domenica 29 aprile 2018

il manifesto 29.4.18
Cline, dal romanzo di Ceram alla distruzione di Palmira
Storia della'archeologia. Quasi settant’anni dopo «Civiltà sepolte» Eric H. Cline affronta con piglio educativo e divulgativo gli stereotipi dello studio del passato di fronte alle nuove domande sul mestiere di archeologo: «Tre pietre fanno un muro», da Bollati Boringhieri
Nemrut Dagi, Turchia, tomba santuario del re Antioco I di Commagene, terrazza ovest, statue colossali di pietra
di Valentina Porcheddu


Eric H. Cline – docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e direttore del Capitol Archaeological Institute presso la George Washington University – aveva sette anni quando la madre gli regalò The Walls of Windy Troy, una biografia per ragazzi che narrava l’epica impresa di Heinrich Schliemann. Folgorato dal libro tanto da manifestare la sua intenzione di diventare archeologo, quest’episodio ricorda le vicende dello scopritore di Troia, che a quasi otto anni ricevette in dono dal padre un volume di Storia illustrata e, nel vedere la figura di Enea in fuga dalle fiamme, promise di ritrovare, un giorno, i resti dell’alta rocca di Priamo. C’è dunque un po’ di profetico fulgore in Tre pietre fanno un muro La storia dell’archeologia (Bollati Boringhieri «Saggi», traduzione di Stefano Suigo, pp. 478, euro 26,00) di Eric H. Cline, pubblicato a sessantasei anni di distanza dalla versione italiana di un’opera cult sull’archeologia universale: Civiltà sepolte. Il romanzo dell’archeologia era apparso per la prima volta in Germania nel 1949, a firma dell’illustre giornalista C.W. Ceram (pseudonimo di Kurt Wilhelm Marek), nutritosi con testi di argomento storico e archeologico durante la prigionia subita nella Seconda Guerra Mondiale.
A un lettore attento e appassionato del tema non sfuggirà che Tre pietre fanno un muro ricalca la struttura di Civiltà sepolte, d’altra parte dichiarata dallo stesso Cline quale fonte d’ispirazione giovanile. Ambedue i volumi tracciano le tappe di una disciplina che ben prima della nascita del mito cinematografico di Indiana Jones, era capace di affascinare i non specialisti per il carattere misterioso e la propensione all’avventura. E se l’intento di Ceram – delineato con sentimento da Donatella Taverna nell’edizione aggiornata di Civiltà sepolte (Einaudi 1995) – fu di mettere in risalto il valore umano e morale derivante non già da una caccia al tesoro ma dalla «sofferta, meditata, pensosa ricerca» che, attraverso la multiformità dell’uomo, conduce alla scoperta di se stessi, ugualmente nobile è l’obiettivo di Cline. Egli si augura, infatti, che il materiale contenuto nel suo saggio possa stimolare nel più vasto pubblico il rispetto per il patrimonio storico-archeologico, al fine di salvaguardarlo dalla piaga dei saccheggi e delle distruzioni che affligge sia il Vecchio che il Nuovo mondo.
Per lo studioso americano, che vanta l’esperienza di una trentina di campagne di scavo in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti, gli archeologi – pur provando a fermare l’«emorragia di eredità culturale» in corso – non possono sostenere l’intero fardello della tutela. Ogni abitante della Terra è chiamato a condividere la responsabilità di un passato da proteggere, soprattutto in conseguenza degli atti terroristici che hanno portato alla cancellazione di siti straordinari quali Palmira in Siria e Nimrud in Iraq. È con l’arma della verità scientifica che Cline intende inoltre contrastare gli pseudo-archeologi, divulgatori di teorie strampalate e produttori entusiasti di fake (old) news. Quest’ultima battaglia non è meno importante della prima, in un’epoca dove la comunicazione di massa – potenziata dall’avvento dei social-media – rischia di imboccare le strade incontrollate della fantasia, o peggio, dell’oltraggio al bene culturale considerato alla stregua di una merce.
