Repubblica 30.3.18
Aldo Moro. Cronache di un sequestro / 4
“Nel carcere del popolo”
Il
presidente della Democrazia cristiana passa la prima notte in cella. I
brigatisti, reduci dalla strage di Via Fani, siedono in cucina. Uno di
loro batte a macchina parole come “ gerarca”, “ imperialista”, “
processo”. È il comunicato numero uno. Che si abbatte su un Paese in cui
c’è anche chi incomincia a dire “né con lo Stato né con le Br”
di Ezio Mauro
È
stato un macello. Noi stiamo tutti bene, ma è stato un macello».
Valerio Morucci è appena rientrato nell’“ufficio” di via Chiabrera,
dall’agguato di via Fani, dopo aver lasciato l’ostaggio sull’auto
guidata da Moretti verso la “ base”, perché nessun brigatista oltre ai
quattro carcerieri deve conoscere il luogo della prigione. La
televisione mostra la scena fissa del massacro, l’Alfetta della scorta
piena di colpi, gli agenti riversi all’interno, la 132 con le portiere
spalancate, i due carabinieri morti e il parabrezza attraversato da un
proiettile, i giornali sparsi a coprire il corpo di Raffaele Iozzino, a
terra nel sangue. Non c’è l’audio, perché Adriana Faranda ascolta le
radio della polizia e dei carabinieri, dove crepitano i messaggi delle
pattuglie, gli aggiornamenti delle volanti, l’orrore della giornata
trasformato in ordini e in messaggi. «Volevo farmi raccontare tutto –
dice oggi Faranda –, non riuscii a chiedere niente. Lui tornò sconvolto,
ripeteva soltanto quella parola: un macello».
Sconvolto da una
strage preordinata, organizzata, cui ha appena partecipato, e che sta
sconvolgendo l’Italia. Andreotti riunisce subito nel suo ufficio a
palazzo Chigi i segretari dei partiti che sostengono il suo governo,
Zaccagnini, Berlinguer, Craxi, Romita, Biasini, una specie di gabinetto
d’emergenza, anche se tutti sono d’accordo a evitare leggi speciali. Si
guarda soprattutto all’azione di polizia, il quartiere Trionfale, la
Balduina, Belsito vengono setacciati strada per strada, si ispezionano i
garage e i magazzini al piano terra, bersaglieri e granatieri
affiancano gli agenti, arriva un primo contingente di mille uomini.
Ma
i brigatisti si sono dissolti. Dopo i tre minuti del massacro, hanno
lasciato la scena della morte, hanno spostato due volte l’ostaggio da
un’auto a un furgone a un’altra auto, e adesso si sono separati
disperdendosi nella città sulle macchine rubate che li aspettavano in
zona, con le targhe e i documenti contraffatti. Chi è venuto da fuori
città, per dar man forte alla colonna romana, è già ripartito, Bonisoli è
appena salito sul treno che lo riporterà a Milano, da dove si muoverà
solo per le riunioni dell’esecutivo Br, in una casa alle porte di
Firenze, ogni volta che c’è da prendere una decisione strategica nei 55
giorni. Dall’altra parte della città, Aldo Moro sente chiudersi la porta
di legno della cella sulla sua prima notte da prigioniero.
È
solo, sdraiato sulla brandina, con il braccio destro sulla fronte, come
lo vede Anna Laura Braghetti dallo spioncino: il prigioniero non
incontrerà mai la padrona della casa che nasconde il covo, lei lo
osserverà ogni sera quando torna dall’ufficio all’Eur, esce dalla sua
identità convenzionale di impiegata, entra nella sua seconda vita di
terrorista “ irregolare”. Stasera lo guarda a lungo, prima immobile, poi
voltato di fianco, quindi di nuovo con la mano sulla testa, come a
sorreggere i pensieri. Ha visto una scena terrificante. Le raffiche del
mitra, la pioggia di colpi, il sangue dovunque quando ha aperto gli
occhi rialzando il capo, l’auto che sbatte davanti e dietro e non riesce
a scappare, l’autista freddato davanti a lui e il maresciallo Leonardi,
con cui si è sempre sentito sicuro, fulminato proprio mentre si volta
all’indietro per proteggerlo, urlando qualcosa. Poi quella mano che
entra nell’auto, lo afferra per il braccio, lo tira giù, un’altra mano
gli china la testa, lo spingono a forza dentro un’automobile.
