Il Fatto 7.4.18
Moro, la commissione e il lavoro non finito
di Sandra Bonsanti
Quella
parola che ti aspetti finalmente la trovi verso la metà della relazione
finale. È innegabile, hanno scritto i membri dell’ultima commissione
sull’uccisione di Aldo Moro che “con il concorso di forze diverse si
venne a creare una posizione processuale particolarmente garantita”
nella quale il ruolo di testimone di Valerio Morucci scoloriva in una
opaca funzione di consulente, “quasi realizzando concretamente una
trattativa che veniva pubblicamente negata”.
Una trattativa per
chiudere gli anni del terrorismo brigatista. Lo Stato, impersonato da
pubblici ministeri, Servizi di sicurezza e uomini politici, ha trattato
con le Brigate rosse una verità “dicibile” sulla morte del presidente
della Democrazia cristiana. Tutti costoro hanno nomi e cognomi. Ma
quello su cui ancora forse non abbiamo avuto il tempo di riflettere è
che si propose allora (un periodo che va tra la fine degli anni Ottanta e
la fine dei Novanta) qualcosa di molto simile all’altra trattativa:
quella che pochi anni dopo vide coinvolti alcuni degli stessi
protagonisti politici in un patto con i boss di Cosa Nostra.
Viene
da pensare che sia un “vizio” delle nostre istituzioni, quando si
tratta di spiegare vicende troppo scomode se fossero completamente
conosciute, si cercano accordi che chiudano per sempre quella fase
storica, e consentano di aprirne un’altra, con nuovi interlocutori. Due
trattative dunque, diverse eppure con elementi in comune: le carceri, i
presidenti Cossiga e Scalfaro, i servizi segreti e gli uomini della P2, e
sempre sullo sfondo Gladio e le verità negate e altre vittime senza una
pace.
Ho pensato a questa storia che si ripete riflettendo sulle
conclusioni della Commissione su Moro. Una volta affermatasi, di
processo in processo, la verità di Valerio Morucci (poi condivisa da
tutti o quasi i capi brigatisti) e ricondotta l’uccisione dello statista
a un doloroso capitolo di terrorismo nostrano, sono di colpo spariti
tutti quei collegamenti con i servizi segreti stranieri, con le centrali
in Francia, con le minacce e le intrusioni degli anglo-americani, con i
referenti italiani della P2, con gli ambienti infiltrati
dell’Autonomia, con il dover fare i conti con la verità indicibile: Moro
fu ucciso e la sua scorta sterminata perché il suo progetto politico
era insopportabile per gli interessi delle potenze straniere. Ed è
importante il racconto che si snoda nel libro di Giovanni Fasanella (Il
puzzle Moro, Chiarelettere) che già contiene le conclusioni della
Commissione.
A questo punto però resta una domanda importante: la
Commissione non ha potuto oppure non ha voluto fare qualche passo
avanti, individuare gli strateghi e i mandanti stranieri e italiani,
mettendo alle strette i pochissimi testimoni ormai rimasti?
Un
lavoro importante, dunque, quello della commissione Fioroni, purché non
sia considerato definitivo o ci si affidi alla speranza che la
magistratura avrà più coraggio. Attorno a noi giornalisti impegnati
nella cronaca dei 55 giorni, così vicino alle nostre strade, si stava
svolgendo l’atto di terrorismo più grave del Ventesimo secolo. Era
impossibile capire tutto allora. Così come era difficile, nel ’92,
intuire tutte le finalità e i beneficiari dell’uccisione di Falcone e
Borsellino. Ma oggi non possiamo dimenticare e nemmeno accettare uno
Stato che insista a rinunciare alla verità per trattarne una di comodo
con i soliti mandanti, strateghi ed esecutori.