Forse, l’autore avrebbe potuto compiere uno sforzo supplementare, non limitando alla prefazione le critiche (e i timori) sullo stato dell’archeologia, e citando nello sviluppo del testo qualcuna delle «cattive pratiche». Nel capitolo su Atlantide, ad esempio, egli espone le numerose ipotesi sull’identificazione dell’isola platonica con vari luoghi del Mediterraneo, tra cui spicca la greca Santorini, ma omette la recente «indagine giornalistica» che ha visto la Sardegna candidarsi – per mezzo di mostre patrocinate dall’Unesco e promozione turistica finanziata dalla Regione – a ricoprire il ruolo della leggendaria civiltà, scomparsa sotto il fango di uno tsunami inventato ad hoc. Nelle pagine dedicate alle Città del deserto, poi, sarebbe valsa la pena spendere qualche parola sulla triste fine di Palmira, la «Venezia delle sabbie», accennando magari alle problematiche che concernono la ricostruzione dei monumenti rasi al suolo dall’Isis.
Tuttavia, Cline ha il merito di aver elaborato quattro intermezzi, riuniti sotto il medesimo titolo di Scaviamo più a fondo, nei quali reagire alle domande che un archeologo si sente spesso rivolgere dai profani: come fate a sapere dove e in che modo scavare? A quando risale e perché si è conservato? Potete tenere quello che trovate? Le risposte consentono a Cline di prendere le distanze da tombaroli e studiosi improvvisati, argomentando in maniera dettagliata le metodologie di ricognizione e di scavo, e soffermandosi sui progressi degli ultimi decenni che hanno visto entrare in gioco sistemi di telerilevamento e applicazioni digitali.
Descritte con minuzia anche le tecniche di datazione, che offrono l’opportunità di raccontare alcune clamorose scoperte del ventesimo secolo quali i Guerrieri di Xi’an, custodi del viaggio nell’aldilà dell’imperatore cinese Qin Shi Huang, e la mummia di ötzi (o uomo del Similaun) intrappolata per migliaia di anni nei ghiacci delle Alpi. Degno di nota l’ultimo intermezzo sul destino degli oggetti, nel quale l’autore consegna dei precetti etici da tenere bene a mente in questo tempo di razzie e traffico illegale di reperti, alimentati sia da vittime di guerre e miseria talvolta perdonabili che da lucidissimi killer di civiltà.
Per il suo valore educativo, il libro di Cline andrebbe consigliato in particolare a coloro che – desiderosi di intraprendere studi antichistici – vogliono conoscere i segreti di una professione ancora eccessivamente stereotipata. Se, malgrado l’approccio romanzato, già Ceram aveva tentato di spogliare gli archeologi del ruolo di seducenti cercatori di tesori, con Cline ogni dubbio viene fugato: lo studio del passato, in tutte le sue declinazioni, rientra nel rango delle scienze, con regole codificate che non devono mai essere infrante a beneficio di interessi personali. Dal disvelamento dei siti vesuviani alle grandiose gesta di Howard Carter che mostrò all’Egitto il volto del faraone bambino passando per l’immancabile saga di Heinrich e Sophia Schliemann fra Troia, Tirinto e Micene; dalle grotte di Chauvet, Altamira e Lascaux dove splendono primordiali sussulti d’arte alle piramidi mesoamericane abbracciate dalla giungla fino agli abissi del mare popolati dal relitto delle meraviglie di Uluburun e dal sommergibile Hunley, la prosa di Cline è priva del piglio avvincente e dello stile colto di Ceram: ma ha il pregio di arrivare a chiunque con un linguaggio semplice e ricco di aneddoti personali, specie nei capitoli che riguardano le ricerche dell’autore a Megiddo (la biblica Armageddon) e Tel Kabri.
In un lavoro di così ampio respiro le lacune sono inevitabili ma la corposa bibliografia in appendice è di aiuto per eventuali approfondimenti. Originale, infine, l’epilogo del volume sull’archeologia del futuro. Riflettendo su cosa lasceremo ai posteri e sulle divertenti interpretazioni che potrebbero scaturire nel riportare alla luce gli edifici diroccati di Starbucks e McDonald’s, Cline ribadisce l’esigenza di preservare le rovine del passato per le generazioni che verranno.