martedì 3 aprile 2018

il manifesto 3.4.18
Winnie Mandela vive, malgrado tutto
Sudafrica. Lutto per la scomparsa di «Mummy Winnie», icona della lotta anti apartheid ed ex sposa di Nelson Mandela. Dimenticando per un giorno i lati più controversi della sua figura
Winnie Mandela negli anni '60-'70
di Marco Boccitto


Se ne va a 81 anni un’altra icona della lotta contro l’apartheid. Nonché ex moglie di Nelson Mandela. Una figura diventata via via più scomoda, quando non vera fonte d’imbarazzo, per l’uomo che ha cambiato la storia del Sudafrica.
LA MORTE DI WINNIE Madikizela-Mandela, avvenuta in un ospedale di Johannesburg, ha messo però a tacere per incanto, almeno per un giorno, le pesanti riserve proliferate sulle condotte che da risorsa inestimabile del movimento di liberazione l’hanno trasformata in problema. Ieri è stato il giorno del rispetto per una figura esemplare e tutt’altro che collaterale nel «lungo cammino verso la libertà» del popolo sudafricano: Mummy o Mam’, la chiamavano, intendendo con questo proprio «madre della nazione». Madre degenere, secondo molti, incurante dei rischi a cui aveva esposto il nuovo Sudafrica appena nato,
Anche i suoi detrattori più aggressivi hanno fatto un passo indietro per onorarne la memoria. Persino l’arcivescovo emerito Desmond Tutu, ultimo rimasto tra i “grandi vecchi”, che Winnie non aveva esitato a definire in una recente intervista un «cretino», ha avuto solo parole solenni per lei, ricordando il modo in cui non si fece piegare dall’arresto del marito e dai continui soprusi delle forze di sicurezza: «Possa riposare in pace e risorgere in gloria», ha chiosato. «Tutti i sudafricani hanno un debito con lei, che ne siano consapevoli o meno», gli ha fatto eco Njabulo Ndebele. che presiede la Nelson Mandela Foundation: «Il suo grido era il nostro».
Il tributo meno sospetto lo aveva ricevuto quando era ancora in vita, allorché Graça Machel, che  nel frattempo le era subentrata come nuova  first lady, rammaricandosi del fatto che la vita non le aveva rese esattamente delle amiche, le espresse ammirazione totale e la definì la sua «eroina».
MAMMA WINNIE era nata Nomzamo Winifred Zanyiwe Madikizela nel 1936 a Bizana, nell’Eastern Cape. Nomzamo, cioè «colei che si batte», è una delle prime donne nere a intraprendere studi sociali nel Sudafrica ostaggio della minoranza bianca. Ha 22 anni quando incontra a una fermata del bus di Soweto un avvocato da combattimento di nome Nelson Mandela. È una mattina del 1957. Due anni dopo Mandela, già incriminato, ottiene un permesso speciale per sposarla. Passano altri tre anni vissuti pericolosamente, in cui arrivano due bambine e l’arresto che fa da preludio alla condanna all’ergastolo. Winnie s’impegnerà anima e corpo nella campagna per la liberazione del marito, ma i tempi in cui il suo rilascio diventerà pressante domanda globale sono lontani.
PRIMA VENGONO GLI 8 ANNI durissimi di confino e libertà azzerate, con le piccole Zindzi e Zenani al seguito, nello Stato libero d’Orange. Isolata al punto quasi di impazzire, con i primi pettegolezzi abrasivi che comninciano a fiorire sul suo conto. Nel 1969 sperimenta gli effetti del nuovo Terrorism Act e del vecchio Suppression of Communism Act con 18 mesi di isolamento nella famigerata Prigione centrale di Pretoria. Il ritorno fuorilegge a Soweto per ritrovare l’abbraccio dei suoi coincide con la presa di conscienza internazionale sullo stato dell’arte in Sudafrica. E Winnie diventa la punta di diamante della campagna che porterà alla liberazione di Mandela nel 1990. Un percorso appena turbato dalle voci sul lusso sfrenato che regna nel cosiddetto Winnie’s Palace a Soweto, gli eccessi dei suoi guardiaspalle e l’uso spregiudicato del brand Mandela che infastidirà non poco Mandela.
winnie mandela 32
Il giorno del rilascio
QUANDO I DUE SI ALLONTANANO dal carcere mano nella mano ne viene fuori una delle immagini più iconiche di quanto sta accadendo, ma nessuno ci crede più. Due anni dopo le loro strade si dividono e nel 1996 sarà divorzio vero. Quello “politico” si era già consumato in modo turbolento, con una Winnie “di lotta e di governo” che Mandela a un certo punto sacrifica sull’altare dell’acrobatica transizione democratica in cui si era impegnato. La torbida vicenda del rapimento di quattro ragazzi e la morte di uno di loro accusato di essere una spia, costerà a Winnie una condanna a 6 anni e costringerà anche la Commissione per la verità e la riconciliazione, architrave della strategia di Mandela e Tutu per scongiurare il bagno di sangue, a occuparsi delle sue trame.
Da qui il brusco ridimensionamento. Che non riguarda certo chi l’ha sempre difesa e grida al complotto contro una delle voci più radicali e coerenti del partito, l’Anc che come amava ripetere lei era l’unica cosa che avesse veramente sposato. Il tatto non è mai stato il suo forte. E non le verrà in soccorso certo quando di Mandela dirà in sostanza che 27 anni di carcere lo hanno rammollito.
È COSÌ CHE NEGLI ULTIMI ANNI Winnie era sembrata la madrina naturale di un personaggio incendiario come Julius Malema, l’ex leader della Lega giovanile dell’Anc oggi a capo del partito scissionista Economic Freedom Fighters (Eff). Chissà se avrà in cuor suo gioito quando l’esproprio delle terre ai grandi propietari terrieri bianchi, uno dei cavalli di battaglia condivisi con lui, è stato a sorpresa preso per la prima volta in considerazione dall’Anc, il mese scorso. E chissà se avrà riconosciuto, in quell’apertura nei confronti della sinistra radicale da parte di Cyril Ramaphosa, nuovo leader del partito, un gesto simile alle mosse inclusive con cui Mandela amava spiazzare l’estrema destra razzista.