domenica 1 aprile 2018

Il Fatto 1.4.18
Gideon Levy, reporter di Haaretz, l’unico quotidiano israeliano ancora realmente indipendente
“La destra ebraica protetta dalla cricca della Casa Bianca”
intervista di Roberta Zunini


La voce di Gideon Levy, reporter di Haaretz – l’unico quotidiano israeliano ancora realmente indipendente – minacciato a più riprese dai coloni e dai sostenitori della destra religiosa al governo da due legislature, questa volta è stanca.
Perché è stanco signor Levy?
Perché non vedo alcun cambiamento in vista nell’atteggiamento di Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Anzi, con Trump, Israele ormai si sente protetto qualsiasi cosa voglia fare. E stanco perché l’Onu, come ha dimostrato la sua debole e vigliacca reazione al massacro perpetrato l’altro ieri dall’esercito israeliano contro i civili di Gaza, ormai è definitivamente nelle mani degli Stati Uniti, ossia della cricca razzista e integralista installatasi nella Casa Bianca al seguito di Trump e del suo genero Jared, ebreo americano, esponente della potente famiglia Kushner, da sempre finanziatrice delle colonie illegali nei Territori palestinesi.
La destra ebraica e i religiosi che formano l’attuale governo non temono una nuova Intifada?
È un rischio che non ha problemi a correre perché l’unico obiettivo di questo governo è rimanere al potere. E per rimanerci sa che deve solleticare gli istinti più bassi e alimentare le paure più irrazionali della società israeliana sempre più oltranzista e xenofoba anche a causa del lavaggio del cervello mediatico. La paura principale è il terrorismo che viene facilmente sovrapposto ad Hamas. Che, pur avendo dimostrato di non essere in grado di minacciare davvero l’esistenza di Israele, viene additata come il demonio; ma, ciò che è più grave, è che tutti gli abitanti di Gaza vengono ormai considerati dalla maggior parte degli israeliani come terroristi a priori. Molti si scordano che a Gaza ci sono anche palestinesi di religione cristiana. Per quanto riguarda una terza intifada, non credo ci sarà. I palestinesi sono stanchi di combattere e sono troppo indeboliti dal gioco sporco delle grandi potenze e dei paesi arabi che hanno contribuito a dividerli al proprio interno, rendendoli ancora più deboli.
Ma i responsabili di Hamas manipolano la popolazione che governano nella Striscia e usano i civili come carne da macello. Non ultima la bimba di 7 anni mandata nella zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza e Israele, come ha denunciato proprio il suo giornale, per provocare i soldati israeliani.
Ciò che di sbagliato e criminale fa Hamas va ovviamente riportato, come tutte le altre notizie di interesse pubblico. Resta il fatto che l’esercito israeliano non ha scusanti per il massacro, da scrivere a caratteri maiuscoli, che ha perpetrato lungo la zona di sicurezza voluta da Israele per umiliare e provocare la gente che ha, anzi aveva, i campi con cui si sostenta proprio in quella fascia di territorio.
Questa volta le Forze di Sicurezza Israeliane (IDF) non si sono fatte scrupolo di reprimere nel modo più violento la manifestazione voluta da Hamas per ricordare il ‘diritto al ritorno’ promesso loro già nel 1948 dall’Onu?
Da anni Israele e le nostre forze di sicurezza violano apertamente i diritti dei palestinesi, ribadisco vittime innocenti della più lunga occupazione della storia contemporanea, nell’indifferenza o falsi strali della comunità internazionale. Israele si è sempre fatto beffa delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Purtroppo non c’è nulla di nuovo sotto il sole.
Israele ha commesso un crimine di guerra a Gaza questa volta?
Lo ha fatto anche prima, e più volte. Ma non lo definirei un crimine di guerra , semplicemente perché a Gaza non vi è guerra, c’è solo sopruso e ingiustizia. L’esercito israeliano è uno dei più forti e potenti al mondo e continua a spacciarsi per quello anche più etico quando invece, nella realtà, fa il tiro al piccione contro persone imprigionate da decenni e private di tutto proprio dallo stesso Stato israeliano. L’esercito più potente ed etico che ammazza dei disperati perché gli tirano addosso delle pietre. Vergognoso.
Crede che sia finita qui?
No, purtroppo. Da qui al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, ci saranno probabilmente, altri massacri ad armi impari. Se non scoppierà la Terza Intifada penso che tutto finirà come sempre. Ossia con l’assoluzione di Israele da parte di un mondo cinico e indifferente.

il manifesto 1.4.18
Palestina, una tragedia «prevedibile»
di Tommaso Di Francesco


Decine di tiratori scelti israeliani prendono la mira sul dosso di una trincea scavata ai bordi della Striscia di Gaza. I cecchini inviati dai comandi militari e dal governo di Tel Aviv non devono ricaricare, le loro armi di precisione permettono più bersagli. E non sbagliano. Nell’arco di pochi minuti una immensa manifestazione di popolo si trasforma in un cimitero palestinese. L’ennesimo. Ma naturalmente era «prevedibile». Era annunciato dalle parole del ministro-falco Lieberman (ma il governo israeliano a guida del corrotto Netanyahu è di estrema destra ed è tutto di falchi): chi avesse osato attraversare il limite tra Gaza e Israele – artificiale, perché Israele non ha confini definiti – sarebbe stato «un uomo morto».
Così il tiro al piccione – altro che «battaglia» come hanno titolato tanti giornali italiani – contro adolescenti, donne, bambini, contadini (mentre scriviamo i morti, tutti palestinesi, sono 17 e i feriti più di 1.500) non viene nemmeno condannato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. La strage di Gaza è terrorismo di Stato, ma era «prevedibile».
Insomma, di che lamentarsi se si conferma la condizione disperata dei palestinesi? Il loro primo dramma è di essere divisi, ma sul tema del ritorno invece sono uniti. Ieri come non mai erano in tanti, arrivati da tutti i Territori occupati, dove si è protestato anche a Hebron e Ramallah, per ricordare al mondo che si è scordato di loro che la protesta della Giornata della terra – nella stessa data del 1976 in cui ci fu un’altra strage per la confisca di terre ad arabo-israeliani – rivendica il diritto a tornare lì dove sono stati cacciati nel 1948 nella forma della pulizia etnica: per quella che chiamano Nakba (Tragedia), e che invece è l’evento fondativo dello Stato d’Israele. Il quale considera invece il «diritto al ritorno» come costitutivo della propria natura esclusiva di Stato ebraico. Ai palestinesi al contrario non è permesso nemmeno immaginarlo il ritorno, come è «prevedibile» dati i rapporti di forza, la violenza militare dell’occupazione e della repressione che ha riempito di prigionieri politici le galere israeliane dove langue il leader legittimo della Palestina, Marwan Barghouti. Ai palestinesi, «prevedibilmente» è permesso solo vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali; come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania e Gerusalemme est), con due Risoluzione dell’Onu (il diritto internazionale, non le pretese palestinesi) che impongono allo Stato occupante di liberarli; e sempre più nell’indigenza, chiusi dentro la prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza.
Questa è la condizione palestinese, con il Muro di Sharon che ruba terre, posti di blocco, sradicamento di colture, uccisioni quotidiane, una miriade di insediamenti colonici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale di quello che poteva essere lo Stato di Palestina. Per una soluzione di pace ormai «prevedibilmente» impossibile.
Del resto gli accordi di pace, dopo l’uccisione nel 1995 del premier israeliano Ytzhak Rabin ad opera di un estremista integralista ebreo, era «prevedibile» che diventassero carta straccia. Ora poi che Trump ha deciso a maggio – dura sei settimane, fino a quella data, la grande protesta del popolo palestinese – di spostare a Gerusalemme l’ambasciata Usa, di fatto riconoscendo la legittimità dell’occupazione militare d’Israele. Ma era «prevedibile». Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 all’Università del Cairo, dichiarava di «sentire il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato»; e dopo gli slogan e i voltafaccia dell’Unione europea che si trincera nel silenzio, mentre ogni governo occidentale fa affari con armi e tecnologia, con patti militari – come fa l’Italia – con un paese, Israele, da 70 anni in guerra e che occupa illegalmente terre di un altro popolo.
Il governo Netanyahu dichiara a difesa del suo operato criminale che «si tratta di azioni terroristiche». Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta pacificamente come è accaduto nel venerdì di Pasqua, ricorda solo le lotte di liberazione dei popoli, e i suoi sacrosanti diritti sanciti da ben tre Risoluzioni dell’Onu (una del 1949 proprio sul «ritorno»).
Eppure non dobbiamo distogliere dalla nostra considerazione la questione del terrorismo, quello jihadista, quello che viene agitato spesso a sproposito in Italia, e che nelle capitali europee e occidentali ormai vede la scia di sangue di ritorno per le guerre in Libia e in Siria che abbiamo scientemente contribuito a far deflagare. Perché è giusto ricordare che nell’immaginario fondativo di al-Qaeda e della sua diaspora anche di nuova generazione, c’è la questione dell’occupazione dei luoghi sacri dell’Islam (da quelli dell’Arabia saudita fino a Gerusalemme).
E la questione palestinese, con le sue nuove stragi impunite, abbandonata dall’opinione pubblica occidentale, dalla “sinistra che non c’è più” e dal mondo intero, consegnata dalla diplomazia mondiale all’elemosina dell’Onu e nelle mani dei “sultani” Al Sisi e Erdogan, può finire ancora peggio. Può essere ulteriormente straziata da rivendicazioni terroriste di matrice jihadista. È un pericolo reale.
Allora, o si esce dal silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti, come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, mentre da una parte c’è solo lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, e dall’altra invece lo Stato palestinese e la sua «Autorità» semplicemente non esistono. Oppure sarà troppo tardi e tutto diventerà «prevedibile».

La Stampa 1.4.18
Nella Striscia la marcia va avanti
“Resteremo nelle tende alla frontiera”
Rabbia e unità tra i palestinesi: “Non crediamo nella pace”
di Francesca Paci


A Gaza è il giorno del pianto. Dopo la rabbia di venerdì gli abitanti della Striscia si stringono intorno alle famiglie delle 16 vittime, quasi tutte di Khan Yunis e Rafah, le zone più vicine al confine con Israele e dove dunque gli scontri sono stati più violenti. Ma i funerali e le veglie di preghiera sono sparsi a macchia di leopardo, a el-Bureij, a Jabalya, nei campi a Est di Gaza City.
«Ritorneremo lì domani (oggi, ndr) e nei prossimi giorni, mi siederò davanti alla tenda come ho fatto venerdì e guarderò il muro che mi separa dai resti del mio villaggio, si vede ancora se si sale sui palazzi più alti di Gaza». A parlarci è Umm Kadija, 65 anni, originaria di Simsim, una decina di km a Nord di Gaza in territorio israeliano, vicino a Sderot. Come ricostruisce un libro dello storico Benny Morris, gli arabi furono spinti a lasciare il villaggio nel ’48: la famiglia di Kadija restò lì, dove lei è nata, fino al ’57, quando fu fondato il kibbutz HaNer e gli ultimi palestinesi migrarono a Gaza.
Tutti, al telefono, giurano che torneranno al confine e chi non lo farà è convinto che saranno in migliaia nei prossimi giorni.
«Gli israeliani non hanno sparato per disperdere la folla, solo un quarto dei ricoverati, tra cui donne e bambini, è ferito alle gambe, tutti gli altri sono stati colpiti al petto» racconta un infermiere di al Shifa, l’ospedale che a ogni operazione bellica israeliana viene indicato dai gaziani come quello nei cui sotterranei si nascondono i loro leader, sempre al sicuro diversamente dal resto della popolazione. Oggi però l’umore è diverso. Nessuno ha voglia di criticare Hamas, il partito islamico al potere a Gaza dallo scisma con Fatah nel 2007 e al cui indirizzo, sottovoce, gli improperi si moltiplicano da anni.
«La marcia del ritorno è stata organizzata da tutte le fazioni palestinesi, Hamas, Fatah, Jihad islamica, tutte unite per la prima volta da anni» ci spiega Walid, 26 anni, disoccupato come il 58% dei coetanei. È uno di quelli che non ha marciato venerdì e non sa se marcerà, ma, dice, «la speranza qui è morta, nessuno crede più in nulla, nella pace, nella riconciliazione, neppure nella nostra utopica vittoria. Non ci resta che fare massa, i giovani e le pietre sul modello della prima intifada per mostrare al mondo come agisce l’unica democrazia regionale».
Rabbia, depressione, umor nero. «Questo tunnel senza uscita sta riportando la gente alla religione - ragiona Jehad, 42 anni, insegnante, uno che perfino a Gaza riesce a svagarsi in barba a cosa è halal e cosa è haram -. Nel mio quartiere ci sono 5 moschee e sono sempre state assai frequentate ma da un paio d’anni a questa parte sono piene zeppe e da quando la nuova amministrazione Usa ha deciso per una politica unilaterale lo spazio non basta più e le persone seguono i sermoni del venerdì dalla strada».
La paura è che si ricominci, come ogni 2 anni, operazione Piombo fuso, Colonna di Nuvole, Margine di Protezione. «I droni che ci ronzano sulla testa sono routine, se smettessero non riuscirei più a dormire, ma la guerra è guerra, le mie figlie di 14 e 12 anni mi chiedono se ce ne toccherà un’altra» nota Yasmine da Jabalya. Suo fratello Khaled, 22 anni, andrà al confine: le ha detto che non darà soddisfazione ai cecchini.

il manifesto 1.4.18
Su Gaza scende il silenzio arabo e dell’Onu
Striscia di Gaza. Mentre si piangono i giovani uccisi da Israele, dalla comunità internazionale e dai Paesi arabi giungono segnali deboli a sostegno dei palestinesi. Il Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres propone una indagine indipendente che gli Usa sono già pronti a bloccare
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Arabi, musulmani dove siete. Arabi, musulmani dove siete» scandivano ieri le ‎migliaia di palestinesi che hanno partecipato ai funerali di 14 delle 16 vittime del ‎tiro al bersaglio dai cecchini dell’esercito israeliano durante la Grande Marcia del ‎Ritorno organizzata due giorni fa nel Giorno della Terra. ‎«Non ci aspettiamo nulla ‎dagli occidentali ma il silenzio dei Paesi arabi non lo accettiamo» spiegava ieri ‎Amjad durante i riti funebri. Amjad invece ripeteva che ‎«la marcia era pacifica» e ‎che ‎«Israele un giorno sarà punito». Rabbia, dolore, amarezza segnano in queste ‎ore lo stato d’animo dei palestinesi, non solo a Gaza. In Cisgiordania ieri si è ‎fermato un po’ tutto in segno di lutto: negozi, attività lavorative, gran parte dei ‎trasporti. A Hebron e alla periferia di altre città palestinesi gruppi di giovani ‎hanno scaricato la loro rabbia scagliando pietre verso le camionette israeliane. Alla ‎Porta di Damasco di Gerusalemme Est agenti dei reparti antisommossa della ‎polizia hanno disperso un raduno di un centinaio di palestinesi, in gran parte ‎donne. ‎
In queste ore si teme per la vita di non pochi dei 773 palestinesi che venerdì ‎sono stati colpiti dai proiettili sparati dai tiratori scelti israeliani. Altri 148 sono ‎stati feriti da munizioni rivestite di gomma, 422 sono rimasti intossicati dai gas ‎lacrimogeni (lanciati anche dai droni) e altri 88 per cause diverse. Altri dieci ‎palestinesi sono stati feriti ieri. ‎‎«I morti sono tutti giovani, tra i 17 e i 35 anni. Ci ‎sono feriti molto gravi raggiunti all’addome e al torace che lottano tra la vita è la ‎morte. Chi è stato colpito a una gamba o a un braccio può dirsi fortunato ma solo ‎in parte perché i proiettili hanno lacerato muscoli e distrutto vasi sanguigni», ci ‎spiegava ieri Ashraf al Qidra, portavoce del ministero della sanità a Gaza. I ‎palestinesi gridano al massacro, pianificato, dicono, con giorni di anticipo da ‎Israele che ha preparato l’opinione pubblica mondiale descrivendo la marcia a ‎Gaza come una strategia volta a ‎«compiere atti di terrorismo» e a colpire le ‎cittadine e i kibbutz ebraici oltre le barriere di demarcazione. Per questo ‎continuano a postare sui social filmati e foto che mostrano ragazzi colpiti dai ‎cecchini lontano dalle postazioni militari. Il caso più limpido è quello di Abdel ‎Fattah el Nabi, 18 anni, ucciso con un colpo di grande precisione mentre torna dai ‎suoi amici con in mano un vecchio pneumatico da bruciare. L’esercito israeliano, ‎denuncia il centro al Mezan, almeno fino a ieri sera non aveva ancora consentito ai ‎soccorritori di entrare nell’area di Jahr al Dik, nel Wadi Gaza, dove si troverebbero ‎due dimostranti, Mohammed Al Arabiyeh e Musab Al Saloul, rimasti feriti ‎gravemente o forse morti. ‎
Da Israele giungono due condanne della brutalità dell’esercito – del Centro per i ‎diritti umani B’Tselem e della nuova leader del partito Meretz, Tamara Zandberg – ‎mentre la reazione ‎internazionale che i palestinesi si aspettano contro Israele non ‎c’è stata, per non parlare del silenzio dell’Arabia saudita e delle altre monarchie del ‎Golfo impegnate a stringere dietro le quinte relazioni militari e strategiche con Tel ‎Aviv. Il segretario generale ‎dell’Onu Guterres ha chiesto una ‎«indagine ‎indipendente e trasparente‎» sui morti di Gaza ‎ma il Consiglio di Sicurezza venerdì ‎notte si è limitato a chiedere alle parti in conflitto di ‎evitare altre violenze. Gli ‎Stati uniti frenano all’Onu sulla condanna di Israele e dall’Europa arrivano ‎dichiarazioni di routine che non spostano di un centimetro la situazione. ‎«L’Ue ‎ribadisce la richiesta di porre fine alla chiusura di Gaza e di aprire pienamente i ‎varchi, affrontando i legittimi timori di Israele per la sicurezza…Una soluzione ‎politica per Gaza e una ripresa dei negoziati di pace verso una soluzione a due ‎Stati sono l’unico modo per i palestinesi e gli israeliani di vivere fianco a fianco in ‎pace e sicurezza‎», sono le solite frasi riciclate per l’occasione dalla “ministra degli ‎esteri” dell’Ue, Federica Mogherini.‎
La popolazione di Gaza non accetta più di vivere nel blocco asfissiante in cui è ‎tenuta da Israele con la collaborazione dell’Egitto e al quale contribuisce il ‎presidente dell’Anp Abu Mazen che con le sue “sanzioni punitive” danneggia solo ‎la popolazione civile. E mentre i media, inclusi alcuni giornali italiani, si ‎affannano a riferire di un “piano” di Hamas per invadere Israele, per affossare Abu ‎Mazen e parlano di “guerriglia” sul confine, si tace intenzionalmente che durante ‎la Grande Marcia del Ritorno gran parte dei circa 30mila partecipanti hanno ‎invocato la fine dell’assedio e l’inizio di una vita finalmente libera. All’orizzonte ‎intanto c’è l’ombra di nuova guerra. ‎«Se la violenza (le proteste palestinesi, ndr) ‎continuerà lungo il confine di Gaza, Israele espanderà la sua reazione fino a ‎colpire i militanti anche al di là della frontiera‎» ha avvertito il generale Ronen ‎Manelis, portavoce militare israeliano.‎

Repubblica 1.4.18
La scrittrice palestinese Suad Amiry
“La nostra rivolta viene dal basso e riguarda tutti”
di An. Gu.


