giovedì 8 marzo 2018

Repubblica 8.3.18
I due vincitori e l’impossibile analogia del ’76
di Stefano Folli


Fra i problemi dell’inizio di legislatura ce n’è uno che sovrasta tutti gli altri: mancano analogie e termini di paragone con il passato. Tutto o quasi è senza precedenti. È questo l’aspetto che rende così complesso il compito del presidente Mattarella. L’unica analogia che qualcuno ha proposto è con il 1976, l’anno dei due vincitori delle elezioni (Dc e Pci) e del governo Andreotti cosiddetto della “non sfiducia”. In quell’occasione democristiani e comunisti, premiati entrambi dal voto, decisero di sostenere l’esecutivo senza stringere un patto politico allora improponibile, ma ricorrendo a un meccanismo parlamentare fatto di astensioni strategiche. Così tenevano in piedi il presidente del Consiglio senza far parte insieme di una maggioranza vincolante.
Altri tempi e altri protagonisti. Nel quadro della solidarietà nazionale, quel bipolarismo Dc-Pci si fondava su forze strutturate e calate nella storia politica del Paese. Forze, tra l’altro, che avevano già governato insieme nell’immediato dopoguerra. Oggi lo scenario è del tutto diverso. Il nuovo bipolarismo si regge su Movimento Cinquestelle e Lega, partiti radicali nati dalla perdita di credibilità della classe dirigente e vittoriosi contro Renzi e Berlusconi, la coppia che sperava di avere i voti per governare in condominio. La fantasia della storia ha deciso altrimenti.
Di fatto i due vincitori del 2018 non hanno alcun interesse a mettersi d’accordo fra loro, come fecero i loro antenati del 1976. Sono rivali, cercano di sottrarsi voti l’un l’altro, competono per lo stesso elettorato; l’unica differenza è geografica: Nord leghista contro Sud pentastellato. Quindi è da escludere un esecutivo fantascientifico Di Maio-Salvini o viceversa. Anche le prospettive sono diverse. Al di là dei proclami, Salvini sembra mirare alla conquista di una definitiva leadership sul centrodestra prima di dedicarsi alla scalata di Palazzo Chigi. Quest’ultimo obiettivo, pur irrinunciabile, oggi è prematuro: gli mancano i voti e Berlusconi è ancora in grado di mettergli i bastoni fra le ruote, logorandolo. Prova ne sia che al leader leghista non riuscirà di andare al Quirinale con una delegazione comune di tutto il centrodestra. Il che indebolisce non poco l’immagine della coalizione agli occhi del capo dello Stato.
Di Maio invece vuole giocarsi subito e fino in fondo la sua possibilità di formare il governo. Ne ha tutto il diritto, avendo ottenuto i voti di un terzo degli elettori.
Tuttavia per riuscirci ha bisogno di una maggioranza e quindi di un’intesa politica con il Pd. Con l’intero Pd, non con il cinquanta per cento frutto dell’ennesima scissione. Gli indizi delle ultime ore dimostrano che il partito respinge le sirene a Cinquestelle. Quali che siano le tentazioni di qualcuno, il gruppo di vertice non può farsi strattonare e travolgere dalle tattiche grilline. Per cui il “no” di Orlando si aggiunge a quelli pronunciati da Franceschini, Gentiloni, Zanda, Calenda. E si capisce: la priorità in queste ore è allontanare Renzi dalla segreteria.
Dando per scontato che resterà sulla scena politica come un fantasma ingombrante, ma almeno non sarà più il capo a cui dover obbedire. Solo in seguito il Pd comincerà ad agire per non essere tagliato fuori dagli sviluppi della legislatura. Farà in modo di aiutare Mattarella, il quale chiede che le forze parlamentari non rinuncino a dialogare.
Qualsiasi passo il Pd lo farà per allargare e non restringere i margini di manovra del capo dello Stato. La crisi sarà lunga e il M5S dovrà accettarne i bizantinismi.