Ha
capito subito, più che capire è entrato di colpo dentro quello scenario
che temeva da tempo, ma allontanava nel pensiero. La visita del Capo
della Polizia Parlato nel suo studio, il pomeriggio prima dell’agguato,
la moglie che insisteva per l’auto blindata, tutti quegli avversari
sparsi che potevano diventare nemici, ma soprattutto il terrorismo
brigatista che alzava il tiro ogni giorno e lui, certo, era tra i
bersagli naturali quello più simbolico.
Tutte queste ombre
prendono corpo nella luce notturna della prigione, insieme con
l’angoscia per la famiglia. Poi si fa strada il bisogno di capire,
decifrare, almeno intuire: per poter studiare una strategia, impostare
un calcolo, inventare una teoria che guidi l’azione prigioniera. Come ha
sempre fatto, anche se adesso scopre che la vita non è come la
politica. L’unica cosa libera è la mente, che incomincia a organizzare
le nozioni frammentarie di una giornata in cui è esploso l’ordine
disciplinato della sua esistenza. Ciò che ha visto, ciò che ha subito,
quel che ha percepito. Quel che si può solo ipotizzare.
Quanti
sono? Due lo hanno preso, un terzo guidava. Altri hanno sparato, non ha
visto, tutto è avvenuto troppo in fretta, una furia di fuoco. Il viaggio
al buio gli è sembrato lungo, forse più di mezz’ora, magari lo hanno
portato fuori Roma. La cassa che lo rinchiudeva dev’essere stata
trasportata da almeno due persone. Hanno salito le scale in silenzio:
una rampa, un pianerottolo, un’altra rampa. Gli hanno fatto cambiare i
vestiti, dunque la prigionia sarà lunga. L’uomo che gli parla non ha
accento, è deciso, sembra un capo. Se ha il cappuccio è perché ha paura
di essere riconosciuto, dopo: dunque pensano che ci sia un dopo, oltre
la prigionia. Poi c’è un altro carceriere che viene col vassoio per la
cena senza parlare, e sotto il piatto c’è una tovaglietta di rafia, come
se in casa ci fosse una donna, magari quella che stasera ha preparato
il minestrone. Adesso non si sentono rumori, la casa è silenziosa. Cosa
staranno facendo, oltre quella porta, cosa lo aspetta domani?
I
brigatisti sono seduti in cucina, hanno finito l’analisi militare
dell’azione, quei mitra inceppati, il poliziotto che è uscito sparando,
Bonisoli che è riuscito subito a colpirlo, Moretti che ha tardato a
scendere dalla 128 familiare perché doveva bloccare con la sua auto la
130 mentre cercava una via di fuga, l’azione che secondo i calcoli
doveva durare un minuto di meno, quell’uomo che aspettava l’autobus alla
fermata di via Fani ma è scappato subito, qualcuno che si è affacciato
al balcone ma è stato ricacciato in casa da una sventagliata di mitra.
Poi,
di fronte all’enormità dell’operazione, i carcerieri scoprono la
fragilità della loro “base”, quasi la città la cingesse d’assedio. Hanno
Moro in cella, ma è come se la città imprigionasse la prigione,
tutt’attorno. Tutti li cercano, sono protetti soltanto dalla finzione
della normalità in cui si camuffano, dalla banalità quotidiana di un
condominio, dalla regolarità indifferente della periferia,
dall’anonimato di un appartamento al primo piano, dall’odore ordinario
di minestra all’ora di cena.