«Questa è una protesta potentissima perché non violenta. Perciò gli israeliani sono spaventati. Non abbiamo un leader come Gandhi, ma la nostra rivolta si ispira a lui». Suad Amiry è forse la più grande scrittrice palestinese vivente. Ha abitato per tanti anni a Ramallah, in Cisgiordania, e sulla tragica questione che da molti decenni affligge il suo popolo e quello israeliano ha pubblicato opere come Sharon e mia suocera, Murad Murad e Niente sesso in città (Feltrinelli), in cui ha sempre rivendicato diritti e libertà per i palestinesi. Stavolta, però, qualcosa è cambiato.
Amiry, che cosa ne pensa delle ultime proteste di Gaza al confine con Israele?
Provocazione o disperazione?
«Userei un altro termine: occupazione. Noi palestinesi dobbiamo ottenere la nostra libertà, la nostra indipendenza, la terra dalla quale siamo stati cacciati, inclusa la mia famiglia da Jaffa. E forse ora abbiamo trovato un modo efficace per rivendicare i nostri diritti. Questa è una protesta non violenta, che non è manipolata da Hamas.
Nella prima intifada c’erano solo uomini a combattere, adesso ci sono le donne in strada, insieme a vecchi e bambini. Se siamo presenti noi donne, può stare sicuro che questa è una protesta pacifica».
Qual è la ragione di questo cambio di strategia?
«Dopo l’annuncio degli Stati Uniti su Gerusalemme capitale abbiamo cominciato a pensare a metodi alternativi contro l’occupazione degli israeliani, che ora sono molto preoccupati. I loro militari sanno fronteggiare la guerra, ma non le persone pacifiche e questo è dimostrato dalla reazione spropositata di venerdì contro molta gente inerme, cittadini che da dieci anni sono sotto assedio, senza il diritto a movimento, acqua, elettricità».
Lei non crede che le proteste siano state dirette soprattutto da Hamas per scopi politici?
«No. Questo è un movimento che viene dal basso, dal popolo: donne, bambini, giovani, sono tutti in strada».
Con quale scopo adesso?
«Far sì che la comunità internazionale si accorga di noi.
Se massacreranno centinaia di palestinesi inermi, voglio vedere come reagiranno Stati Uniti ed Europa, la quale fa tanto, giustamente, per i rifugiati di tutto il mondo, ma se si tratta dei palestinesi, tace».
La stragrande maggioranza delle proteste però c’è stata a Gaza. La reazione dei palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme Est è stata decisamente minore.
«Sbagliato. Questo sarà un movimento generale e pacifico che si espanderà presto. E le donne saranno fondamentali.
Personalmente, per la prima volta dopo tanti anni, ho sentito il bisogno e la voglia di tornare in strada a manifestare. Non abbiamo un Gandhi, ma ora noi palestinesi stiamo manifestando proprio come lui».
Manca però un leader ai palestinesi, già divisi, e il presidente Abu Mazen appare sempre meno influente.
«Abu Mazen sta perdendo ogni autorità perché i suoi sforzi sinora non hanno prodotto niente. È destinato alla sconfitta perché Israele e Stati Uniti lo hanno praticamente sfruttato e delegittimato, visto che non vogliono veramente negoziare con i palestinesi, ma comprimerci in terre sempre più anguste. Però anche Hamas ormai non ha più molta influenza. I palestinesi hanno capito che il futuro è nelle loro mani, non nei politici come Fatah, il partito di Abu Mazen, o Hamas».

il manifesto 1.4.18
La frontiera dove l’Europa ha perso l’anima
Alpi, migranti da Bardonecchia verso la Francia
di Marco Revelli


Colle del Monginevro, 1.900 metri di quota, a metà strada tra Briançon e Bardonecchia. È su questa linea di frontiera che oggi batte il cuore nero d’Europa. È qui che la Francia di Emmanuel Macron ha perso il suo onore, e l’Europa di Junker e di Merkel la sua anima (quel poco che ne rimaneva). In un paio di mesi, in un crescendo di arroganza e disumanità, i gendarmi francesi che sigillano il confine hanno messo in scena uno spettacolo che per crudeltà ricorda altri tempi e altri luoghi.
È appunto a Bardonecchia che si è verificata l’irruzione di cinque agenti armati della polizia di dogana francese nei locali destinati all’accoglienza e al sostegno ai migranti gestiti dall’associazione Rainbow4Africa, per imporre con la forza a un giovane nero con regolare permesso in transito da Parigi a Roma di sottoporsi a un umiliante esame delle urine, dopo aver spadroneggiato, minacciato e umiliato i presenti.
Davanti a quello stesso locale, a febbraio, ancora loro, gli agenti di dogana francesi, avevano scaricato come fosse spazzatura il corpo di Beauty, trent’anni, incinta di sette mesi e un linfoma allo stadio terminale che le impediva il respiro. Aveva i documenti in regola, lei, ma non Destiny, il marito, così l’implacabile pattuglia l’aveva fatta scendere dal pullman che da Clavier Oulx porta alla terra promessa, quella dove lo jus soli avrebbe permesso al loro figlio di nascere europeo, e incurante delle condizioni disperate l’aveva abbandonata a terra, al gelo.
Ci avevano dovuto pensare i volontari di Reinbow4Africa a portarla di corsa all’ospedale e di lì alla clinica Sant’Anna di Torino, dove un’equipe medica eccezionale per competenza e umanità riuscirà a salvare almeno il bambino, che nascerà di 700 grammi e si chiamerà Israel.
Sempre lì, il 10 di marzo, su quella frontiera maledetta, sempre loro, i maledetti flic di dogana, avevano intercettato l’auto di Benoit Ducos, guida alpina e volontario umanitario che aveva appena salvato una donna incinta di nove mesi sul sentiero innevato. E avevano provveduto a incriminarlo per un reato di umanità che (nel mondo alla rovescia di questo diritto innaturale) potrebbe costargli cinque anni. È un uomo solare Benoit Ducos, ha lo sguardo chiaro del giusto. «Ho fatto solo una cosa naturale», ha detto. Non così coloro che l’hanno perseguito, duri, brutali, sordi a ogni richiamo a una qualche sia pur generica idea di solidarietà: così li descrive chi li ha visti all’opera.
È impossibile pensare che dietro questi comportamenti reiterati non ci sia un ordine dall’alto. Che dietro la vergogna del Monginevro non ci sia l’infamia dell’Eliseo, e la firma di quell’Emmanuel Macron che a parole si presenta come campione di europeismo e di libertà, comprensivo delle ragioni dell’Italia e critico della sua solitudine sul tema migranti, ma che nei fatti alza muri come un Orbán qualunque. Ma è anche necessario aggiungere che al fondo di ogni catena di comando ci sta un uomo, che quell’ordine lo esegue. E che chi nella neve dei 1.900 metri ha vessato, offeso, esposto alla malattia e alla morte altri esseri umani, perseguitato i soccorritori e angariato i fragili, porta per intero la responsabilità della propria abiezione.
Non sempre è così. Ci sono tempi in cui bene e male in fondo non si rivelano nella loro netta opposizione. E ce ne sono altri – questo è uno di quelli – in cui invece gli opposti si polarizzano.
“Giusti” e “demoni” appaiono nella loro netta opposizione, divisi dal filo di rasoio della scelta. Che sia la guida alpina che salva mettendo la propria professione al servizio dell’umanità o all’opposto il procuratore della repubblica che incrimina chi salva, in mare o sui monti. Che sia il medico che si prodiga per salvare una vita o all’opposto un agente che se ne frega e forse si compiace nell’ostacolarne il soccorso. L’antitesi è oggi squadernata davanti a noi. E a ognuno è chiesto di scegliere.
È un bene che oggi in tanti, spinti persino da un qualche senso di orgoglio nazionale, si schierino con i nostri “giusti”, e chiedano di far pagare ai francesi la loro ingiustizia. Così come è necessario che le nostre autorità chiedano conto a quelle francesi delle violazioni gravi commesse. Meglio sarà se, da questa lezione, si imparerà a comportarsi da giusti quando toccherà a noi – a ognuno di noi, nei territori o in Parlamento – testimoniare la propria appartenenza alla schiera eletta di chi la giustizia e l’umanità le sa e le intende praticare sempre.

Il Fatto 1.4.18
Ossessione sicurezza, l’Europa implode
Rimpallo infinito. I nostri confinanti ci chiedono quello che noi chiediamo a Libia e Tunisia: “Teneteli di là”
di Andrea Segrè


I nodi vengono al pettine. Il sistema di sicurezza europeo contro i migranti produce l’implosione dell’Europa stessa. I francesi, così come gli austriaci o i tedeschi, non si fidano della nostra capacità di controllare i confini e non solo li chiudono, ma entrano nel nostro territorio a fare ciò che pensano dovremmo fare meglio.
È esattamente quanto noi pensiamo sia giusto fare in Libia, Tunisia, Albania… Ascoltate queste frasi: “Non abbiamo spazio, dobbiamo fermarli prima della frontiera”. “I Paesi di transito devono tenerseli, perché non possiamo subire noi tutto il peso dell’accoglienza”. “Le porte d’ingresso vanno controllate e se non lo fanno loro dall’altra parte lo faremo noi per loro”. Chi le dice a chi? I francesi a noi? Noi ai libici? I greci ai turchi? O gli ungheresi ai greci?
Il gioco al rimpallo è infinito. La fiducia si sfalda progressivamente. L’unico principio è: “Non qui da noi, devono stare dall’altra parte, non importa come e dove”. Il collasso di questo sistema è dietro alle porte. E le conseguenze possono essere moto gravi anche per “noi cittadini di serie A” non solo per quegli “sfigati di migranti”. Il passo successivo è evidente: beh allora chiudiamo tutto e anche i vostri figli col cavolo che vengono a fare i camerieri a Parigi o Londra. A quel punto cosa farà Salvini? Dichiarerà guerra a Parigi e Londra? Mai dire mai.
Esiste un’altra strada?
Se usciamo dal panico emotivo mediatico, capiamo che il vero tarlo del sistema è legato proprio all’eccessiva sicurezza. Abbiamo deciso che la strada necessaria era aumentare i controlli. Stiamo spendendo decine di miliardi in sistemi di respingimento che eliminano alla base il dialogo con la soggettività del migrante. Non sei nessuno, sei un numero e come tale sei di troppo, quindi rimani fuori. Siccome ti ostini a non voler rimanere fuori allora spendo miliardi e ti schiero contro polizie e eserciti. E intanto dico ai miei cittadini che tu devi stare fuori perché non ci sono soldi per tutti. E loro tutti, o quasi, mi credono.
Se invece investissimo soldi (probabilmente ne servirebbero di meno) per mediatori internazionali e non soldati, capaci di parlare con il migrante in partenza e chiedergli cosa vuole fare, dove vuole andare e prevedere un numero sostenibile di visti di entrata regolari e controllabili, che riducano la pressione e blocchino il circuito folle che ci sta portando al collasso?
Libereremmo economie legali e virtuose, oggi risucchiate da trafficanti e polizie, e magari scopriremmo che ci sono esseri umani che hanno fratelli, amici da raggiungere. Che hanno posti di lavoro. Che sanno dove andare a vivere. Che non vogliono chiedere asilo e rimanere parcheggiati in inutili centri di accoglienza, ma studiare e lavorare. O anche semplicemente amare, che nella vita non è né brutto né pericoloso. E saremmo così anche più capaci di dare protezione a chi ne ha bisogno, senza violare corpi e diritti come stiamo quotidianamente facendo.
Da alcuni mesi il “Forum per cambiare l’ordine delle cose” sta promuovendo questa e altre proposte. Chi ne è incuriosito può unirsi a questo percorso.

Il Fatto 1.4.18
Scontro fra Roma e Parigi: “Non entrate più in Italia”
La Farnesina: “Inaccettabile”. Il Viminale: “Pronti a sospendere la cooperazione”
di Giampiero Calapà


La caccia a migranti e Ong si sposta dal Mediterraneo alle Alpi e questa volta governo e politica nostrani condannano “l’incursione” delle forze dell’ordine ma solo perché non sono italiane (o libiche), non per solidarietà (fatta salva qualche rara eccezione), quindi, ma per nazionalismo patriottico che oggi va tanto di moda anche quando si vota. Tanto che lo stesso ministero del codice anti-Ong in serata sussurra all’Ansa: “Si sta valutando l’opportunità di sospendere le incursioni all’interno di tutto il territorio italiano da parte del personale delle forze di polizia e dei doganieri francesi. Lo si apprende da qualificate fonti del Viminale dove si giudica la risposta arrivata dal ministro francese dei conti pubblici sul caso Bardonecchia non soddisfacente e inesatta”.
Già, perché da Parigi il ministro Gerald Darmanin ha giustificato così la prova di forza transalpina: “Al fine di evitare qualsiasi incidente in futuro, le autorità francesi sono a disposizione delle autorità italiane per chiarire il quadro giuridico e operativo nel quale gli agenti di dogana francesi possono intervenire sul suolo italiano, in virtù degli accordi del 1990, in condizioni rispettose del diritto e delle persone”.
Eppure dalle parti della Farnesina la pensano in un altro modo e convocano l’ambasciatore Christian Masset. Queste la ramanzina che il diplomatico francese deve ascoltare dal direttore generale Giuseppe Buccino Grimaldi: “A marzo c’è stato uno scambio di comunicazioni tra Ferrovie dello Stato italiane e Dogane francesi, da cui emerge chiaramente come queste ultime fossero al corrente che i locali della stazione di Bardonecchia, precedentemente accessibili ai loro agenti, non lo siano più, essendo adesso occupati da una organizzazione non governativa a scopo umanitario. Per discutere insieme della questione, i due Paesi avevano deciso di incontrarsi a livello tecnico alla Prefettura di Torino il prossimo 16 aprile”.
Batte i pugni sul tavolo Buccino Grimaldi: “Esprimo la ferma protesta del governo italiano per la condotta degli agenti doganali francesi, ritenuta inaccettabile. Quanto avvenuto mette oggettivamente in discussione, con conseguenti e immediati effetti operativi, il concreto funzionamento della sinora eccellente collaborazione frontaliera”. Insomma, se c’è sempre qualcuno più a Sud c’è sempre qualcun altro anche più a Nord e l’Italia lo scopre in questo weekend di Pasqua mentre le relazioni diplomatiche con la Francia s’incrinano in modo inedito, con una tensione il cui unico precedente della storia recente era stato relegato in ambito sportivo con la testata di Zidane a Materazzi al Mondiale di calcio tedesco del 2006.
Poi c’è la politica delle esternazioni dei partiti che, con la lente distorta del sovranismo, fa sembrare di sentire quasi le stesse proteste della ong Rainbow for Africa da tutto l’arco costituzionale, comprese le destre di Fratelli d’Italia (“Non possiamo essere usati come la toilette dei francesi”) e della Lega di Matteo Salvini: “Altro che espellere i diplomatici russi, qui bisogna allontanare i diplomatici francesi! Con noi al governo l’Italia rialzerà la testa in Europa, da Macron e Merkel non abbiamo lezioni da prendere, e i nostri confini ce li controlleremo noi”. Per il M5s, invece, l’aspirante premier Luigi Di Maio che solo la scorsa estate forgiò l’espressione “taxi del mare”, con vista Quirinale assume toni istituzionali: “Bene ha fatto la Farnesina a convocare l’ambasciatore francese. Quanto accaduto a Bardonecchia deve essere chiarito in ogni suo aspetto”.
Dalle parti del Pd proprio negli ultimi giorni erano rimbalzati rumors sulle intenzioni di Matteo Renzi di “avvicinamento” a En Marche! di Emmanuel Macron per “superare” il marchio “dem”, considerato ormai logoro. Vista la malaparata alla frontiera, però, ieri qualcuno ha dettato alle agenzie: “Il progetto non trova conferma”. E fuori dal partito interviene l’ex Enrico Letta, che non sta sereno: “Ennesimo errore sui migranti. Poi in Europa si stupiscono dell’esito elettorale in Italia!”.

La Stampa 1.4.18
Lungo la nuova rotta dei disperati dove i gendarmi dettano legge
“Siamo in Italia, ma comandano loro”
I volontari denunciano gli abusi: “Operano senza autorizzazioni”
La rabbia dei valsusini: in piazza chiedono i documenti anche a noi
di Lodovico Poletto

qui

Repubblica 1.4.18
Il vero volto della Francia sui confini
di Carlo Bonini


Mai, come in questa occasione, quanto accaduto a Bardonecchia dimostra come nell’Europa del 2018, sulla questione dell’integrità dei confini, il mantra delle grandi cancellerie non sia governare i flussi migratori o i cosiddetti “movimenti secondari” (i transiti lungo i confini interni del perimetro di Schengen), ma tirarsene semplicemente fuori. Mai, come in questa occasione, è evidente come l’Italia, degradata a provincia meridionale della fortezza assediata, sia stata e continui ad essere lasciata sola. E, per giunta, a dispetto della circostanza di avere “cominciato a fare i compiti a casa” da un po’ di tempo a questa parte, per usare un’espressione cara al nostro ministro dell’Interno Marco Minniti. I fatti, del resto, sono incontrovertibili. Come documenta lo scambio di e-mail tra i due Paesi, era da settimane che le autorità francesi erano al corrente di chi (una Ong) ormai occupasse i locali di uno spazio frontaliero rivendicato da Parigi per i propri doganieri in forza di accordi del 1963 e 1988. Così come erano al corrente che fosse stato fissato per la metà di aprile a Torino un incontro per definire nel merito dove e come accomodare quegli stessi doganieri. L’irruzione armi in pugno di venerdì sera a Bardonecchia non è dunque «uno spiacevole incidente», «un’incomprensione», una rottura del galateo. È una macroscopica violazione di sovranità che non trova per altro giustificazione neppure nella circostanza che l’intervento dei doganieri francesi si fosse reso necessario per tutelare l’integrità dei loro confini. L’uomo inseguito ed erroneamente ritenuto uno spacciatore, obbligato in territorio italiano a un illegittimo e per altro negativo test sanitario delle urine, proveniva infatti dalla Francia diretto in Italia. La verità è dunque semplice. Al confine di Bardonecchia non si è consumata la disavventura di quattro spensierati doganieri, ma si è riproposto il (vero) volto della Francia di Macron sulla questione dei confini. Non fosse altro perché sono ancora i fatti a dimostrarlo. Perché prima dell’«incidente» di venerdì sera, il 23 marzo, e sempre a Bardonecchia, si era consumato il dramma della giovane nigeriana di 31 anni, incinta di 28 settimane, respinta al confine francese e morta dopo il parto cesareo all’ospedale Sant’Anna di Torino con cui aveva dato alla luce un bimbo di 700 grammi. E perché prima di Bardonecchia (si era a pochi giorni dall’insediamento di Macron), Parigi aveva visto bene di precipitare in una non richiesta e ingiustificata tensione il confine di Ventimiglia. È dunque insopportabile nella sua sciatteria la reazione intorpidita di Parigi. La supponenza con cui ieri la questione è stata degradata a faccenda di dogana (come se si stesse discutendo di controlli non dovuti su un carico di formaggi) e come tale delegata a pratica ministeriale da sbrigare dopo le festività. Mentre va al contrario dato atto a Palazzo Chigi della tempestività e della forma che ha assunto la nostra risposta diplomatica perché la questione assumesse, come ha assunto, il peso che ha e deve avere. Il buon senso, la logica, l’intelligenza politica dovrebbero ora suggerire a Parigi una sola strada. Quella delle scuse formali. Che una grande democrazia non dovrebbe avere difficoltà a porgere. A meno che questo non costi un prezzo politico interno troppo alto. Macron, dal giorno della sua elezione, ha infatti dimostrato che pur di tenere a bada le pulsioni populiste della pancia del suo Paese è disposto a pagare il prezzo della disumanità e dell’arroganza lungo i confini meridionali con l’Italia. Un esercizio di cinismo che ha contribuito ad eccitare i demoni di casa nostra. A gonfiare le vele dello sciovinismo leghista. Salvo poi arricciare il naso con preoccupazione sugli esiti del nostro 4 marzo sui futuri equilibri europei.

