza precedenti, soprattutto quando si parla di fecondazione eterologa e maternità surrogata. Se da sempre infatti gli esseri umani sono disposti a fare di tutto pur di avere i figli che vogliono, oggi — come dimostra il caso del bimbo cinese nato da «genitori» morti 4 anni prima — è possibile realizzare l’impensabile. Basta entrare nei laboratori della clinica Eugin (uno dei maggiori gruppi privati che si occupano di fecondazione assistita in Europa) a Barcellona per rendersene conto: medici e tecnici in camice si aggirano sotto le luci soffuse per non correre rischi di danneggiare i gameti, tenendo in mano i vetrini che contengono i futuri figli di qualcun altro: embrioni fecondati in vitro, grazie agli spermatozoi o — più spesso — gli ovuli provenienti da donatori o donatrici.
Il diffondersi della riproduzione assistita dipende soprattutto dalla scelta (o dalla necessità) sempre più frequente di rimandare il momento in cui diventare genitori. Magari senza avere la consapevolezza di quali sono i limiti per la vita riproduttiva delle donne: «Dai 33-34 anni la quantità e la qualità degli ovociti peggiora molto — spiega Mario Mignini Renzini, responsabile dell’unità Ginecologia degli Istituti clinici Zucchi di Monza —. A 43 anni 95 donne su 100 non riescono ad avere figli neppure con la fecondazione assistita se usano i loro ovuli». Spesso gli aspiranti genitori lo scoprono solo quando tentano invano di avere un bambino. Persino i medici sono poco informati: secondo uno studio dell’Università di Torino la metà dei ginecologi italiani ritiene che il limite della fertilità per le donne sia tra i 44 e i 50 anni.
«Sempre più spesso, dopo aver tentato inutilmente la fecondazione assistita — spiega Antonio La Marca, Coordinatore clinico Eugin a Modena — gli aspiranti genitori scelgono la strada dell’eterologa, la fecondazione in vitro in cui l’ovulo o lo spermatozoo è donato da una terza persona». In Italia è legale dal 2014 per le coppie eterosessuali (tra le condizioni c’è che sia il futuro padre che la futura madre siano ancora in vita). Nel 2015 ne sono stati fatti 2.800 cicli, e sono nati così 601 bambini, mentre sono stati comprati all’estero — una pratica denunciata dalla Chiesa cattolica e da una parte del movimento femminista come sfruttamento commerciale — oltre tremila contenitori di ovociti e duemila di spermatozoi, soprattutto da Repubblica Ceca, Scandinavia, Grecia, Spagna e Svizzera. Rimane illegale la maternità surrogata, anche se si stima che circa 200 coppie italiane all’anno la facciano all’estero.

Repubblica 13.4.18
Non solo Facebook
Anche lo Zuckerberg cinese chiede scusa “Socialismo tradito”
di Filippo Santelli


PECHINO, CINA Il tono, composto e dimesso, è proprio lo stesso di Zuckerberg.
Invece che al Parlamento però, in Cina le scuse si rivolgono al Partito. E se del rispetto della privacy non ci si deve preoccupare poi tanto, quello dell’ortodossia comunista va messo sopra ogni altra cosa.
«Sono profondamente addolorato» per aver lanciato un servizio che «collide con i valori fondamentali socialisti», ha scritto in una nota ufficiale Zhang Yiming, il 34 enne a capo di Bytedance, impero di app e contenuti digitali a cui centinaia di milioni di cinesi ogni giorno incollano gli occhi. Startup valutata 20 miliardi, una delle più grandi al mondo, che ha fatto spesso accostare questo occhialuto e nerdissimo ingegnere informatico al fondatore di Facebook. Ora anche nella necessità di fare ammenda.
Perché il Partito sembra non gradire più le app di Zhang.
Quelle più serie come l’aggregatore di notizie Tuotiao, di cui l’autorità per i media ha bloccato il download per tre settimane. E quelle più frivole attraverso cui tanti giovani trovano un canale di sfogo e ironia. La piattaforma video Houshan, spezzoni di vita reale di persone qualunque dati in pasto alla Rete, è stata crocifissa dalla tv di Stato per i profili gestiti da mamme minorenni, una «glorificazione della gravidanza precoce». Mentre mercoledì è stata bloccata Neihan Duanzi, una applicazione per condividere barzellette e gag, con parecchia volgarità e qualche intrusione di pornografia. Nulla di politicamente sensibile. Ma la censura spara con il bazooka da quando Xi Jinping, negli stessi emendamenti in cui si incoronava a vita, ha introdotto i “valori fondamentali socialisti” in Costituzione. La polizia delle parole, riorganizzata e rafforzata, ha vietato ogni forma di parodia di film o opere storiche, bando ai The Jackal locali, e ha oscurato nei negozi digitali diverse app di notizie. Quasi a voler mostrare che neppure la piazza digitale, le sue celebrità e i suoi imprenditori sono sopra le regole. Zhang, nonostante 4 miliardi di dollari di patrimonio e schiere di ammiratori, ha abbassato il capo: «Negli ultimi anni abbiamo concentrato tutti gli sforzi nell’espandere il business, ma siamo rimasti indietro nel costruire un sistema di filtri».
Parole che calzano a pennello anche a Facebook e Twitter, per le annunciate battaglie contro propagatori di odio o fake news.
Questa però è la Cina, e i filtri che il suo Zuckerberg ha iniziato a programmare servono ad altro: «Assicurare che solo le informazioni positive siano distribuite».