Repubblica 1.4.18
I principi violati
di Michela Marzano


È difficile capire cosa abbia potuto spingere gli agenti della dogana francese a fare irruzione nel centro migranti di Bardonecchia e, soprattutto, come il presidente Macron possa spiegare, rendere conto o tentare anche solo di giustificare un tale gesto, dopo essersi più volte espresso in favore di una politica migratoria europea fondata sulla condivisione e sul rispetto. All’indomani delle elezioni politiche del 4 marzo, Emmanuel Macron aveva dichiarato che l’affermarsi dei partiti populisti era anche la conseguenza della forte pressione migratoria che l’Italia si era trovata ad affrontare da sola, abbandonata dal resto dell’Europa; aveva promesso che la Francia sarebbe stata in prima linea per costruire «un’Europa ambiziosa» e solidale; aveva sottolineato che è inutile «difendere belle idee» quando si fa poi astrazione dalla «brutalità del contesto ». Ma non è proprio la «brutalità del contesto» a scioccarci oggi, e a farci domandare se in fondo, dietro le belle parole di Macron, non si nasconda proprio la volontà di evitare qualsiasi forma di condivisione europea?
Questa volta, nonostante accada raramente nel nostro Paese, la reazione di fronte ai fatti di Bardonecchia è stata quasi unanime: c’è stato chi ha dichiarato che l’Italia è uno Stato sovrano, e non certo una regione o un dipartimento francese; c’è stato chi ha detto che i francesi dovrebbero preoccuparsi di gestire i propri problemi e rispettare i Paesi confinanti; c’è stato chi ha parlato di insopportabile arroganza e chi si è preoccupato delle sorti dell’Europa.
Ma è soprattutto la contraddizione tra le dichiarazioni di principio del presidente Macron e le azioni concrete degli agenti francesi a lasciare basiti. Non si può, da un lato, dichiararsi solidali con l’Italia e, dall’altro, immaginare di erigere muri esattamente come già accade in Ungheria, in Polonia o in Slovacchia. Non si può da una parte invocare la necessità della condivisione e farsi paladini di una politica europea comune, e dall’altra violare palesemente i pilastri su cui si fondano i Diritti dell’Uomo: la dignità, la neutralità, l’imparzialità e l’umanità.
Perché poi è questo il nodo vero della questione: il rispetto. Il rispetto delle regole e dei valori condivisi — che è poi l’unico modo per gestire la tragedia umanitaria dei flussi migratori, drammatici sia per chi migra, sia per chi accoglie; il rispetto dei principi chiave del liberalismo — che fanno dell’autonomia, dell’uguaglianza e della libertà dal bisogno le fondamenta su cui poi costruire l’edificio del vivere-insieme; il rispetto della persona — che impedisce a chiunque di calpestarne o violarne la dignità. Sarebbe bene che il presidente Macron non lo dimenticasse e che, oltre a rivendicare a parole la filosofia umanista di Paul Ricoeur e la politica della condivisione europea, fosse poi capace di evitare che la «brutalità del contesto » sotterri sotto le ceneri dell’oblio l’intera lista dei suoi “buoni propositi” per un’Europa nuova e più ambiziosa.

il manifesto 1.4.18
La maschera populista non salverà la sinistra
di Michele Prospero


Che il voto non abbia premiato la sinistra è così evidente che non vale insistervi oltre. Invece di accanirsi in una metafisica della sconfitta o di trincerarsi in un silenzio che dura ormai da un mese, i dirigenti dovrebbero chiarire cosa fare del modesto bottino elettorale comunque ricevuto. Non ci vuole una disperata opera di contrizione per spiegare perché dal 6% raggiunto alcuni mesi prima alle regionali in Sicilia si è verificata alle politiche una perdita di almeno due punti che ha indebolito di molto il progetto. Hanno pesato gli errori di comunicazione (la dichiarazione di disponibilità di Grasso, a tre giorni dal voto, a un governo di scopo con Renzi e Berlusconi), l’arroganza nella composizione delle liste (in Umbria, nella notte prima del deposito delle candidature, da Roma è venuto l’ordine di cancellare la lista che si apriva con il nome di uno tra i più autorevoli costituzionalisti, solo per soddisfare equilibri astrusi), l’insensibilità politico-culturale (di un appello promosso da Asor Rosa e firmato da 150 docenti universitari non si è ritenuto di fare nulla), il rifiuto in origine di dotarsi di un nome e di un simbolo che risultassero più coerenti con l’ambizione di rappresentare la sinistra rimasta nel bosco.
In mezzo a processi obiettivi, che trascendevano la volontà e la possibilità di incidere nelle onde del sistema in crisi, questi errori, che invece sono attribuibili a carenze del tutto soggettive, hanno contribuito a togliere quei decimali di consenso che avrebbero dato una percentuale maggiore e quindi una dimensione diversa alla sconfitta. Comunque, anche nella batosta, il compito dei dirigenti è quello di non smobilitare. C’è più di un milione di persone (bisognerebbe aggiungere anche quelli che hanno scelto Potere al popolo) che non rinuncia al voto identitario, e non cede al richiamo del voto utile. Dare un senso a queste esperienze è il solo atto politico che andrebbe perseguito. Con quali idee?
La crisi del liberismo è il punto di partenza comune alle democrazie d’occidente. La destra passa con disinvoltura dal mito liberista reaganiano e tatcheriano alle invocazioni di protezionismo di Trump, che conquista le periferie sollecitando primordiali spinte comunitaristiche. ll dato di sistema, anche in Italia, è segnato dalla crisi degli assi politico-sociali-culturali della cosiddetta seconda repubblica. Essi ruotavano attorno alla polarità tra un liberismo a contaminazione populista e a guida berlusconiana e una modernizzazione dolce guidata dalla coalizione all’insegna di un neo-illuminismo europeo a conduzione prodiana. La crisi del liberismo e del progetto europeo della concorrenza dei mercati crea un vuoto di rappresentanza che premia le offerte di chiusure, protezioni e illusioni comunitarie o le sempre arzille simbologie anticasta.
Tra l’individualismo liberista demolito dalla crisi sociale e i rifugi in comunità ingannevoli (prima gli italiani, il rosario e la ruspa) esiste un vuoto, quello che nel Novecento ha occupato il socialismo. Chi pensa che non ci siano alternative al populismo, e che quindi anche la sinistra debba camuffarsi con abiti adeguati allo spirito del tempo (ma il Renzi trafitto a ripetizione non era proprio questo travestimento populistico?) lancia alternative illusorie. Per recuperare gli elettori che hanno abbandonato la sinistra per approdare al M5S non occorre scimmiottare la versione più originale e anche genuina della rivolta del “basso”. Questo inseguimento della invenzione grillina sarebbe una operazione inutile e velleitaria (come è parsa la disperata mossa di Letta e Renzi di riassorbire la protesta del M5S contro la casta cancellando il finanziamento pubblico ai partiti).
Serve un progetto più complesso che non l’invito alla sinistra ad appropriarsi delle maschere altrui per tentare di sfondare con l’ossimoro di un populismo rosso. Occorre una cultura politica nuova che tragga ispirazione da Marx e che quindi politicizzi oggi la contraddizione tra il tempo che la tecnica libera e le esclusioni che il capitale impone. Non c’è nulla di più insopportabile dei lamenti sugli operai che sono stati abbandonati dalla politica. E da quando una classe ha bisogno della supplenza di altri? Spiegava proprio Marx ai soggetti dispersi che finché «l’identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, un’unione politica su scala nazionale e un’organizzazione politica, essi non costituiscono una classe». E se i subalterni, anche quelli della postmodernità, non dispongono di una organizzazione politica «non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare».
Davvero i delegati sindacali, i lavoratori precari possono rinunciare a costruire una loro coalizione sociale, con una organizzazione politica autonoma, credendo di essere rappresentati da una microimpresa che maneggia in solitudine la magia occulta della rete? Se dopo un mese di silenzio non si parla di questo, offrendo un senso al milione di votanti che sono pronti ad agire per qualcosa di nuovo, è meglio lasciar perdere tutto.

Corriere 1.4.18
Albanese, Marescotti e gli altri che confessano: questa sinistra non parla più alla gente
Gli attori «d’area»: la Lega nei territori c’è
di Tommaso Labate


ROMA « Diciamoci la verità. Negli ultimi trent’anni, un certo tipo di politica si è limitato alle teorie e non ha frequentato i territori. La Lega, invece, ha vinto perché in quei territori c’era. E ha saputo quindi intercettare tutto. Malumori, gioie, dolori», dice Antonio Albanese nel corso della sua partecipazione a #Corrierelive , l’altro ieri. Claudio Amendola, qualche giorno prima, intervenendo all’ Aria che tira su La7 aveva praticamente sostenuto la stessa tesi. Tra quelli che un tempo venivano definiti «classe operaia», ha scandito l’attore e regista romano, «i Cinque Stelle e soprattutto la Lega ci sono andati. Sono stati tra loro, si sono fatti vedere, hanno provato a rappresentare le loro richieste, sono stati presenti».
Amendola e Albanese hanno identikit diversi. Romano il primo, mezzo lecchese mezzo siciliano il secondo; impegnato da sempre il primo, «parlo poco di politica» il secondo; il primo sostiene che «Salvini si è rivelato più capace dei politici degli ultimi vent’anni», il secondo dice che «su questo non sono d’accordo con Claudio perché comunque, negli ultimi vent’anni, Salvini al governo fondamentalmente c’è stato». Ma sono entrambi molto apprezzati dal pubblico. Ed entrambi facevano parte di quell’intellighenzia del cinema che da oltre mezzo secolo sosteneva il centrosinistra. E che, adesso, si sentono distanti.
E così, all’indomani delle elezioni del 4 marzo, il Pd si trova alle prese con l’ennesimo effetto collaterale della sconfitta. Il divorzio dalle donne e dagli uomini di spettacolo. L’impatto, a vista d’occhio, è persino più devastante dell’urlo di Nanni Moretti del 2002 a Piazza Navona in faccia a Piero Fassino e Francesco Rutelli — «Con questi dirigenti non vinceremo mai» — che diede il via alla stagione dei girotondi. All’epoca, almeno, nel mirino c’erano i leader e l’eterno sospetto di accondiscendenza verso il berlusconismo. Oggi, invece, il Pd viene espulso persino dal banco degli imputati.
L’attore Ivano Marescotti, una vita a sinistra ma ora ha votato per i grillini, si sgola in giro per le tv avvertendo che «se fanno un governo Cinque Stelle-Lega vado in piazza con i forconi». Della serie, «ho sostenuto Di Maio, mi è piaciuto il discorso di Fico dopo l’elezione a presidente della Camera ma se fanno un esecutivo con Salvini i loro elettori di sinistra li inseguirebbero per strada». Una tesi opposta a quella di Amendola, che a dispetto delle ricostruzioni di questi giorni aveva già chiarito di rimanere, sempre e comunque, di sinistra («No, non ho cambiato idea»): «Non siamo la Spagna né possiamo permetterci un governo tecnico. Abbiamo bisogno di un governo, qualunque esso sia. E le uniche due forze che possono trovare la quadra sono Lega e 5 Stelle. Perché hanno vinto, perché sono fuori dai soliti giochi, perché non hanno nulla da perdere».
Margherita Buy, un’altra delle icone storicamente ascritte al firmamento cinematografico del centrosinistra, che due anni fa fece in prima persona la battaglia per le unioni civili, l’altro giorno ha detto: «Salvini è arrivato dove voleva. È riuscito a tirarsi dietro un sacco di gente e questa è stata una capacità innegabile. La sua fortuna è stata il momento che stiamo vivendo e l’Italia che ha trovato davanti a sé. Io, però, ho molta paura. La politica della paura a me non piace».
Salvini sì, Salvini no. Governo 5 Stelle-Lega sì, no, forse. Del centrosinistra, o di quello che ne rimane, in questo dibattito, nessuna traccia. Per ora .

il manifesto 1.4.18
Winckelmann, esperienze mentali al Museo
Una mostra ai Musei Capitolini. Lo studioso tedesco, giunto a Roma nel 1755, fu testimone entusiasta della fase fondativa delle collezioni antiche in Campidoglio
di Maria Fancelli


E’ molto probabile che, in un bilancio delle manifestazioni per il doppio giubileo di Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), la mostra allestita in Campidoglio da Eloisa Dodero e Claudio Parisi Presicce, Il Tesoro di Antichità (ancora fino al prossimo 22 aprile) possa venir collocata tra i primi posti; insieme al Catalogo che gli stessi studiosi hanno curato per l’editore Gangemi e che ne è l’indispensabile completamento.
Un riconoscimento tanto più significativo in quanto il 300° della nascita e il 250° della morte del padre dell’archeologia, nel 2017 e nel 2018, hanno stimolato in tutte le principali capitali culturali europee una fitta serie di iniziative e hanno visto concludersi importanti imprese editoriali: quali ad esempio l’edizione storico-critica delle opere in venti volumi a cura della Accademia di Magonza e della Winckelmann Gesellschaft (Schriften und Nachlass), ma anche l’edizione italiana completa delle Lettere, pubblicata in tre volumi dall’Istituto Italiano di Studi Germanici (2016).
Il contributo capitolino alle manifestazioni giubilari è sottolineato anche da un ciclo di conferenze internazionali sulla ricezione europea di Winckelmann che, organizzato dall’Istituto Archeologico Germanico, si concluderà, non a caso, proprio in Campidoglio il 14 giugno prossimo con la conferenza dello studioso olandese Erich Moormann.
Sono molte le ragioni per cui questa mostra può essere considerata una sorta di coronamento del duplice anniversario: non solo per la suggestione del luogo e per la spettacolare cornice che questi Palazzi offrono sempre alle opere d’arte che abbiano la ventura di esservi esposte, ma soprattutto perché in questo luogo opere e documenti intessono con il monumento che li contiene un dialogo del tutto particolare e unico.
La mostra è tutta centrata su questa relazione e sulla eccezionale saldatura tra il destino personale dello studioso e la storia del museo capitolino. Tanto che si può dire che tutte le esperienze mentali più importanti di Winckelmann sono legate al Campidoglio e al suo giovane Museo, nel quale c’erano tutte le condizioni perché maturasse e prendesse corpo il progetto di una storia evolutiva dell’arte antica.
Quando Winckelmann arrivò a Roma, infatti, nell’autunno del 1755, in una fase di evidente decadenza del potere romano, quello spazio si andava sempre più profilando come luogo simbolico della continuità con la Roma antica e come sede di una nuova funzione civile. Un ruolo cominciato quasi una ventina d’anni prima, da quando cioè Clemente XII, nel 1734, l’aveva aperto ai visitatori facendone il primo museo pubblico al mondo. Il Papa Corsini lo aveva fatto per la salvaguardia del patrimonio pontificio e anche per stimolare, insieme alla conoscenza delle opere originali, la necessità della loro tutela e del loro restauro, con la consapevolezza di un compito indifferibile di fronte all’avanzante processo di dispersione delle grandi collezioni private. Antefatti molto importanti per la comprensione della mostra, come ci dicono nei loro contributi Carole Paul e Federica Papi; le quali ci informano di come nascesse proprio allora, insieme all’idea di tutela e all’esigenza di una normativa giuridica, una sensibilità nuova sia per i contesti di scavo e di ritrovamento, sia per i documenti scritti.
Winckelmann è stato davvero il testimone massimo di questa fase fondativa e gloriosa del Museo e della nuova sensibilità per le antichità romane. Appena giunto a Roma, infatti, il già noto studioso tedesco si precipita al Campidoglio approfittando del libero ingresso concesso agli artisti; capisce subito il rischio che correvano le preziose antichità a Roma; scrive freneticamente pagine e pagine sulle collezioni romane dandoci così una mappatura preziosa di come esse dovevano essere prima della loro definitiva dispersione. Ville e Palazzi di Roma è il titolo di un lungo testo manoscritto del 1756, custodito a Parigi, edito nel 2000 dall’editore Quasar e nel 2003 nel quinto volume della già citata edizione di Magonza.
Ebbene, questa fase, questo clima e questo fervore sono resi molto bene dalle 124 opere, volumi e documenti distribuiti nei suggestivi ambienti della mostra. Tutte le cinque sezioni vi contribuiscono grazie anche a significativi prestiti: la prima con la ricerca sulle immagini, sulle incisioni, sui progetti del Campidoglio; la seconda sulle acquisizioni del Museo e sui suoi primi anni di attività; la terza sulle opere che Winckelmann vide e che formarono l’ossatura della sua Storia dell’Arte Antica; la quarta sugli allestimenti perduti del Museo Capitolino e, infine, la quinta, sul cosiddetto Percorso Winckelmann.
Come una sorprendente novità troviamo all’ingresso un grande tondo a rilievo con il volto di Winckelmann (cat. 96). Si tratta di uno dei medaglioni che decoravano la facciata dell’edificio costruito sul Campidoglio tra il 1873 e il 1877 come sede dell’Istituto Archeologico Germanico (e dell’Ambasciata tedesca fino al 1915), e che si sono ben conservati nei magazzini dei Musei Capitolini. Questo tondo è straordinario perché, mentre ci riporta alla mente la monumentalizzazione di Winckelmann in età guglielmina, esprime e suggella quella osmosi tra lui e il Campidoglio che rimane il perno attorno al quale ruota tutta la mostra.
Se il percorso espositivo parla in primo luogo agli studiosi e ai conoscitori, si deve dire che anche il visitatore dilettante può cogliere, al di là del discorso specialistico, le ragioni di una esposizione e i suoi punti di forza. Chiari pannelli esplicativi stimolano, infatti, a ripensare l’incontro di un uomo con il Museo e insieme un pezzo importante della storia della Roma settecentesca; mentre dai materiali in mostra emergono diversi nuclei di interesse storico e biografico di più immediata comprensione.
Il primo riguarda senz’altro l’intreccio tra passione antiquaria e affari che si produce nella Roma di allora in tutti gli ambienti frequentati da Winckelmann e, in particolare, tra i suoi amici e i suoi protettori.
Al centro di questo intreccio c’è il lungo filo che ha legato Winckelmann al Cardinale Albani; un filo che veniva molto da lontano, ben antecedente l’arrivo dello studioso a Roma e quasi iscritto nel suo destino. Nel 1728, infatti, era stato proprio il Cardinale Alessandro a vendere ad Augusto il Forte, Elettore di Sassonia e futuro Re di Polonia, una parte consistente della sua collezione che Winckelmann, com’è noto, poté vedere proprio a Dresda. Le vicissitudini della vendita del 1728, l’avventuroso viaggio di andata delle casse Albani da Livorno per Amburgo e da qui per Dresda, la loro breve e imperfetta esposizione ci vengono raccontate da Saskia Wetzig in uno dei primi contributi del catalogo. Tra i meriti della mostra c’è senz’altro il fatto di avere fatto tornare per l’occasione alcune tra le più significative antichità di Dresda in una sorta di ideale ricongiungimento con i luoghi da cui erano partite.
Un altro importante nucleo di interesse di questa mostra, forse il più importante, è quello che viene dalle opere egizie, tra le quali il calco degli anni Trenta dell’Antinoo Egizio (Cat. p. 329). Se a metà Settecento il Campidoglio possedeva già tutto ciò che serviva al confronto delle opere antiche, alla valutazione e alla revisione iconografica delle fonti letterarie, le statue egizie (e poi le gemme Stosch) influenzarono in maniera determinante le idee winckelmanniane sugli inizi della storia dell’arte. Nel campo dell’arte egizia, come affermano i curatori nell’introduzione, Winckelmann è stato un vero precursore e ha svolto per la nascita dell’egittologia una funzione che può essere accostata senza dubbio a quella di Champollion. La stessa cosa, d’altronde, era emersa da una mostra del 2003 su Winckelmann e l’Egitto, curata da Max Kunze e Alfred Grimm, che da Stendal si era spostata a Monaco e a Vienna; nel mezzo era stata al Museo Vela di Ligornetto che per l’occasione aveva pubblicato anche un catalogo in lingua italiana. Lo stesso Grimm vi scriveva che «…giustamente celebrato come fondatore della storia dell’arte occidentale, Winckelmann è a torto ignorato quale iniziatore di quella egizia …» (p. 140).
Infine, per il visitatore curioso di vite e di storie, il punto più intrigante è dato dalla lettura di tre documenti esposti per la prima volta. Si tratta di tre licenze di esportazione concesse dal governo pontificio, firmate da Winckelmann in persona nella sua qualità di Commissario alle Antichità, un incarico esercitato dal 1763 fino alla morte.
Vale la pena di leggere con attenzione la licenza di esportazione della famosa Venere Barberini o Venere Jenkins firmata e glossata dall’archeologo. La Venere, di proprietà di Thomas Jenkins era in vendita a Giovanni Dick, console inglese per la Toscana e agente di molti collezionisti privati.
Ebbene, la licenza di esportazione porta un commento scritto di pugno da Winckelmann che si sentiva evidentemente quasi in dovere di giustificare il permesso di uscita di un’opera di cui nelle lettere (24 maggio e 3 giugno 1764) aveva tanto esaltato la bellezza: il busto è bellissimo, scrive, ma molte parti sono moderne. Si poteva dunque procedere in base al criterio dell’integrità e rilasciare la licenza di esportazione, visto che il Campidoglio già possedeva la sua Venere che, altrettanto bella, era anche perfettamente conservata.
Certo mai avrebbe pensato, il Commissario Winckelmann che quella Venere, dopo varie avventure e periodi di silenzio, nel 2002 sarebbe stata battuta a una delle aste più alte della storia antiquaria e acquistata, sembra, dal ricchissimo Emiro del Qatar.

il manifesto 1.4.18
Camus e il carnefice ghigliottinato che ci giudica: dobbiamo tacere
Diritto e ideologia. «Ghigliottina» di Albert Camus, edito da Medusa: un pamphlet scritto nel 1957 in cui il potere intimidatorio della pena di morte viene analizzato come inutilità, morale e sociale
di Roberto Andreotti


«La malattia dell’Europa si chiama non credere a nulla e pretendere di saper tutto». Così Albert Camus (1913-1960) scriveva profeticamente nel saggio Réflections sur la guillotine che conobbe un’articolata vicenda editoriale. Manès Sperber, amico di Malraux, decise di far tradurre in Francia Reflections on hanging (1955) che raccoglieva gli scritti che Arthur Koestler aveva dedicato al tema della pena di morte sull’«Observer» e chiese a Camus di comporre un testo da accompagnare a tale opera. Approntato all’inizio del 1957, il saggio apparve nei numeri di giugno e luglio della «Nouvelle Revue Française» per essere infine, nello stesso anno, accolto in volume da Calmann-Lévy con il titolo Réflections sur la peine capitale. Oltre allo scritto di Camus e alla traduzione parziale del testo di Koestler figurava un’indagine sulla pena di morte in Francia curata da Jean Bloch-Michel che firmava anche una breve prefazione. Ora le Edizioni Medusa ripropongono meritoriamente con il titolo La ghigliottina Riflessioni sulla pena di morte (pp. 108, € 13,00) il pamphlet di Camus nella valida traduzione di Maria Lilith allestita per Longanesi nel 1958, opportunamente rivista da Alfredo Rovatti e preceduta da una prefazione di Riccardo De Benedetti (una versione integrale del volume collettaneo uscì con il titolo La pena di morte presso Newton Compton nel 1972 e un’ulteriore trasposizione del testo di Camus, Riflessioni sulla pena di morte, vide la luce per SE nel 1993).
La tematica affrontata da Camus è quanto mai attuale e spazia da osservazioni di carattere autobiografico (il padre avrebbe assistito a un’esecuzione capitale, rimanendone fortemente impressionato) a speculazioni di stampo socio-politico che lo videro esporsi in prima persona contro la condanna a morte di Brasillach, subentrato, all’epoca del regime di Vichy, a Jean Paulhan alla guida della «NRF» e accusato di collaborazionismo: «Senza la pena di morte Gabriel Péri e Brasillach sarebbero forse ancora tra noi, e noi potremmo emettere senza vergogna un giudizio su di loro, secondo la nostra opinione, mentre invece sono essi che ora ci giudicano, e noi dobbiamo tacere». L’esecuzione capitale presuppone dunque un rapporto rovesciato tra il carnefice e i suoi giudici, laddove il primo rischia di incarnare i panni della vittima sacrificale, tenendo conto che «si applica una legge senza discuterla e i nostri condannati muoiono, diciamo così, per forza d’inerzia». Camus sostiene l’inutilità del «potere intimidatorio» di tali tecniche efferate, riportando una serie di testimonianze che potrebbero confluire in una moderna galleria degli orrori. Partendo dalla biblica legge del taglione e passando per Cesare Beccaria, Camus si avventura a descrivere come il condannato fosse una sorta di colis, sballottato prima dell’esecuzione da una cella all’altra e infine esposto al pubblico ludibrio. Con uno stile semplice ma efficace, che nulla concede sul versante demagogico, lo scrittore della Peste, insignito nello stesso 1957 del Nobel, paragona la pena di morte «a una rozza operazione chirurgica eseguita in circostanze che la spogliano di qualsiasi carattere edificante».
«Per anni e anni io non ho visto nella pena di morte che un supplizio non tollerabile per l’immaginazione e una delittuosa indolenza che la mia ragione condannava» osserva Camus, soffermandosi ad investigare come «per secoli e secoli sono stati puniti di morte delitti diversi dall’assassinio eppure la pena massima, applicata tanto a lungo, non li ha fatti sparire; da secoli gli stessi delitti non sono più puniti con la morte eppure non sono aumentati di numero e alcuni sono perfino diminuiti». Sulla falsariga di quell’Homme révolté, come si intitola la sua raccolta di saggi del 1951, che costituisce la più coraggiosa maniera di svincolarsi dal dogmatismo ideologico che imperversava in quegli anni («Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della rivolta» aveva scritto), il pensiero di Camus non poteva non affrontare un argomento spinoso quale quello della pena capitale. Sempre con un’ammirevole autonomia di giudizio e un sorprendente esprit de finesse svincolati da qualsiasi atteggiamento precostituito: «Non per questo, credo, e devo ripeterlo, che la responsabilità non esista al mondo, e che occorra compiacere la moderna tendenza ad assolvere tutti, vittime e uccisori, accomunandoli in una confusione d’ordine sentimentale fatta più di vigliaccheria che di generosità e che, in fin dei conti, arriva a giustificare anche le cose peggiori. Benedicendo a occhi chiusi si va a rischio di benedire anche un campo di schiavi, la forza vile, i carnefici organizzati e il cinismo dei mostri politici, di vendere i propri fratelli, insomma: non c’è che da guardarsi attorno». Già, non c’è che da guardarsi attorno, anche a distanza di mezzo secolo…

Il Fatto 1.4.18
Raffaele Cantone
“I partiti devono rendere trasparenti le fondazioni”
In campagna elettorale il presidente Anac ha chiesto ai leader di dire tutto sui contributi ricevuti. Nessuna risposta. Ora però...
di Stefano Feltri


In campagna elettorale Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, ha chiesto a tutti i partiti di impegnarsi sulla trasparenza dei finanziamenti. Nessuno ha raccolto l’appello.
Dottor Cantone, che idea si è fatto del caso Lega? I pm di Genova cercano 48 milioni di euro di finanziamenti che paiono spariti dai conti e L’Espresso scopre che c’è una Onlus misteriosa, parallela al partito, che raccoglie finanziamenti da costruttori e imprenditori.
È un tema delicato e della vicenda conosco solo quello che ho letto quindi non mi esprimo. Ma c’è una novità rilevante, l’utilizzo di una Onlus, che ha regimi di pubblicità analoghi a quelli delle fondazioni, molto semplificati.
Pare che quei soldi siano stati investiti anche in azioni e derivati.
Il comma 22 dell’articolo 9 della legge Monti vieta ai partiti di svolgere attività speculative con i propri fondi. Come spesso accade, però, c’è il divieto ma non la sanzione per chi trasgredisce.
Prima delle elezioni lei aveva parlato di una campagna “particolarmente delicata” dal punto di vista della trasparenza e dei rischi corruzione: la prima senza finanziamento pubblico. Ha notato qualcosa di poco chiaro?
Gli impegni economici dei partiti sono stati ridotti, pochissime attività, ancor meno manifesti. Ma è comunque importante sapere chi ha pagato chi e perché, in parte lo sapremo grazie ai bilanci dei partiti ma non basta. Avevo auspicato sia che ci fosse trasparenza volontaria sia che venissero messi nei programmi dei partiti due interventi a costo zero: interventi sulle lobby e riforma della disciplina delle fondazioni. Due riforme che nel contrasto alla corruzione sarebbero cento volte più utile che introdurre l’agente provocatore. Ho constatato qualche apertura, ma poi non c’è stato nulla di concreto. Spero il nuovo Parlamento se ne occuperà.
Cosa c’è di così critico nelle fondazioni?
Da tempo l’attività dei partiti si è spostata verso queste formazioni che ricordano le vecchie correnti. Ma sono regolate dal codice civile che però è stato scritto nel 1942 per associazioni come biblioteche o circoli ricreativi che dovevano gestire poche lire di fondi, non milioni di euro come le fondazioni attuali.
Quindi senza trasparenza.
Secondo un dossier di Openpolis, su 108 fondazioni, solo 15 a titolo volontario fanno una certa trasparenza sulle entrate. Ci vorrebbe invece una trasparenza totale sia sulle entrate, ma anche su come vengono impiegati i fondi raccolti. I bilanci devono essere certificati, come per i partiti, che hanno l’obbligo anche se non rischiano sanzioni in caso di violazione.
Chi deve vigilare?
Questo è il punto più delicato. La commissione che vigila sui partiti ha soltanto cinque membri, organico insufficiente e potere sanzionatorio non idoneo.
Se ne può occupare l’Anac?
Premetto a scanso di equivoci: non rivendichiamo alcun ruolo. Ma bisogna che ci sia qualcuno che può intervenire e applicare sanzioni anche interdittive, pecuniarie, fino alla liquidazione della fondazione.
La Fondazione Open di Renzi è riuscita a incassare 1,9 milioni in un anno. Il presidente, Alberto Bianchi, è stato messo da Renzi nel cda dell’Enel. Altri donatori hanno ricevuto nomine governative o leggi su misura.
Al di là dei casi specifici, la funzione della trasparenza è proprio far emergere gli eventuali conflitti di interessi e poter comprendere eventuali provvedimenti sospetti che poi saranno oggetto di valutazione della politica. Per questo oltre alla riforma dei requisiti di trasparenza per partiti e fondazioni serve anche una legge sulle lobby.
Ne servirebbe però anche una sul conflitti d’interessi.
Abbiamo introdotto regole abbastanza rigorose con la legge Severino sui conflitti d’interessi della burocrazia. Ma la legge Frattini sulla politica va modificata, finora non ha fatto emergere alcun conflitto d’interessi. Un esempio di situazione critica: il passaggio da ruoli di governo a funzioni dirigenziali in un’impresa che opera in un settore regolato dallo Stato.
I Cinque Stelle hanno creato un’associazione, Rousseau, che raccoglie piccoli finanziamenti individuali. Vede profili critici in questo?
La necessità di trasparenza vale per tutti i tipi di contributi. La pluralità di micro-contributi può talvolta essere usata per nascondere un’unica donazione frammentata. A maggior ragione diventa necessaria la trasparenza sulle uscite, così si capisce come e nell’interesse di chi vengono impiegate le risorse.

La Stampa 1.4.18
Carlo Freccero: “Alleanza contro i big della Rete. Le due emittenti alla guerra dell’industria dell’immaginario”
“Vivendi perde l’occasione di fare una tv europea”
di  Michela Tamburrino


Una grande guerra mondiale sta per scoppiare, la guerra dell’industria dell’immaginario. Sky e Mediaset hanno appena siglato un accordo per non farsi trovare impreparate. C’entrano, in questa guerra, i gruppi europei, americani e cinesi, (Alibaba già sta investendo, in Italia, nel cinema globale) Amazon, Facebook, Google, Netflix che ha un protocollo d’intesa con Sky, c’entra la telefonia dell’accordo Sky-Enel attraverso la sua Open Fiber, c’entra un pubblico che da qui a dieci anni sarà sempre più Millennials. E la Rai? Gioca un’altra partita, non meno difficile.
Uno scenario affascinante Carlo Freccero. Lei che è autore tv, membro del cda Rai, uomo di prodotto, come la vede? 
«Vedo l’alleanza Sky e Mediaset pensata contro i grandi della rete, un accordo per predisporsi alla guerra delle piattaforme. E vedo Mediaset salire di un punto d’ascolti visto che andrà anche nel bouquet Sky».
E la Rai che partita gioca? 
«La Rai fa la generalista, è il suo core business e sempre più si sta focalizzando su Raiuno con le altre due ancelle al servizio, canali di flusso».
Una condizione di ripiego? 
«No, anzi. Fa servizio pubblico e fa realtà italiana. Una figura sovranista rispetto alla guerra della tv globalizzata che si svilupperà sui contenuti mondiali. La tv commerciale e la sua evoluzione raffinata, la Pay, sono già vecchie mentre la generalista parte dalla condivisione della memoria nazionale, nostalgia, radici e intrattenimento, dalla fiction che rispecchia l'italianità della sua storia».
Molto locale? 
«Un locale che può essere globale. Ma aggiornando il linguaggio, contaminandolo. La Rai deve produrre sue Gomorra. La tv di Stato deve essere per l’Italia quello che Cbs e Nbc sono: la voce dell’America profonda. E il piano editoriale ha dato indicazioni in questo senso. La si deve vedere come nella moda, l’elemento camicia bianca è universale».
Un’incognita in questa guerra chi la potrà giocare? 
«Il calcio. Fino ad oggi se la sono palleggiata Sky e Mediaset ma non è detto che non se ne potrebbe occupare Amazon o motivo del contendere anche per i colossi orientali, Cina, India».
Quali sono i punti caldi? 
«C’è Murdoch che fa il filo a Disney perché saranno cinema, serie per un pubblico giovane ed eventi al centro della lotta. Consideriamo anche l’enorme comparto dello sport. L’informazione resta trasversale. Sky ha fatto una divisione molto razionale, così si preparano fortificati allo scontro».
Un consumo, quello dell’immaginario, sempre crescente? 
«Oramai non si consuma che quello, con il lavoro che non c’è ci saranno sempre più produzioni, narcisistiche con i telefoni e Facebook e mondiali con la rete».
Ma la brutta caduta di Facebook non sarà mortale? 
«È solo politica, recupererà rapidamente. E qui parliamo di scenari veloci, da qui a dieci anni. Noi analogici saremo morti, i Millennials che resteranno non conoscono classificazione di schermi».
C’è un perdente? 
«La botta secca l’ha presa Bolloré, che ha perso l’occasione di fare una tv europea».

Repubblica 1.4.18
Intervista a Carlo Freccero:
“Per gli ex contendenti più ascolti e milioni dalla pubblicità la Rai non aspetti il futuro governo”
di A. Fon.


ROMA «L’accordo tra Sky e Mediaset chiama in causa tutti gli altri editori televisivi. Inclusi noi della Rai. Ci sono in ballo canali di cinema, serie tv, sport. Ma sento dire che anche Canale 5, Italia Uno e Rete 4, adesso criptati, torneranno sul telecomando Sky.
A quel punto questi tre canali avranno ascolti più alti dell’1,5%. E con gli spettatori si sposteranno i milioni della pubblicità».
Carlo Freccero: lei che è stato tra i fondatori di Canale 5, che ha diretto Italia Uno, la Cinq in Francia, Rai2 e Rai4, fa subito i conti in tasca a Sky e Mediaset.
«Sono ancora consigliere di amministrazione della Rai e ho il dovere di capire gli eventi in profondità».
Si sente minacciato
dall’intesa?
«Complimenti a entrambe queste aziende. Mi inchino alla lucidità di chi ha progettato l’accordo».
Scusi, ma che cosa la entusiasma esattamente?
«Sky e Mediaset si alleano per difendersi dalle televisioni della banda larga: Netflix e Amazon oggi, Google e Facebook domani.
Ed è l’unico modo per farcela.
Non si possono sprecare energie nella guerra, molto più saggio investire sui contenuti».
Che dovrebbero essere di qualità. Mediaset non sempre ce la fa sulle reti generaliste.
«Non vedo l’ora di guardare “Adrian”, il film di animazione che Adriano Celentano ha creato in quattro anni di lavoro. Sarà un grande evento di televisione».
E la sua Rai come risponde?
«Intanto lavoro sotto traccia per riportare Celentano anche da noi, con un suo spettacolo. In generale dobbiamo ragionare sul ruolo della tv pubblica, in questa nuova era, e travasare le nostre idee in un Piano industriale e nella riforma della informazione».
Piano industriale? Riforma delle news? Il suo cda è di fatto scaduto. A Viale Mazzini non vi faranno spostare neanche una pianta.
«Il Contratto di servizio ci impone di varare questi atti in 6 mesi. E non credo che la nostra uscita arrivi prima di allora, come pure qualcuno racconta. Un nuovo governo non è in campo. La commissione di deputati e senatori chiamata a vigilare sulla tv di Stato neanche si vede all’orizzonte. Il futuro presidente Rai deve ottenere l’investitura dei due terzi dei parlamentari della Vigilanza. Altrimenti non si insedia».
Ma il nuovo governo grillino-leghista...
«Chi dice che sarà questa la maggioranza? Non è certo. Il Pd può tornare in pista».
Se lo dice lei che è amico dei grillini...
«Sono stato eletto nel Cda Rai con i loro voti, ma adesso loro non mi invitano ai loro eventi. Penso alla kermesse di Ivrea del 2017, per dire. E comunque io resto una persona intellettualmente autonoma».
Freccero, dica la verità: quanti dirigenti Rai la chiamano per salire sul carro dei vincitori grillini?
«Neanche uno. Io sono un Caf.
Alla mia porta bussano i perdenti, che io voglio aiutare. Penso ai giornalisti che lavorano nei programmi Rai con la partita Iva, penso a chi ha 60 anni e sta per andare in pensione dopo aver avuto solo contratti a termine».
E il famoso partito Rai?
«È un partito centrista, che oscilla a destra quando vince la destra e a sinistra, se vince la sinistra. Ma oggi hanno vinto degli estremisti, da cui il partito Rai è disconnesso».

Il Fatto 1.4.18
La “Letizia” pubblica dell’aguzzino
L’omicidio di Laëtitia Perrais nel 2011 in Francia è stato vissuto come un affare di Stato: la furia di Sarkozy, i giudici sotto accusa. E la scena è stata tutta dell’assassino. Lei, Laëtitia, è “sparita”. Inghiottita dal ruolo di vittima
di Ivan Jablonka


Laëtitia Perrais è stata rapita nella notte fra il 18 e il 19 gennaio 2011. Era una cameriera di 18 anni residente a Pornic, nel dipartimento della Loire-Atlantique. Conduceva una vita anonima nella famiglia a cui era stata affidata insieme alla sua gemella. L’assassino è stato arrestato nel giro di due giorni, ma ci sono volute parecchie settimane per ritrovare il cadavere di Laëtitia. Il caso ha suscitato una grande emozione in tutto il Paese. Nell’esprimere le sue critiche sulla sorveglianza giudiziaria dell’assassino, il presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy ha chiamato in causa i giudici minacciando “sanzioni” per i loro “errori”. Le sue parole hanno scatenato una mobilitazione senza precedenti nella storia della magistratura. Nell’agosto 2011, caso nel caso, il padre affidatario è stato indagato per violenze sessuali sulla sorella di Laëtitia.
A tutt’oggi non sappiamo se anche Laëtitia sia stata violentata, dal padre affidatario o dall’assassino. Questo episodio di cronaca nera è eccezionale sotto tutti i punti di vista: per l’onda d’urto che ha creato, per la sua risonanza mediatica e politica, per le ingenti risorse mobilitate per ritrovare il cadavere, per le dodici settimane di ricerche, per l’intervento del presidente della Repubblica, per lo sciopero dei magistrati. Non è un semplice caso giudiziario: è un affare di Stato. Ma che cosa si sa di Laëtitia, oltre che è stata la vittima in un rilevante episodio di cronaca nera? Centinaia di articoli e reportage hanno parlato di lei, ma solo con riferimento alla notte della sua scomparsa e ai processi. Il suo nome compare in Wikipedia, ma nella pagina dedicata all’assassino, sotto il titolo “Omicidio di Laëtitia Perrais”. Eclissata dalla celebrità che ha regalato suo malgrado all’uomo che l’ha uccisa, è diventata il punto di arrivo di un percorso criminale, un successo nella sfera del male. Potere dell’assassino sulla “sua” vittima: non solo le toglie la vita, ma governa il corso di quella vita, già avviata verso l’incontro funesto, l’ingranaggio irreversibile, il gesto letale, l’oltraggio fatto al corpo. La morte attira a sé la vita. Non conosco racconti di delitti che non valorizzino l’assassino a spese della vittima. L’assassino è lì per raccontare, rammaricarsi o vantarsi. Del suo processo è il punto focale, se non il protagonista. Io vorrei invece liberare donne e uomini dalla loro morte, strapparli al crimine che li ha privati della vita e persino dell’umanità. Non onorarli come “vittime”, perché ciò significherebbe ricondurli ancora una volta alla loro fine; ma semplicemente ricollocarli nella loro esistenza. Testimoniare per loro. Il mio libro avrà un’unica protagonista: Laëtitia. L’interesse che le dimostriamo, come una nuova chiamata alla ribalta, la restituisce a se stessa, alla sua libertà, alla sua dignità. Da viva Laëtitia Perrais non ha suscitato l’interesse di nessun giornalista, di nessuno studioso, di nessun politico. Perché, oggi, dedicarle un libro? Strano destino, quello di questo personaggio che ha goduto di un’effimera celebrità. Agli occhi del mondo Laëtitia è nata nel momento in cui è morta. Vorrei dimostrare che un fatto di cronaca nera può essere analizzato come un oggetto storico. Un fatto di cronaca nera non è mai un semplice “fatto”, non ha nulla di “cronachistico”. Dietro il caso Laëtitia si delinea invece una profonda dimensione umana e un preciso quadro sociale: famiglie sfasciate, mute sofferenze infantili, giovani entrati presto nella vita attiva, ma anche il paese all’inizio del xxi secolo, la Francia della povertà, delle aree periurbane, delle diseguaglianze sociali. Ci fa scoprire i meccanismi del- l’inchiesta, le trasformazioni dell’istituzione giudiziaria, il ruolo dei media, il funzionamento del- l’esecutivo, la sua logica accusatoria così come la sua retorica della compassione. In una società in movimento il fatto di cronaca nera è un epicentro.
Ma Laëtitia non è importante solo per la sua morte. Anche la sua vita ci interessa, perché è un fatto sociale. Incarna due fenomeni piú grandi di lei: la vulnerabilità dei bambini e le violenze subìte dalle donne. Quando Laëtitia aveva tre anni, suo padre ha violentato sua madre; poi il padre affidatario ha abusato di sua sorella; lei stessa ha vissuto solo per 18 anni. Questi drammi ci ricordano che viviamo in un mondo in cui le donne vengono insultate, molestate, picchiate, violentate, uccise. Un mondo in cui le donne non sono soggetti di diritto in senso pieno. Un mondo in cui le vittime rispondono all’astio e alle botte con un silenzio rassegnato. Un conflitto a porte chiuse il cui esito comporta che siano sempre loro a morire. Non era programmato che Laëtitia, una ragazza radiosa amata da tutti, finisse macellata come un animale. Però fin dall’infanzia è stata destabilizzata, sballottata, trascurata, abituata a vivere nella paura, e questo lungo processo di debilitazione illumina sia la sua tragica fine sia la nostra intera società. Per distruggere una persona in tempo di pace non basta ucciderla. Bisogna prima farla nascere in un clima di violenza e di caos, privarla della sicurezza affettiva, mandare in frantumi il suo nucleo familiare, poi collocarla presso un padre affidatario perverso, non rendersene conto, e da ultimo, quando è tutto finito, sfruttare politicamente la sua morte. Inutile precisare che non ho mai incontrato personalmente Laëtitia. L’ho conosciuta attraverso le persone che l’hanno amata – genitori, amici, colleghi – o che hanno ricostruito i suoi ultimi momenti – magistrati, periti, avvocati, giornalisti –. La mia indagine è nata dalla loro. È una metaindagine, fondata sull’affetto degli uni e sul lavoro degli altri. Comprendere l’esistenza di Laëtitia presuppone sia tornare indietro di anni, ai tempi in cui nulla la distingueva dagli altri bambini, sia ripercorrere il sequestro e l’omicidio che ne hanno causato la scomparsa. Una storia di vita intrecciata a un’inchiesta giudiziaria. Una biografia che si prolunga dopo la morte. Neonata maltrattata, bambina trascurata, data in affido, adolescente timida, ragazza avviata verso l’autonomia, Laëtitia Perrais non ha vissuto per diventare un episodio nella vita del suo assassino, né un discorso dell’era Sarkozy.
Mi immagino Laëtitia come se fosse assente, rifugiata in un luogo che le piace, al riparo dagli sguardi. Non vagheggio la resurrezione dei morti; voglio salvare nella memoria i cerchi effimeri che hanno lasciato sulla superficie dell’acqua gli esseri umani mentre colavano a picco.
© 2016 Editions du Seuil, Paris.
© 2018 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Corriere 1.4.18
Stiamo perdendo la capacità di sognare
L’attività onirica è sempre più ridotta. I motivi?
Si dorme meno e si usano sostanze che rovinano il sonno Rem fondamentale per una mente sana
di Danilo Di Diodoro, psichiatra


Stiamo perdendo i nostri sogni, e non solo quelli a occhi aperti, ma anche quelli veri e propri che dovremmo fare di notte. Sogniamo meno, per tanti motivi diversi, dalla riduzione delle ore trascorse addormentati, all’utilizzo di sostanze che interferiscono con il sonno Rem, quella ancora abbastanza misteriosa ma importante fase del sonno nella quale per la maggior parte si producono i sogni. È una perdita non priva di conseguenze, come ha scritto di recente la rivista New Scientist: «Il sonno Rem è di vitale importanza, sia per l’apprendimento, sia per la creatività, e contribuisce in vario modo a promuovere una mente sana».
La società contemporanea predilige la veglia al sonno. Dorme meno del passato anche chi non soffre di insonnia, per impegni di lavoro, perché televisioni, cellulari e tablet attirano la nostra attenzione, perché la mattina suona la sveglia, tanto che è stato coniato il termine sindrome da sonno insufficiente . Durante il giorno si traduce in ridotta vigilanza, irritabilità, distraibilità e sensazione di fatica, sintomi che tendono a svanire quando ci si concede qualche notte di buon sonno prolungato e di meritato sognare.
Anche la vera e propria insonnia ruba sonno e sogni. Infatti il cervello sembra prediligere il sonno non Rem, nel quale vi è una concentrazione minore di sogni. «Il sonno Rem, associato al sognare, è un mediatore della funzione immunitaria, serve a consolidare la memoria e regola il tono dell’umore» dice Rubin Naiman dell’University of Arizona Center for Integrative Medicine, autore di un articolo sull’argomento pubblicato sugli Annals of the New York Academy of Sciences . Naiman segnala recenti studi realizzati sia sugli animali, sia sull’uomo, che hanno scoperto come la deprivazione di questa fase di sonno aumenti le risposte infiammatorie dell’organismo e la sensibilità al dolore fisico, oltre a generare difficoltà di memoria. Chi viene sistematicamente risvegliato appena compare questa fase di sonno, mostra molto rapidamente comportamenti irritati e aggressivi. Alla lunga emergono vere e proprie condizioni depressive.
Ma il sonno Rem, con i suoi sogni particolarmente bizzarri, costituiti da immagini come se fossero veri film, e ricchi di contenuti emotivamente forti, è anche importante per il consolidamento delle memorie. «È proprio per le emozioni tipiche del sonno Rem che si ha questa funzione di consolidamento» dicono Michelle Carr e Tore Nielsen del Dream and Nightmare Laboratory del Center for Advanced Research in Sleep Medicine di Montréal, in Canada, autori di uno studio pubblicato su Consciousness and Cognition . «Un fenomeno simile a quanto avviene per il cosiddetto “potenziamento emozionale della memoria” che si verifica da svegli quando un forte stimolo emozionale giunge durante lo svolgimento di un compito di memorizzazione o durante la mezzora seguente». Lo stimolo emotivo, specie se a contenuto negativo, come spesso sono i sogni fatti nel sonno Rem, attiva il locus ceruleus , un nucleo del tronco cerebrale che invia messaggi mediati dall’adrenalina, sia alla corteccia cerebrale, sia all’ippocampo, importanti sedi di gestione delle informazioni memorizzate. Una sferzata che rinforza l’apprendimento mnemonico.
Sonno Rem e sogni sono poi insidiati dall’alcol, sebbene molti siano convinti che possa aiutare a dormire. «Il mito che l’alcol faciliti il sonno è difficile da scacciare, soprattutto perché in esso c’è una qualche verità» dice ancora Naiman. «In quanto agente che deprime il sistema nervoso centrale, l’alcol riduce il tempo di addormentamento e quindi può effettivamente aiutare ad addormentarsi con maggiore prontezza. Ma, appena viene metabolizzato, stimola un’impennata compensatoria di tipo adrenergico che va a distruggere in maniera significativa il sonno Rem e l’esperienza del sogno». Un’azione molto simile la svolge la cannabis, capace di interferire con il sonno Rem, e anche la nicotina modifica in maniera negativa la normale architettura del sonno. Il sonno Rem è poi penalizzato quando si assumono sonniferi, a favore di più lunghi periodi di sonno leggero. Accade soprattutto con le benzodiazepine ma forse anche con le cosiddette Z-drug, come lo zolpidem e lo zaleplon.
Oggi si è anche scoperto che i passaggi dallo stato di veglia a quello di sonno non-Rem e a quello di sonno Rem sono governati da una serie di differenti network cerebrali, a loro volta sotto il controllo di specifici geni.
Quando uno di questi geni non funziona adeguatamente il sonno Rem e il sogno possono risentirne negativamente.
La scoperta è stata realizzata, per ora sui topi da Masashi Yanagisawa che, assieme ad alcuni suoi collaboratori dell’ International Institute for Integrative Sleep Medicine di Tsukuba in Giappone, ha pubblicato un articolo sulla rivista Nature .
Lo studio è stato realizzato introducendo modifiche casuali su oltre 8 mila geni di topi da laboratorio, che sono poi stati esaminati nei loro pattern di sonno. Alcuni di essi, ai quali era stato modificato il gene chiamato Nalcn, hanno perso completamente il sonno Rem. A chi gli ha chiesto se i topi fossero anche diventati incapaci di sognare, il professor Yanagisawa ha dato una risposta molto abbottonata: «È difficile rispondere a questa domanda, dal momento che i sogni sono fondamentalmente un fenomeno soggettivo».

Al risveglio
Perché i sogni aiutano a trovare soluzioni originali


Esiste un legame fra sogni, sonno Rem e soluzioni a problemi non risolti durante la veglia. «I sogni trovano soluzioni che richiedono un pensiero fuori dagli schemi» scrive Deirdre Barrett del Department of Psychiatry dell’Harvard Medical School in un articolo pubblicato su Annals of the New York Academy of Sciences . «Ciò ha un senso, considerando la fisiologia del sonno Rem. La corteccia cerebrale prefrontale è in sostanza disconnessa, così non siamo abbastanza veloci a censurare idee con pensieri come: “non è questo il modo di affrontare la questione”. E i sogni sono poi utili anche quando la soluzione può essere rappresentata visivamente, e in effetti la corteccia visiva secondaria, associata alla produzione di immagini mentali, è più attiva durante il sonno Rem».

Corriere La Lettura 1.4.18
Tre Europe minano l’Europadopo la rielezione di Putin: la situazione nelle terre dell’ex impero sovietico
Non giova a nessuno mantenere legami così stretti tra Stati che hanno obiettivi tanro diversi
In Paesi come la Polonia e l’Ungheria i politici più popolri sono in cerca di un nemico da odiare
di Sergio Romano


A Parigi e in altre grandi città della Europa occidentale, il 1968 fu l’anno delle rivolte giovanili, della rivoluzione sessuale e delle manifestazioni studentesche. Vi furono gruppi che si definivano comunisti, ma il loro cuore batteva per Trotsky, vittima di Stalin, per la rivoluzione culturale cinese e per quella contadina di Che Guevara. Sbarcato a Parigi il 10 maggio, qualche ora prima di una grande manifestazione che si concluse con l’occupazione della Sorbona, ebbi l’impressione di piombare nel mezzo di una festa surrealista. Nei giorni seguenti vi fu qualche comizio nella grande fabbrica automobilistica di Boulogne Billancourt, ma i dibattiti più vivaci e frequentati erano quelli che andavano in scena ogni sera al Théatre de l’Odéon, allora diretto da Jean-Louis Barrault. La grande festa rivoluzionaria finì quando un milione di francesi (secondo gli organizzatori) scese lungo i Champs Élysées per chiedere il ritorno all’ordine, e gli elettori, chiamati alle urne, mandarono all’Assemblea nazionale una maggioranza conservatrice.
Distratti dalla più straordinaria e fantasiosa rivoluzione borghese, ci accorgemmo con ritardo che un’altra Primavera, al di là della cortina di ferro, stava lanciando messaggi a cui non potevamo restare indifferenti. I primi segnali giunsero in Occidente da Praga agli inizi del 1968, quando il vecchio segretario del partito, Antonin Novotny, fu sostituito da un comunista slovacco, Alexander Dubcek, già noto per la simpatia con cui sembrava reagire alle proposte riformiste che circolavano nei caffè e nei corridoi del partito. Quando si cominciò a parlare di «socialismo dal volto umano», molti drizzarono le orecchie e qualcuno sperò che l’Unione Sovietica, guidata da Leonid Brežnev, sarebbe stata più pragmatica e comprensiva di quella che aveva soffocato tutte le richieste riformatrici, dallo sciopero degli operai di Berlino nel 1953 all’insurrezione di Budapest nel 1956.
Commisero un errore. La guerra fredda non era più quella degli anni Cinquanta, ma Mosca temeva che qualsiasi concessione ai «satelliti» avrebbe avuto intollerabili ripercussioni sulla società sovietica e sulla sua credibilità nel mondo. Il timore non era infondato. Vi fu qualche coraggioso dissidente, a Mosca e Leningrado, che cercò di protestare pubblicamente. Erano segnali modesti, ma per la dirigenza comunista sempre allarmanti.
Una delle principali reazioni sovietiche, nei mesi seguenti, fu la proposta di una grande conferenza per la sicurezza europea a cui avrebbero partecipato i Paesi della Nato e del Patto di Varsavia. Lo scopo, per Mosca, era la firma di un documento che avrebbe implicitamente riconosciuto la divisione dell’Europa e dato una legittimazione internazionale al potere dell’Urss nei Paesi conquistati dall’Armata rossa nella Seconda guerra mondiale. Dopo qualche resistenza, anche gli americani firmarono l’Atto finale della Conferenza a Helsinki nell’agosto del 1975. Conteneva dichiarazioni e principi che davano per scontata l’esistenza di un’area d’influenza sovietica dalle Repubbliche del Baltico fino a Berlino. Ma anche le democrazie occidentali segnarono un punto, ottenendo che un articolo del Trattato sancisse il «rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza e religione».
Questa clausola ebbe l’effetto di suscitare in alcuni Paesi dell’Est, ma anche in Unione Sovietica, un nuovo dissenso. Erano ebrei che chiedevano di partire per Israele, ma anche intellettuali, scrittori, registi di cinema e teatro che reclamavano il diritto di esprimere pubblicamente il proprio pensiero. A Praga cominciò a circolare, più o meno clandestinamente, Charta 77, un documento scritto da cinque persone (fra cui Vaclav Havel, futuro presidente della Repubblica Ceca) e firmato da quasi 300 cittadini. In Polonia un tecnico dei cantieri navali di Danzica, Lech Walesa, già protagonista di uno sciopero «illegale» nel 1970, riprese l’attività politica e sindacale fino alla creazione nel 1980 di una organizzazione che verrà chiamata Solidarnosc e diventerà il cuore della opposizione nel Paese. L’agitazione divenne particolarmente efficace perché il Conclave, nell’ottobre 1978, aveva eletto Papa il cardinale polacco Karol Wojtyla. Da quel momento il regime comunista di Varsavia dovette fronteggiare nuove sfide. Non poteva negare al Pontefice il diritto di visitare la sua patria; ma ogni viaggio di Giovanni Paolo II riscaldava il cuore dei polacchi e strappava al sistema qualche concessione. La protezione papale non poté impedire che un generale divenuto primo segretario del partito e capo dello Stato, Wojciech Jaruzelski, inscenasse un colpo di Stato nel dicembre del 1981, proclamasse lo stato di guerra e facesse arrestare tutti i maggiori esponenti di Solidarnosc. Ma il nuovo dittatore sostenne sempre, con qualche buona ragione, che il suo intervento aveva risparmiato ai polacchi un’invasione sovietica nello stile di Budapest 1956 e Praga 1968.
Anche in Urss stava accadendo qualcosa. Più che dal dissenso interno la politica riformatrice di Mikhail Gorbaciov fu motivata dalla constatazione che la «patria della rivoluzione socialista» aveva mancato tutte le rivoluzioni industriali e tecnologiche da cui dipendeva la straordinaria crescita sociale ed economica delle democrazie occidentali. Con alcuni viaggi nell’Europa dell’Est il nuovo segretario del partito cercò di persuadere i «satelliti» che la perestrojka («ristrutturazione») sarebbe stata utile anche al loro futuro. A Varsavia capì che i polacchi avevano ormai imboccato la loro strada, alquanto diversa da quella dell’Urss, e dovette limitarsi a dare consigli ascoltati molto distrattamente. Ma a Berlino Est si scontrò con una dirigenza che vedeva nelle riforme, con ragione, la fine del proprio potere.
Gorbaciov insistette e la sua presenza nella Repubblica democratica tedesca ebbe l’imprevisto effetto di incoraggiare gli oppositori del regime, ormai usciti dall’ombra e pronti a manifestare contro lo Stato comunista. Ritornano in scena, da quel momento, i vecchi Stati balcanici e quelli nati a Versailles dal crollo dell’Impero austro-ungarico. In alcuni casi la transizione fu dolce (quella della Cecoslovacchia venne definita una «rivoluzione di velluto»), ma almeno in un Paese (la Romania) fu sanguinosa e spietata. In ogni Paese assistemmo al ritorno degli esuli, ma anche al cambio di casacca di coloro che non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere.
Benché storicamente diversi, tutti i Paesi liberati avevano almeno due esigenze. In primo luogo dovevano garantire un futuro migliore ai loro cittadini e adattare un apparato economico dirigista alle regole dell’economia di mercato. In secondo luogo erano troppo deboli per affrontare da soli il problema della loro sicurezza.
Alla prima esigenza si dedicò l’Unione Europea. Sarebbe stato meglio assisterli con un programma economico di sussidi e prestiti. Ma la Germania, dopo essere stata per molto tempo, durante la guerra fredda, il bastione orientale del mondo euro-atlantico contro il blocco comunista, voleva che al di là dei suoi confini con l’Europa slava vi fossero Paesi uniti a quelli dell’Ovest da istituzioni comuni. Scattò in quel momento la macchina che avrebbe trasformato una Comunità originariamente composta di sei Paesi in una Unione di 28 (27 dopo l’uscita della Gran Bretagna), di cui sei erano appartenuti all’orbita sovietica, tre (le Repubbliche del Baltico) all’Urss e altre tre al mondo scandinavo.
Mentre molti Paesi dell’Europa centro-occidentale avevano fatto parte del Sacro Romano Impero o preso parte, anche se in campi opposti, a una grande guerra civile europea (quella dei Trent’anni), i Paesi dell’Est avevano spesso condiviso, in pace e in guerra, le vicende storiche di due imperi orientali, il russo e l’ottomano. Non è tutto. Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi avevano preso parte alla Seconda guerra mondiale, anche se in campi diversi, e ne erano usciti più o meno egualmente sconfitti. Le loro classi dirigenti non avevano dimenticato i progetti europeisti degli anni Trenta, da quello franco-tedesco di Aristide Briand e Gustav Stresemann, a quello paneuropeo di Richard Nikolaus Coudenhove Kalergi. Un brillante regista francese di piani politici ed economici (Jean Monnet) suggerì al suo governo iniziative che avrebbero favorito la nascita di progetti comuni per la ricostruzione di un continente distrutto. Gradualmente gli altri cinque Paesi giunsero alle stesse conclusioni. Cominciò così una fase di iniziative, non sempre coronate dal successo, ma destinate ad avere una grande influenza sul futuro dell’Europa: Comunità europea per il carbone e per l’acciaio, Comunità europea di difesa, Comunità economica europea, Comunità europea per l’energia atomica. Il fattore che maggiormente univa i «sei» era la convinzione di avere ceduto, anche se in tempi diversi, a uno stesso vizio: il nazionalismo.
Al di là della Anhalter Bahnhof, la stazione ferroviaria berlinese da cui si lascia il Sacro Romano Impero, il clima politico era alquanto diverso. Occupati dall’Armata rossa nell’ultima fase del conflitto, gli Stati dell’Est europeo erano stati costretti a diventare «democrazie popolari» e avevano cominciato a coltivare da quel momento i germi di un nazionalismo vittimista. Anziché interrogarsi sulle proprie responsabilità (la Polonia nel 1938 aveva approfittato del patto di Monaco per prendersi un pezzo di Cecoslovacchia), trovarono qualche conforto nel raccontare a sé stessi una storia fatta di ingiustizie sofferte e tradimenti subiti. Dopo la caduta del muro, la disintegrazione dell’impero sovietico e l’allargamento dell’Unione Europea, questi sentimenti, nel Paesi dell’Est, sembrarono lasciare il passo a una visione più ottimistica del futuro. Le generose somme assicurate dall’Ue (per la politica agricola, la costruzione di infrastrutture e la modernizzazione degli apparati amministrativi) cambiarono la vita e l’aspetto dei vecchi satelliti sovietici. La libertà di movimento all’interno dell’Unione offrì un impiego a coloro che avevano languito per molti anni nella grigia società comunista. La rotazione delle cariche alla guida dell’Ue permise alle nuove classi politiche dell’Est di fare utili esperienze democratiche. Ma nel primo decennio del secondo millennio (soprattutto in Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca) nuove figure politiche fanno la loro apparizione. Per raccogliere consensi in ambienti nazionalisti risvegliano nella memoria collettiva il ricordo delle pagine più nere della storia nazionale: per la Polonia la spartizione fra l’Urss e il Terzo Reich nel 1939 e l’«iniquo» patto di Yalta nell’aprile 1945; per la Repubblica Ceca la cessione della Boemia e della Moravia a Hitler nel marzo 1939; per l’Ungheria la coraggiosa insurrezione del 1956, abbandonata a sé stessa da una Nato «cauta e codarda», ma anche il trattato del Trianon con cui il Paese nel 1920 fu privato di una grande parte dei suoi territori.
Queste nuove forze politiche hanno bisogno di un nemico da odiare e lo hanno trovato anzitutto nei loro compatrioti comunisti, ormai vecchi e innocui, contro i quali la Polonia, in particolare, ha sferrato una anacronistica battaglia. Per l’Ungheria — che l’8 aprile elegge il nuovo Parlamento — il nemico è George Soros, presentato al Paese come quinta colonna del capitalismo finanziario mondiale e ultima incarnazione del nemico che avrebbe insidiato nei secoli la nazione magiara. Per tutti il nemico è Bruxelles, responsabile di politiche, come la ripartizione degli immigrati, che violerebbero la sovranità nazionale. In questa galleria di nemici interni si intravedono anche gli ebrei, e in certe assemblee popolari può accadere di assistere a qualche saluto nazista.
Il nemico esterno invece è la Russia di Vladimir Putin. I Paesi dell’Europa orientale hanno chiesto di entrare nella Nato per meglio garantire la propria sicurezza dalle presunte minacce russe, mentre la calorosa e interessata accoglienza degli Stati Uniti ha creato tensioni e contrapposizioni che al vertice atlantico di Pratica di Mare, nel maggio 2002, era parso possibile evitare.
Vi sono quindi almeno tre Europe: quella dei Paesi che condividono gli ideali di Jean Monnet, Konrad Adenauer, Maurice Schumann, Alcide De Gasperi; quella dei «compagni di viaggio», interessati soprattutto dai benefici che l’Unione offre ai suoi membri; quella del gruppo di Višegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria), per cui il rapporto con Washington è molto più importante di quello con Bruxelles. In ultima analisi non può giovare a nessuno mantenere legami tanto stretti fra Paesi che hanno obiettivi così diversi.

Corriere La Lettura 1.4.18
Intervista A 100 anni dall’indipendenza
Cechi e slovacchi: l’unità equivoca che nel 1989 restò senza difensori
di Antonio Carioti


Cento anni fa, con la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, nasceva la Cecoslovacchia. Cinquant’anni fa gli occhi dell’Europa erano puntati su Praga, dove si sperimentava il «socialismo dal volto umano» di Alexander Dubcek, poi stroncato dall’invasione sovietica. Oggi la Cecoslovacchia non c’è più: al suo posto sorgono la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Abbiamo ripercorso il tentativo di unire popoli dalle lingue molto simili, ma dalle tradizioni diverse, insieme allo studioso francese Étienne Boisserie, autore del recente libro Les Tchèques dans l’Autriche-Hongrie en guerre («I cechi nell’Austria-Ungheria in guerra»), che dal 18 al 20 aprile sarà a Trento per un convegno sulla Grande guerra.
Come riuscirono cechi e slovacchi a ottenere l’indipendenza nel 1918, al termine del primo conflitto mondiale?
«Fu il risultato di un processo complesso, alimentato all’esterno e all’interno dell’Impero asburgico. All’estero il nazionalista ceco Tomáš Masaryk e il Consiglio nazionale costituito nel 1916 cercarono di creare le condizioni per combattere al fianco dell’Intesa contro gli Imperi centrali e ottenere lo statuto di belligeranti, per trarne benefici alla fine della guerra. A questo scopo, reclutando i loro connazionali presi prigionieri dall’Intesa, formarono Legioni di volontari cecoslovacchi operanti su vari fronti, anche in Italia. All’interno il processo fu ben diverso. Fino all’estate del 1917 la grande maggioranza delle forze politiche e sociali rimase fedele a Vienna e all’ideale dell’austroslavismo teorizzato dagli stessi cechi nel corso del XIX secolo. Solo all’ultimo gli elementi lealisti furono messi da parte nei vari partiti, dove s’imposero uomini più radicali e legati alle forze in esilio».
Perché questo cambio di rotta?
«Lo slittamento fu causato dal degrado delle condizioni di vita e dall’incapacità dello Stato di porvi rimedio, oltre che dal progressivo allineamento dell’Austria alla Germania. Ma l’indipendenza cecoslovacca s’impose come soluzione tardivamente, nell’estate del 1918, quando gli Alleati considerarono che nessun ordine europeo poteva essere costruito nel dopoguerra tenendo in piedi l’Impero asburgico. In questo quadro le spinte nazionaliste, riguardanti tutti i popoli dell’Impero, ivi compresi tedeschi e ungheresi, produssero i loro effetti nell’ottobre 1918. Ma il ruolo di cechi e slovacchi non si può ritenere decisivo».
La parte ceca era sviluppata industrialmente e secolarizzata, quella slovacca agricola e cattolica. Fu un errore creare un nuovo Stato fondendo popoli che presentavano un divario così netto?
«La differenze religiose e culturali non vanno trascurate nel considerare il destino della Cecoslovacchia. È vero che le due nazioni si erano costruite su modelli differenti. E la divergenza si era accentuata dopo il compromesso del 1867, da cui era nata la Duplice Monarchia asburgica, con le traiettorie di sviluppo separate seguite dai cechi nella parte austriaca e dagli slovacchi in quella ungherese dell’Impero. Ma il fatto fondamentale è che quel Paese non ha mai superato davvero le ambiguità iniziali della sua creazione. In sintesi: per i cechi il nuovo Stato era una versione ottimale del programma storico di restaurare l’indipendenza perduta. Invece per gli slovacchi esso era il quadro che doveva permettere il riconoscimento nazionale e culturale a cui aspiravano dalla metà del XIX secolo. Colpisce, a posteriori, la forza mantenuta da questi paradigmi storici fino alla separazione sancita il 1° gennaio 1993».
Il sistema di stampo sovietico instaurato a Praga nel 1948 ha influenzato il rapporto tra i due popoli?
«È difficile dire che il regime comunista abbia pregiudicato le relazioni tra cechi e slovacchi. D’altro canto nel corso di quel periodo storico nessuna delle difficoltà di articolazione tra la visione ceca e quella slovacca è stata ridotta. Il potere alternava fasi di negazione della questione a tentativi di affrontarla. Quando si è verificata la rivoluzione del 1989, nessuno dei problemi di f0ndo era stato risolto e, come sempre nella storia cecoslovacca, l’instaurazione di un regime democratico ha determinato una riapertura del dibattito sui rapporti reciproci».
Ma la secessione poteva essere evitata?
«In quel momento sono le forze disponibili per una mediazione che sono venute a mancare. La Cecoslovacchia è scomparsa perché non poteva appoggiarsi, nelle due parti dello Stato, a forze politiche e sociali che considerassero il suo mantenimento come una soluzione preferibile alla spartizione».

Corriere La Lettura 1.4.18
Islam, Mosca, Pechino L’Asia centrale fa gola
di Alessandro Vanoli


Per secoli fu il centro del mondo. Un centro così vasto da raccogliere insieme geografie, culture e lingue lontanissime tra loro. Dal Mar Caspio attraverso i deserti del Turkmenistan e dell’Uzbekistan, passando per le steppe settentrionali del Kazakistan, sino alle alte catene montuose del Kirghizistan e del Tagikistan. Prima di questi nomi e delle recentissime idee nazionali a cui essi si legano, questi furono i luoghi nodali della Via della Seta, attraversati dai grandi flussi di commercio e di scambio che percorrevano l’Asia, da Occidente e da Oriente.
Spazi di nomadi e mercanti, sedi di grandi civiltà, cresciute all’ombra delle oasi o lungo il corso di lunghi fiumi, come l’Amu Darya, l’Oxus degli antichi greci. Furono questi i luoghi delle più lontane conquiste di Alessandro Magno: a sud la Battriana e a nord la Sogdiana, protesa verso oriente attraverso la valle di Fergana. Su quelle vie si incontrarono il buddhismo, che stava giungendo dalla Cina, e il cristianesimo in cammino verso l’Estremo Oriente. Ma la centralità strategica avrebbe segnato a lungo il destino di quei luoghi. Difficile fare un elenco degli invasori che vi giunsero: arabi, turchi selgiuchidi, mongoli. Popoli diversi, ma che contribuirono al consolidarsi della religione islamica, facendo sì che città come Samarcanda e Bukhara diventassero leggendari luoghi da sogno, colmi di tesori e di cultura.
Nell’Ottocento, però, tutta questa gloria era ormai lontana: furono gli anni dello scontro tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Asia centrale; lo chiamarono il Grande Gioco, e la parola ebbe la sua fortuna letteraria con Rudyard Kipling. Un lungo conflitto, al termine del quale l’influenza russa non fu più messa in discussione. Mancava poco alla rivoluzione d’Ottobre e per quei territori cominciava un’altra storia.
Le nuove regioni che la Russia voleva costruire dovevano essere caratterizzate da una stessa etnia e da un linguaggio comune. Erano le idee del tempo: l’identità di popolo era il miraggio inseguito ovunque dalla politica. In Asia centrale la cosa però non era semplice: alcuni gruppi come kazaki, kirghizi e turkmeni possedevano in effetti una certa identità linguistica; ma c’erano altre popolazioni, a sud soprattutto, che non si definivano sulla base del linguaggio, ma sulla base della religione o sull’appartenenza a una specifica regione.
Comunque sia, dopo il 1917 l’Asia centrale fu divisa in una seria di repubbliche autonome socialiste. Dove l’autonomia era in realtà pura finzione. Lo stretto controllo da parte di Mosca venne esercitato attraverso l’apparato centralizzato del Partito comunista: in ognuna di quelle repubbliche, se il primo segretario era, di regola, un rappresentante della locale «nazionalità», il secondo segretario era sempre un russo, inviato da Mosca, che avrebbe garantito la conformità del governo locale alle decisioni del centro. A suo modo fu un grande esperimento: adattare quelle società tradizionali al nuovo mondo socialista. E non si trattò di un’operazione facile: le resistenze e le aperte ribellioni furono numerose, tanto da parte degli antichi poteri locali quanto di molte istituzioni religiose islamiche, che si dimostrarono molto più tenaci di quanto Mosca avrebbe voluto.
Così il controllo fu rafforzato e si moltiplicarono le purghe. L’alfabeto tradizionale arabo venne cancellato e sostituito prima da una serie di alfabeti latini, poi, attorno al 1940, da alfabeti cirillici modificati. La propaganda antireligiosa contro l’islam si fece sempre più forte: molte moschee furono chiuse, i santuari soppressi e svariati funzionari religiosi perseguitati. E tutto questo mentre il sistema educativo veniva trasformato e migliorato, istruendo e formando nuove élite locali, educate dal sistema sovietico, che in seguito avrebbero raggiunto posizioni influenti nello Stato e nel partito. Intanto però l’Asia centrale spariva. Vi furono collettivizzazioni forzate, come quelle che condussero alla sedentarizzazione dei kazaki e a conseguenti ribellioni, carestie e stragi di bestiame. Vi furono imponenti trasformazioni economiche, come ad esempio la riconversione alla monocoltura del cotone in Uzbekistan, già cominciata in periodo zarista e portata a conseguenze devastanti in epoca sovietica. Le necessità di risorse idriche richieste da tale coltivazione, infatti, condussero quasi al prosciugamento di fiumi come l’Amu-Darya e il Sari Darya, finendo così per causare la sparizione del lago d’Aral.
Non sorprende che, quando nel 1991 l’Unione Sovietica si disintegrò, i leader comunisti delle repubbliche dell’Asia centrale proclamassero rapidamente la loro indipendenza, con solo qualche esitazione da parte del Kazakistan. Da quel momento l’attenzione del mondo nei loro confronti è stata scarsa, anche se insieme occupano un’area di quattro milioni di chilometri quadrati e contano oltre 65 milioni di abitanti. Ciononostante quelle giovani nazioni hanno cominciato a muoversi, poggiando sul loro passato, o meglio sulla reinvenzione del loro passato. Un punto di partenza, questo, già fissato nei loro nomi: perché il suffisso -stan , che deriva dal persiano, significa proprio luogo o Paese; dunque «Paese dei turkmeni» o «dei kazaki» e via dicendo. Una saldatura tra popolo e territorio su cui gli attuali Stati ex sovietici hanno fondato non poco della loro legittimazione, ricostruendo la loro storia e il loro senso di appartenenza a partire da un passato più o meno mitizzato, da una nuova idea di sangue comune e dalla costruzione di un nemico condiviso. Tutto questo attraverso una forte affermazione dell’identità turca, legata magari al nuovo risveglio islamico. A guidare tali processi, sono stati una serie di regimi spesso autocratici e dispotici. In particolare in Turkmenistan, dove il passato presidente, Saparmurat Niyazov, ha fondato un bizzarro culto della personalità, adottando il nome Turkmenbashi («Padre dei Turkmeni») e ribattezzando città, strade e persino i giorni della settimana con il proprio nome.
È un quadro complesso, quello dell’Asia centrale ex sovietica, caratterizzato oggi dalle impressionanti potenzialità energetiche di queste terre. La zona tra Azerbaigian, Iran, Kazakistan, Russia e Turkmenistan, quella cioè che ha come centro il Mar Caspio, ha infatti una riserva di petrolio e gas naturali valutabile in più di duecento miliardi di barili, qualcosa come il 19 per cento del totale delle riserve mondiali. Senza contare le immense riserve di gas naturale che si estraggono ai confini tra Russia e Kazakistan, le centinaia di migliaia di barili che producono giornalmente i recenti giacimenti del Kurdistan, e tanti altri.
La Via della Seta, oggi, è anche e soprattutto una via sotterranea di gasdotti e oleodotti che innerva l’Asia sino al Mediterraneo, giustificando ogni tipo di politica e, purtroppo, ogni sorta di conflitto. Ma non solo. La Via della Seta è oggi soprattutto quella del nuovo imponente progetto infrastrutturale inaugurato dalla Cina nel 2013. Un progetto di collegamenti stradali e ferroviari che di qui a qualche decennio potrebbe fare del Kazakistan il fulcro di un sistema che da Rotterdam e da San Pietroburgo giungerebbe sino fino a Xi’an, in piena Cina.
In questo nuovo Grande Gioco, gli attori sono ancora più numerosi. C’è la Russia, in primo luogo, che non ha ovviamente abbandonato i suoi interessi strategici su quelle regioni. C’è la Turchia, che ha ormai costruito profondi legami commerciali con le cinque Repubbliche. E ci sono gli interessi strategici di altri Paesi islamici, che hanno contribuito attivamente alla rinascita religiosa degli ultimi anni attraverso la costruzione di moschee, il finanziamento di scuole coraniche e borse di studio per universitari. Un fenomeno che ha determinato una considerevole rinascita culturale e politica, ma che ha portato con sé anche conseguenze negative.
Il fatto che negli ultimi anni un gran numero di terroristi sia stato legato a quelle zone, in particolare all’Uzbekistan, è un dato decisamente preoccupante, a cui bisogna almeno aggiungere il problema dei tanti combattenti che, in tempi recenti, si sono uniti all’Isis partendo dalle regioni dell’Asia centrale e della valle di Fergana in particolare. Ma è proprio tutta questa complessità, anche nelle sue forme più drammatiche e violente, a mostrare i termini del problema: il centro del mondo è tornato di nuovo verso l’Asia. Le steppe, i deserti e le montagne inaccessibili sono di nuovo tra i luoghi centrali dell’economia e degli interessi strategici mondiali.
Se la nuova Via della Seta è ormai una realtà, quei mondi ne sono uno dei fulcri. E tutto questo ci riguarda da vicino: perché molte delle strade che passano dall’Uzbekistan o dal Tagikistan giungono in realtà sino al nostro Mediterraneo; perché la loro storia e il loro destino sono anche i nostri.

Corriere La Lettura 1.4.18
Caucaso/1 Nazioni deboli e divise da duri contrasti
Gli armeni e gli azeri sono vasi di coccio
di Paolo Salom


A vederle su una mappa, Armenia e Azerbaigian sembrano l’esemplificazione del simbolo del Tao: un punto di bianco nel nero, un punto di nero nel bianco. Ma a dispetto dell’armonia che il celebre cerchio filosofico orientale suggerisce, la separazione dall’Azerbaigian dell’exclave Nakhichevan (arginata per tre quarti dall’Armenia) e l’inclusione del Nagorno Karabakh (etnicamente armeno e di fatto indipendente) nella Repubblica azera, pur affondando nella storia, sono motivo di tensione permanente e anche di scontri armati.
Dall’indipendenza, nel 1991, dei due Paesi dalla morente Unione Sovietica, c’è stata una guerra sanguinosa (1991-1992), poi continui atti di guerriglia, l’ultimo nel 2016. Vero è che il Caucaso non è mai stato terra di facili coesistenze, la sua conformazione — orografica e umana — sembra nata per favorire le rivalità piuttosto che la cooperazione.
Prendiamo l’Armenia: praticamente priva di risorse naturali, arroccata su montagne con cime che superano i 4 mila metri, oscilla tra sviluppo e recessione, mentre i fili diplomatici che ne garantiscono la sopravvivenza corrono verso Mosca piuttosto che Bruxelles.
Il vicino Azerbaigian? Più fortunato dal punto di vista energetico — è ricco di petrolio — degrada dai monti dell’Armenia in una pianura che scende verso le acque chiuse del Mar Caspio, dove peraltro sorge Baku, capitale dal dolce clima mediterraneo: qui, dagli anni Novanta, «regna» la famiglia Aliyev, con lo scettro presidenziale passato dal padre Heidar al figlio Ibrahim.
Cristiani gli armeni, musulmani gli azeri. Incerti se affidarsi alle cure dell’Europa, entrambi i popoli vivono nella convinzione che le potenze più vicine (e con scrupoli politici minimi) siano determinanti per mantenere l’indipendenza costata tantissimo. Non deve sorprendere che il presidente armeno Serz Sargsyan abbia preferito la sicurezza di un accordo di ferro con Mosca,trascurando l’Europa: la realtà del Caucaso lascia poco spazio alla politica dei princìpi. Erevan è una capitale stretta tra Turchia (gli armeni hanno ottima memoria e non dimenticano il genocidio patito nel 1915-16), Iran e, appunto Azerbaigian: dove altrimenti potrebbe trovare la garanzia della protezione che le montagne da sole non possono assicurare?
L’Azerbaigian è più libero di giocare sullo scacchiere delle alleanze: ma come arginare la spinta culturale che lo lega a Teheran in un abbraccio che talvolta si fa soffocante? È forse per questo che le classi dirigenti a Baku continuano a parlare russo tra di loro? In questa difficile equazione, dove le variabili sono capaci di alterare il risultato in ogni momento, sarebbe opportuno inserire anche la Cecenia. La piccola repubblica autonoma inclusa nella Federazione russa è già fisicamente inserita nel contesto strategico che vede Mosca come l’unico faro possibile. Tuttavia la lezione della storia resta un monito per tutti nell’area. Quando la Russia è debole, impera il caos; quando la Russia è forte, la stabilità si paga a caro prezzo: quello della libertà.

Corriere La Lettura 1.4.18
Caucaso/2 Il conflitto in Abkhazia e Ossezia del Sud
Due ferite aperte La Georgia sanguina
di Luigi Magarotto


Le prime elezioni multipartitiche nella Repubblica sovietica di Georgia furono indette il 28 ottobre 1990. E il 31 marzo 1991 si tenne un referendum per l’indipendenza dall’Urss, a favore della quale si schierò il 98,93% degli elettori (l’affluenza fu del 90,5%). L’ipotesi che una delle repubbliche dell’Urss potesse diventare indipendente era prevista dalla Costituzione sovietica, ma se i Paesi baltici e la Georgia poterono indire il referendum fu soltanto perché, con Mikhail Gorbaciov, il potere centrale si era indebolito. Così la democratizzazione disintegrò l’Urss. Subito però la repubblica autonoma dell’Abkhazia e la regione autonoma dell’Ossezia del Sud, entrambe all’interno della Georgia, dichiararono a loro volta l’indipendenza: atti illegali, non previsti dalla Costituzione. Ma la nozione di legalità ha qui scarso valore dal momento che tutto avvenne dietro la regia della Federazione russa, da cui partirono migliaia di miliziani «volontari» per difenderle. Le ostilità tra il governo centrale della Georgia e i secessionisti nell’Ossezia del Sud (1991-92) e nell’Abkhazia (1992-93) portarono a eccidi orrendi e alla pulizia etnica dei georgiani che vivevano nelle due regioni. Circa 300 mila profughi si riversarono in Georgia, trovando rifugio dove potevano.
Nel 1994 il presidente georgiano Eduard Shevardnadze concesse alle truppe russe il mandato di forza di interposizione, in realtà la «mediatrice» Russia non fece nulla per diminuire la tensione, al contrario sostenne le regioni secessioniste con lauti sussidi, fornendo armi, distribuendo tra abkhazi e osseti passaporti russi in violazione del diritto internazionale. Nell’estate del 2008, i paramilitari osseti bombardarono alcuni villaggi georgiani causando vittime. L’esercito georgiano accorse in aiuto dei connazionali colpiti, provocando l’intervento dei russi, i cui mezzi blindati penetrarono in Ossezia del Sud, mentre l’aviazione bombardava persino la periferia della capitale Tbilisi. I rapporti tra Russia e Georgia furono interrotti e non sono ancora stati ristabiliti, ma sono ripresi i collegamenti aerei tra Mosca e Tbilisi. Tuttavia la perdita di Abkhazia e Ossezia del Sud (ora a carico del bilancio russo) è per la Georgia una ferita difficilmente rimarginabile.
L’attuale presidente della Repubblica Giorgi Margvelashvili e il primo ministro Giorgi Kvirikashvili hanno di fronte un’economia che non decolla, segnata da divari insopportabili tra persone ricchissime e giovani o pensionati che a fatica riescono a sopravvivere. Assistiamo purtroppo a continue ondate migratorie di giovani laureati e di forza lavoro verso l’Europa e gli Usa. La Georgia è un Paese ortodosso e dopo l’indipendenza, la parola del capo della sua Chiesa, il katholikos patriarca Ilia II, è sempre stata autorevole. Colpito da una grave malattia, il katholikos interviene sempre più di rado, mentre è iniziata la lotta per la successione. E nel Paese stanno facendo numerosi proseliti varie sette provenienti dall’estero. Pertanto anche la Chiesa non è oggi influente come un tempo.

Corriere La Lettura 1.4.18
Campanella, la libertà tra le righe
Il pensatore in sospetto di eresia concluse la sua vita onorato alla corte di Francia, ma aveva trascorso circa trent’anni in carcere
Non poteva esprimersi apertamente, perciò si è molto discusso sul significato delle sue opere
di Michela Valente


«Dunque a diveller l’ignoranza io vegno», così si presentava Tommaso Campanella, il filosofo noto soprattutto per la sua opera utopistica, La Città del Sole , che scrisse nel 1602, vagheggiando una società più equa. Nel Novecento si contano centinaia di edizioni e traduzioni della Città del Sole , anche negli Stati del blocco sovietico, mentre alti prelati hanno rivendicato anche recentemente l’ortodossia cattolica di Campanella: ispiratore di una società comunista o buon teologo domenicano? Con il libro Tommaso Campanella (Laterza), Luca Addante ci guida nel labirinto di fini ricostruzioni documentarie, laboriosi scavi filologici, tortuose riabilitazioni e interpretazioni, spesso interessate, del pensiero campanelliano.
Campanella, figlio di un ciabattino, era nato a Stilo, nell’entroterra jonico calabrese, nel 1568 e chi oggi arrivi lì, con lo sguardo che avvolge gli ulivi resistenti, la montagna arsa e il mare che appare infinito, si chiede come un figlio di quella terra possa essere finito a Parigi, osannato, alla corte di Luigi XIII, un traguardo luminoso raggiunto però dopo aver trascorso più di trent’anni in carcere tra Napoli e Roma.
Giovanissimo era entrato nell’ordine dei domenicani e, sin dai primi anni di formazione, aveva attirato su di sé sospetti per il suo entusiasmo nei confronti della filosofia di Bernardino Telesio e per le sue frequentazioni pericolose: si accompagnava infatti con un ebreo e con dotti, come Giambattista Della Porta, non propriamente ortodossi. Sin da subito si scontrò con le ostilità e le resistenze della Chiesa, finendo in carcere. A nulla valsero i viaggi perché anche a Padova fu perseguito e quindi finì nelle celle inquisitoriali romane, dove incontrò l’eretico Francesco Pucci e Giordano Bruno. Tornato a Stilo, nel 1599 Campanella provò a far «sollevar la Calabria»; fu infatti tra i promotori di una rivolta antispagnola, e ancora una volta fu arrestato e processato per ribellione politica ed eresia. In quell’occasione, per evitare la condanna capitale, Campanella si finse pazzo e il canone della pazzia ricorre nelle letture coeve e successive.
Tra alterne vicende, potendo godere di qualche minimo agio, rimase detenuto fino al 1626. Nonostante questa drammatica condizione, scrisse moltissimo e di tutto, dalla poesia, alla teologia, alla politica, alla filosofia naturale e le sue opere furono lette e tradotte in tutta Europa. Nella Repubblica delle lettere il nome di Campanella era noto, il più delle volte per le accuse di libertinismo e di eresia, e solo talvolta per gli elogi come filosofo audace. Campanella perorò la causa di Galileo Galilei e scrisse anche L’ateismo trionfato , un capolavoro nonostante l’autocensura e i cambiamenti imposti. Poi nel 1634, dopo aver trascorso altri anni di detenzione, fuggì in Francia, dove morì nel 1639.
Nella stagione risorgimentale, l’immagine di Campanella si trasformò: per alcuni interpreti, fu martire del libero pensiero e vittima della Chiesa di Roma, mentre per altri fu protosocialista. Al contempo, si presentava l’idea di un ravvedimento e quindi di una conversione di Campanella, tornato nel grembo della Chiesa. Nel corso dell’Ottocento Alessandro d’Ancona, Bertrando Spaventa e Luigi Amabile inaugurarono una nuova stagione di studi campanelliani, proseguita da Giovanni Gentile, da Luigi Firpo e infine da Germana Ernst: grazie a loro, di Campanella possono leggersi edizioni e traduzioni attendibili. Nel 1995 Germana Ernst ed Eugenio Canone hanno fondato una rivista, «Bruniana & Campanelliana», a testimoniare il grande interesse internazionale verso i due filosofi.
Ora per ricordare il filosofo a 450 anni dalla sua nascita, Luca Addante si cimenta con il mito, liberandolo da apologetica e polemica, senza indugiare e giudicare vincitori e vinti di una battaglia storiografica che si è combattuta e si combatte ancora. Nella penisola italiana schiacciata dalla Spagna, resistevano effervescenze di spirito e di ingegno: Campanella fu tra queste e in lui riaffiorano fiumi carsici della Riforma radicale declinati con lo spirito del tempo e con le nuove istanze filosofico-scientifiche. La libertà e l’anelito a conquistarla sono la cifra di questo pensatore. Per sopravvivere, Campanella, come molti altri, convinto che «il secolo futuro giudicarà noi, perché il presente sempre crucifige i suoi benefattori», usò la simulazione, la maschera con la quale creò le sue opere, sollecitando a leggere tra le righe, come avrebbe detto qualche secolo dopo Leo Strauss, un altro che si trovò a scrivere in tempi non liberi.

Corriere La Lettura 1.4.18
Cambogia , tre colpevoli per 1.700.000 morti
Pol Pot leader dei Khmer rossi tra il 17 aprile 1975 e il 7 gennaio 1979 sterminò quasi un quarto della popolazione del suo Paese
di Marcello Flores


Vent’anni fa moriva Pol Pot, alla guida di un regime che tra il 1975 e il 1979 fu capace di sterminare il 21% della popolazione cambogiana, circa 1,7 milioni di persone. Pol Pot era il capo dei khmer rossi, i guerriglieri comunisti diventati, nei primi anni Settanta, da piccolo gruppo settario in lotta con le altre fazioni del Partito comunista indocinese, l’organizzazione capace di guidare l’insurrezione che il 17 aprile 1975 conquistò Phnom Penh, due settimane prima della caduta di Saigon. Erano stati in gran parte i bombardamenti americani in Cambogia (tre volte la quantità di bombe sganciate sul Giappone nel corso di tutta la Seconda guerra mondiale), lungo la strada di collegamento con il Vietnam dove transitavano gli aiuti militari e logistici ai vietcong, a radicalizzare i contadini e far scegliere loro di rafforzare la tendenza maoista che faceva capo a Pol Pot.
Quest’ultimo — che si faceva chiamare, con un ostentato linguaggio egualitario, «Fratello numero uno» — era alla testa di un gruppo dirigente ristretto e segreto, di cui facevano parte Nuon Chea, Khieu Samphan, Ieng Sary e Son Sen. Accanto a loro operava la polizia segreta, la terribile Santebal, alla cui testa fu posto Kaing Kek Iev, conosciuto col nome di Duch, che organizzò il famigerato carcere di Tuol Sleng, in sigla S-21. A essere colpiti dai massacri di massa furono inizialmente i ceti urbani, soprattutto quelli con un’educazione medio-superiore. Un terzo degli abitanti delle città venne sterminato ma ad esso si aggiunse poi il 15% della popolazione rurale. L’intera minoranza vietnamita venne uccisa, come la metà di quella cinese e un terzo di quella cham (una minoranza islamica). Si uccideva, ma prima si torturava, si violentava, si usava ogni forma di violenza: spesso anche nei confronti di membri del partito considerati tiepidi o inaffidabili, accusati di tradimento, disubbidienza e slealtà. Due milioni di abitanti della capitale vennero deportati in lontane zone agricole, dove in molti morirono di fame e di stenti.
Le notizie dei massacri — in realtà di un vero e proprio genocidio — iniziarono presto a giungere anche in Occidente, ma vennero accolte spesso con scetticismo, soprattutto dalla sinistra, per timore di delegittimare la vittoria del socialismo indocinese contro l’imperialismo americano. Resta famoso, in proposito, lo scontro che nel 1977 — quando inizia una seconda ondata di purghe e massacri — contrappose Noam Chomsky, uno degli intellettuali americani che più si erano impegnati contro la guerra del Vietnam, e gli autori di numerosi articoli e libri che, basati su testimonianze e interviste di rifugiati, raccontavano quanto stava succedendo: e che Chomsky accusava di essere «enfatizzazioni di presunte atrocità da parte dei khmer rossi».
A porre fine al genocidio fu l’intervento armato vietnamita nel dicembre 1978, che costrinse i leader dei khmer rossi a fuggire in Thailandia e Cina. Fino al 1990 le Nazioni Unite, grazie a un accordo tra Stati Uniti e Cina, mantennero loro il seggio nell’Assemblea generale, impedendo così che si potesse attuare qualsiasi forma di giustizia internazionale, cui si oppose successivamente il governo cambogiano, timoroso di far ripiombare il Paese in una guerra civile che era appena terminata, ma che il terribile passato rischiava di fare rinascere. Nel 1994 i khmer rossi vennero messi fuori legge e si divisero, una parte di loro schierati col governo per ottenere un’amnistia. Il 15 aprile del 1998 muore Pol Pot, mentre Nuon Chea e Khieu Samphan si sono arresi. L’anno dopo l’Onu raccomanda che siano un tribunale internazionale e una commissione di verità a giudicare i crimini dei khmer rossi, mentre vengono arrestati gli ultimi leader ancora alla macchia, tra cui Duch, il comandante della prigione S-21.
Di quanto è successo nel corso del genocidio cambogiano si sa ormai molto, a fine secolo, grazie soprattutto al Cambodian Genocide Program della Yale University, in funzione dal 1994, che ha raccolto centomila pagine di archivio della Santebal, seimila fotografie, compilato oltre ventimila profili biografici, raccolto migliaia di testimonianze dei sopravvissuti e costruito una rete di ricerca che ha prodotto migliaia di articoli e centinaia di volumi.
Solamente nel 1997 le Nazioni Unite superano gli ostacoli frapposti dalle grandi potenze per riportare alla memoria collettiva dell’umanità l’incubo dei killing fields , i campi di morte costruiti dai khmer rossi per chi non si adattava alla loro tragica utopia. Ma occorreranno altri anni, fino al 2006, perché le autorità cambogiane e le Nazioni Unite trovino un accordo per istituire un tribunale misto (una «corte speciale» cambogiana e internazionale) che porti alla sbarra i responsabili di torture, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Sono trascorsi trent’anni e le vittime non credono più che giustizia possa essere fatta; ma guardano con speranza alla possibilità che la memoria non venga distrutta anch’essa, e che il Paese possa conoscere e trasmettere squarci di verità sul proprio tragico passato. Il processo a Duch, accusato di avere diretto e partecipato alla tortura e uccisione di oltre dodicimila prigionieri, attirò l’attenzione dell’opinione pubblica perché la prigione S-21 costituiva il simbolo più chiaro della disumana tragedia cui aveva portato l’ideologia dei khmer rossi. Duch si difese sostenendo di avere solo obbedito agli ordini, anche se la sua confessione gettò luce su molti aspetti della politica criminale del regime. Condannato in primo grado a 30 anni, Duch nel 2012 ricevette in appello l’ergastolo, come accadrà due anni dopo a Nuon Chea e Khieu Samphan, che nella sua ultima testimonianza volle «inchinarsi alla memoria delle vittime innocenti ma anche di coloro che morirono credendo nell’ideale di un più luminoso futuro».
Il Tribunale speciale della Cambogia è stato oggetto di polemiche che ne hanno minato la credibilità, per il costo eccessivo, dato il numero ridotto di imputati (di fatto solo tre, essendo gli altri morti nel frattempo), ma anche per essersi dichiarato incompetente a giudicare leader di secondo piano. Il primo ministro Hun Sen (un khmer rosso che si mise contro Pol Pot poco prima dell’invasione vietnamita), ha dichiarato che non avrebbe tollerato altri processi, per non dividere il Paese e riportarlo sull’orlo della guerra civile. Eppure, come ha ricordato Youk Chhang, il direttore del Centro di documentazione della Cambogia, l’attività del tribunale, ha stabilito il principio del diritto di discutere e conoscere all’interno di una società divisa, lasciando un’eredità positiva alla memoria collettiva del Paese. Anche se, probabilmente, il Tribunale speciale terminerà i suoi lavori molto presto, dopo la sentenza di un ulteriore procedimento in cui gli imputati sono ancora Nuon Chea e Khieu Samphan.

Repubblica 1.4.18
Sesso, censura & libertà la verità su “ Ultimo tango”
Il rifiuto di Belmondo: “Non faccio porno”. La scelta di Brando: “Lo convinsi con un libro di Bataille”. E poi la scena del burro: “C’era voglia di trasgredire e pensai: meglio non dirlo a Maria”. La Schneider non gliela perdonò. Ma ora che il film torna restaurato il Maestro rivela: ogni opera va vista nel suo tempo. E oggi?
Intervista di Arianna Finos


I ricordi di una formidabile carriera sono leggeri, oggetti d’arte e d’uso quotidiano sparsi nell’appartamento elegante ed essenziale, a Trastevere. Un enorme quadro d’arte contemporanea poggiato a terra contro il muro del salone, il divano su cui si sprofonda per assistere da spettatori unici — sogno dei cinefili di tutto il mondo — alla proiezione di Ultimo tango a Parigi insieme a Bernardo Bertolucci: «Era importante rivederlo così, sullo schermo grande » . Questo è grandissimo, il muro dipinto bianco opaco. Durante i titoli di testa — l’uomo e la donna ritratti da Francis Bacon — il gatto di casa cerca d’arrampicarsi sullo schermo ed entrare nel film. «Si chiama Uva, abbandonato in un vigneto a Civitavecchia, una gatta etrusca. Poi abbiamo scoperto che è un maschio, ma il nome l’ho tenuto: un po’ di ambiguità non fa mai male».
La prima scena, il parigino ponte di Bir-Hakeim, il treno che passa sopra e sotto, nel Viaduc de Passy, Marlon Brando si tappa le orecchie con le mani: “Fucking God…”. «Il dolly scende su di lui, e dovrebbe continuare panoramicando, ma a fine scena l’operatore confessa, “Scusa Bernardo, ma ho visto Marlon Brando e non ho più potuto muovere la macchina da lui”». Il divo leggendario ha il cappotto di cammello che si lascerà addosso, tra poco, facendo l’amore con Maria Schneider, ora una sconosciuta che lo sorpassa svelta tenendosi il cappello a tesa fermo in testa, avvolta nel mantello con i bordi di pelliccia. Si ritroveranno, per caso, nell’appartamento sfitto in cui si consumerà quell’amour fou che ha segnato la storia del cinema e della censura.
È vero che “Ultimo tango a Parigi” è nato da un suo sogno?
«Sognavo nella vita, ma da sveglio, di incontrare una sconosciuta in un appartamento vuoto, neutrale, dove ci frequentavamo senza sapere nulla l’una dell’altro. Un’idea che, ho capito solo dopo, è molto romantica. Il punto è: questo film deve essere immaginato nel contesto in cui è nato. Siamo ancora nel ’ 72. Viviamo ancora la grande pulsione collettiva del ’ 68, vogliamo rompere tutti i tabù, soprattutto quelli sessuali. Io lavoro un po’ con mio fratello e con Kim Arcalli, il montatore del Conformista e con cui ho scritto anche Novecento… Avevo un grande amico che era Gato Barbieri, il miglior sax tenore bianco di free jazz, argentino, nato a Rosario: quando ascolto papa Bergoglio parlare italiano mi sembra di sentire la voce di Gato. Il titolo: Ultimo tango a Parigi è dedicato a lui. Per me il tango era lui e la musica che ha scritto per il film era romantica e straziante».
Ma aveva anche pensato ad Astor Piazzolla?
«Sì, per l’arrangiamento. Lo chiamiamo e lui, offessissimo: “No grazie, non sono un arrangiatore, io sono un musicista”. Due anni dopo, in questa casa, sento citofonare: “Sono Astor Piazzolla”. Lo faccio salire e lui: “Ero a Roma e volevo dirti che sono stato un cretino, il tuo film è bellissimo e avrei dovuto farlo”. Mi regalò un 45 giri, fatto per me, si chiamava El penultimo tango. Mi ha reso felice».
Fin da subito fu Parigi?
«Sì. Una sera Goffredo Parise mi chiede: “Cosa fai Bernardo?” (il regista imita l’accento veneto dello scrittore, ndr). Io: faccio un film che si chiama Ultimo tango a Parigi. “Che titolo magico”. Nel prepararlo mi dico: per il personaggio maschile prenderò Jean-Paul Belmondo, Fino all’ultimo respiro, — io da sempre volevo essere un regista francese — o Alain Delon...».
Ma prima aveva pensato al “Conformista” Jean-Louis Trintignant.
«Lui mi dice di no, quasi in lacrime: “Non riesco a essere nudo davanti alla macchina da presa”. E io: hai fatto i film con la Bardot, con Vadim, “Sì, ma non ero nudo”. Per la ragazza pensai anche a Dominique Sanda, ma era incinta. Allora vado da Belmondo, che mi riceve e poi butta la sceneggiatura sul tavolo: “Non faccio il porno”. Poi incontro Delon: “Lo faccio ma voglio essere anche il produttore”. Non mi sembra giusto: troppo pericoloso. Torno a Roma e una sera in piazza Navona, parlando con un gruppo di amici, viene fuori il nome di Marlon Brando. Chiedo: Ma c’è ancora? Perché era sparito da un po’ di tempo ed era poco prima che uscisse Il Padrino. Gli invio la sceneggiatura e riesco a far venire Brando a Parigi all’hotel Raphael, dove andava sempre Rossellini, è molto sovrappeso, poi si metterà a dieta. Vuole vedere Il conformista. Il film finisce, lui si alza sorridendo, il copione in mano: “ Vieni qualche giorno a Los Angeles, parliamo della sceneggiatura, poi facciamo il film”. Parto. È la mia prima volta a Los Angeles. È un immenso parcheggio ma me ne innamoro subito. Mi sembrava di conoscerla già, dai romanzi di Raymond Chandler e dai tanti amatissimi film noir. Il primo giorno, sono al Beverly Hills Hotel in pieno jet leg, Brando chiama: “Tra mezz’ora ti passo a prendere”. Sulla strada deserta incontriamo due coyote. Eccoci a Mulholland Drive, a casa sua. Siamo stati un mese e abbiamo parlato di tutto meno che del film».
Quando è nata l’idea di mettere i due dipinti di Francis Bacon sui titoli di testa?
«C’era la sua prima grande retrospettiva al Grand Palais. Ne esco sconvolto, mi sembrava contenesse il segreto del film. Ci torno con Vittorio Storaro, poi con Nando Scarfiotti, lo scenografo del film, alla fine con Marlon. Sono quadri di una grande drammaticità. Anni dopo una critica d’arte romana, Lorenza Trucchi, mi dice: “A Londra ho incontrato Bacon, è felice di avere i suoi quadri nel tuo film”. Arrossii di gioia. Tempo dopo alla Tate Gallery finalmente me lo presentano dentro una nuvola di ammiratori. Lui, ubriachissimo, mi chiede: “Com’è Bertolucci?”».
L’appartamento come lo avete trovato?
«Volevo una stanza rotonda, uno spazio uterino. Chissà di che colore è il liquido amniotico. Io lo vedevo caldo e vibrante come sarà la luce di Storaro. E mi piaceva il luogo, tutta la location, l’esterno del palazzo e il ponte di Passy con le sue passerelle».
C’era anche amore per un certo cinema francese.
«Certo, e molta ironia sulla Nouvelle Vague. Prendevo un po’ in giro me stesso con il personaggio di Jean- Pierre Léaud, l’attore cresciuto e coltivato da Truffaut e Godard, i più grandi, che adoravo. Léaud lavorava sempre di sabato quando Marlon si riposava, così non si incontravano mai».
È stato difficile lavorare con Marlon Brando?
«È stato affascinante vederlo incarnare un personaggio disperato, attingendo alla propria disperazione, seminando schegge del suo privato. Allora lo vedevo come un uomo che stava invecchiando. Avevo trentun anni, lui quarantanove. Ora lo vedo così giovane e bellissimo. È stata l’ultima volta in cui è stato bello. Gli parlo di Bataille, di L’azzurro del cielo, che è il libro magico su una storia d’amore forte, in cui i protagonisti scopano forte in un albergo a Barcellona mentre sotto c’è la guerra civile. E di Ma mère, di questo modo di rompere quel tabù fino ad allora pericoloso per gli artisti: il sesso. Ricordiamo, per capire il contesto, che in quegli anni marito e moglie americani dormivano in letti separati».
Maria Schneider?
«Dopo un cast abbastanza lungo restano due ragazze, Maria Schneider, piccolo diavolo con i capelli un po’ afro, e Aurore Clément, un angioletto biondo e dolce. Naturalmente vince il diavolo. Marlon da subito è molto paterno con lei. Sul set ci sentiamo tutti in una bolla di creatività, una specie di stato di grazia collettiva, ci divertiamo molto. Mi piaceva l’idea di raccontare la parte più animalesca della sessualità perché pensavo in quel momento che l’unico vero linguaggio tra due persone era quello del corpo. Poi quel momento lì, ecco...».
Sarebbe la scena del burro che Brando usa per avere un rapporto forzato con Maria.
«Sì. Passavamo molto tempo in quella casa vuota. Un mattino in cui dobbiamo girare una scena di sesso forte prevista in sceneggiatura sto parlando con il mio aiuto regista, Fernand ( Moszkowicz, ndr), c’è Marlon seduto per terra con noi. Dico: in Ma mère di Bataille un uovo viene usato durante continua?
una pratica erotica. Bataille era uno scrittore mitico di quegli anni, aveva esplorato il tema della sessualità più di chiunque altro. Stavamo facendoci le tartine, le baguette con pane e burro. Guardo il burro: è un oggetto quotidiano, inoffensivo, ma penso che usato alla Georges Bataille sarà dissacrante. Parlo con Marlon e l’idea gli piace. Decido di non dirlo a Maria, perché preferisco la sua reazione non da attrice ma da persona reale. Dopo Maria si incazza e si offende perché si sente insultata come attrice. I registi trovano strade impervie e oblique per arrivare al risultato che vogliono. Ma questo episodio Maria se l’è dimenticato subito, il giorno dopo era serena».
E invece nella vita è diventata una cosa che l’ha amareggiata moltissimo.
«L’uso del caro burro di casa come lubrificante fu il picco dello scandalo, Maria andò a Cannes e le tirarono addosso dei panetti di burro».
La Schneider non l’ha mai perdonata.
« Prima sì, dopo no. Prima venne felice a tutte le anteprime. Ricordo bene un’intervista del 1973 al New York Times, per l’uscita del film in America in cui Maria dice che prima del film aveva paura che io fossi misogino e lavorando con me ha cambiato idea, e che non c’era nessuna forma di voyeurismo sul set. “Sarà difficile che riesca a fare un altro film così nella mia vita”. Dice di come Marlon l’abbia aiutata e anch’io. Ma forse era troppo giovane. Suo padre, l’attore Daniel Gélin, non l’aveva mai riconosciuta. Aveva bruciato troppo per la sua età. Alla fine del film il personaggio di Brando vuole sposarla, lei fugge. Lui entra a forza in casa, lei lo ammazza, gli spara nelle palle, fine del patriarcato. Maria era molto contenta del finale del film, era protofemminista e le sembrava giusto punire quel vecchio macho. Diventava un po’ come una dark lady di certi B movie americani. Un cult. Gli scandali di allora erano diversi da quelli di oggi. Negli anni Settanta il film fu condannato al rogo e io a due mesi per oltraggio al pudore. Un po’ di tempo fa invece mi hanno spellato vivo sui social con l’accusa di avere abusato di Maria e qualcuno su Variety ha invocato il sequestro del film. Oddio, come l’Italia del ’75, non è possibile. Non c’era mai stato nessuno stupro, nessun abuso. C’erano solo due bravi attori che sapevano simulare bene, gli si credeva. Questa storia mi ha dato molto dolore, e mi dispiace che Maria abbia sofferto».
Bellissima la scena tra il marito Brando e l’amante della moglie Massimo Girotti, una sorta di doppio.
« In quel periodo ero ossessionato dal doppio. Nei Sessanta avevo girato
Partner, storia di un sosia come nel racconto di Dostoevskij. E in Novecento Olmo e Alfredo sono speculari. Qui c’è l’amante della moglie morta: mi piaceva vedere Marlon con il suo corrispettivo italiano, Massimo Girotti, anche lui molto bello. Quando vedo questi pavoni l’uno davanti all’altro mi viene da ridere ».
Sul set c’è mai stato qualche momento di tensione?
«La penultima settimana di riprese Marlon non si presenta, mi fa chiamare, vado a casa sua. Mi dice: “Mio figlio Christian è fuggito da sua mamma con due strani hippies drogati, sono spariti nel deserto vicino Los Angeles. Ti prego lasciami andare a cercarlo. Torno tra cinque giorni”. È angosciatissimo. Dico: vai subito. Lo ha fatto, sapevo che era un vero professionista. E poi l’ultima scena del film, che solo dopo ho capito: l’ho fatto correre per tutti gli Champs-Élysées fino alla casa di lei a Montparnasse. Aveva cinquant’anni, non era allenato, avevo paura che ci restasse».
Quale fu la reazione di Brando al film?
«Alla fine delle riprese mi ha detto: “Mi sento svuotato, dettagli intimi della mia vita, anche dei miei figli sono usciti fuori... non voglio mai più fare un film così. Anche lui, per qualche anno mi ha messo in castigo. Lo cercavo al telefono e lui si faceva negare, ma era lì. Poi mi chiamava una sua amica cinese che mi diceva: Marlon è un po’ arrabbiato, ma se tu fai un film con lui e i suoi pellerossa ti perdona. E io: “ Non posso, sto andando a Parma a fare un film con i miei pellerossa, i contadini emiliani”. Ma già sul set di Apocalypse Now a Vittorio
Storaro chiese: “Come sta the baby prophet?”. Ero io. Mi aveva perdonato. Evviva! Anni dopo sono a Los Angeles e mi chiama, “vieni subito”. Corro, emozionato, mi racconta: “Tu non lo sai, è come se io fossi morto”. Suo figlio aveva ucciso il fidanzato di sua figlia Cheyenne, che poi si è suicidata. Una tragedia greca. “ Ora sto cercando di tornare alla vita”. Chiacchierammo fino al buio senza accendere mai la luce».
Quando “Ultimo tango” arrivò in sala ci fu il terremoto.
«Il film fu un incredibile incasso, ma dopo tre mesi fu sequestrato. Tornò in sala e fu risequestrato. Poi condannato definitivamente in Cassazione. Sparì. Poi negli anni Ottanta mi invitano con un mio film a scelta alla manifestazione “Ladri di cinema” dell’estate romana di Nicolini. Mi torna in mente una copia sottotitolata dimenticata in un sottoscala della Fono Roma. I ragazzi la trovano, la proiettano. Il giudice li convoca: “Da dove viene la copia?”, “Ce l’ha data il regista tedesco Fassbinder”. Ma lui era morto da tre mesi. Poi il giudice Marino mi interroga. Sono passati dieci anni, il concetto di oltraggio al pudore e all’onore sessuale è cambiato. Il film viene liberato ed esce di nuovo».
Le tolsero il diritto di voto.
«Sì. Sto girando Novecento con tutta la mia passione politica. Voglio votare comunista e mi tolgono il diritto di andare alle urne? Sono arrabbiato ma impotente. Mandiamo le recensioni di tutto il mondo al tribunale, non serve a nulla. Per cinque anni non posso votare».
Fu mai insultato al cinema o per strada, a causa del film?
«Per fortuna solo una volta, sul set di La luna, davanti al cancello di Villa Verdi, a Busseto. Arriva un’automobile velocissima che quasi mi mette sotto. Dico: ma scusi che fa, chi è lei? Era un discendente di Verdi che non ci aveva permesso di girare all’interno. Ma perché, chiedo, c’è sempre Verdi in tutti i miei film, io adoro Verdi. E quello: “Lei non adora Verdi, lei adora il burro”. Chiude il finestrino e se ne va sgommando».
Ebbe due candidature all’Oscar, una a Brando.
« Non me ne importava nulla in quegli anni e non andai. Per coerenza: mi sarebbe sembrato di aderire troppo a valori hollywoodiani che ancora non mi appartenevano. Ma a cosa eravamo candidati?».
Lei alla regia. Una nomination importante.
«Ah vede, e me ne sono fregato. Mi andava già bene così, ero eccitato. Dopo quel che era accaduto al film in tutto il mondo, venni preso da grande sicurezza. Quel successo mi ha dato la possibilità di fare Novecento, che solo in uno stato di pura megalomania avrei potuto realizzare».
Agli Oscar andò per “L’ultimo imperatore”.
«Quanto tempo c’è dal ’73 all’88? Sedici anni, tanti».
“Ultimo tango” esce in versione restaurata, al Bari Film Festival e poi in sala.
«Sì. Ci tengo che sia visto su grande schermo e in originale come in tutto il resto del mondo. Finalmente in Italia si potranno sentire le voci di Marlon Brando, di Maria e degli altri. Il film vero è quello».
Rivedendolo ora, cosa avrebbe cambiato e cosa invece le piace di più?
«Avrei insistito meno sulla storia tra Maria e Jean-Pierre, che serve da intermezzo a quello che succede tra Marlon e Maria nella casa. Quel che mi piace di più? Le sospensioni... le epifanie, come le chiamava mio padre».
Ha ritrovato il sogno che aveva a occhi aperti?
«Quel sogno e il ricordo di un sogno. E mi ha dato allegria rivederlo, anche se è un film tragico. Ho cercato di guardarlo dal punto di vista del movimento Mee Too. Mi pare che sia la ragazza a dare il giudizio finale su quello che è avvenuto. Oggi come allora mi sembra che lei venga sedotta dal suo fascino, non costretta da lui. Marlon non è un molestatore, è un disperato. Le opere vanno considerate nel loro tempo. Questo era un film che, come si dice con una parola molto prosaica oggi, sdoganava la sessualità. Allora mi sembrava importante ».