È la prima notte, Moro è in casa
loro. Si guardano attorno, vedono la vulnerabilità di tre finestroni, di
due ingressi, di una difesa minima in caso di attacco della polizia,
con un gruppo di fuoco composto da tre persone (se Moretti è in casa),
più la Braghetti che tiene la pistola sul comodino, ma non ha mai
sparato un colpo, si esercita ogni tanto premendo il grilletto a vuoto,
per provare.
Decidono di fare i turni di guardia la notte,
partendo da stanotte. Moretti e Braghetti dormiranno nella camera da
letto, Maccari sul divano in salotto, Gallinari si è già seduto nello
studio per il primo turno con il mitra in mano, davanti alla parete che
nasconde la cella. Domani, Moretti passerà dal prigioniero poi andrà
all’“ ufficio” con una busta arancione in tasca, per consegnarla a
Valerio Morucci e Adriana Faranda con le istruzioni per l’uso. Dentro,
ha infilato la Polaroid di Moro in mano alle Br, ritagliata di 2,4
centimetri in larghezza e 1,3 in altezza, per cancellare il codice di
identificazione stampigliato di fianco. Ma insieme con la foto, nella
busta c’è il “comunicato numero 1” delle Br, con quel marchio nel
cerchio, la stella a cinque punte.
Lo ha scritto Moretti nel
pomeriggio, con addosso ancora il sudore freddo dell’agguato, del
sequestro, della fuga, come se il volantino facesse parte dell’azione,
la completasse spiegandola, perché senza la cornice ideologica resta
imperfetta. Quando il prigioniero è rimasto solo nella cella, lui si è
seduto al tavolo di formica marrone della cucina, e ha firmato la
rivendicazione, per renderla pubblica insieme con la prova fotografica
del sequestro brigatista. In una cucina- tinello di via Montalcini, tra i
pensili con le pentole e il lavandino, dietro le tende chiuse, prende
così corpo il disegno terroristico preparato nei covi da mesi, la teoria
dell’azione. Il testo è stato concordato nell’ultima riunione
dell’Esecutivo, Moretti può scriverlo personalmente a nome
dell’organizzazione, senza bisogno di nuove verifiche, ha carta bianca.
In
quel primo documento, dopo la rivendicazione della strage della scorta,
“ completamente annientata”, c’è già l’annuncio pubblico del “processo”
a cui Moro verrà sottoposto e c’è la traccia del percorso tragico che
porterà all’uccisione dell’ostaggio. Moro, dice infatti la prima riga, è
in un “carcere del popolo”. Dunque la legittimità è subito e
definitivamente rovesciata. È stato catturato perché «è il gerarca più
autorevole, il teorico e lo stratega di quel regime democristiano che da
trent’anni opprime il popolo italiano, ed è l’esecutore più fedele
delle direttive impartite dalle centrali imperialiste ».
L’accusa
ideologica è senza rimedio e contiene in sé la condanna: i vecchi Stati
liberali si stanno trasformando in Stati imperialisti delle
multinazionali, cinghia di trasmissione degli interessi del grande
capitale mondiale. In Italia la Dc «è la forza centrale della gestione
imperialistica dello Stato, è il polo politico della controrivoluzione
». Bisogna dunque «estendere il processo al regime stanando dai covi
democristiani gli agenti controrivoluzionari » , bisogna «braccarli
ovunque, non concedere loro tregua».
In questa gabbia ideologica,
dove il potere è un blocco unico, e si muove per cerchi concentrici
concatenati, Moro è non solo recluso ma condannato fin dal primo giorno,
anzi è stato preso per essere condannato, perché l’atto d’accusa è
talmente totale e definitivo da coincidere con la sentenza. Il
prigioniero è stato sequestrato perché impersona l’ultimo anello
perfetto di una catena che parte dalle manovre del capitale
multinazionale, s’incentra sul Sim, lo Stato imperialista delle
multinazionali, ristruttura il sistema italiano di potere attraverso la
Dc, che ha come demiurgo di questa operazione proprio Moro.
Su
Moro si scarica dunque al contrario l’intera costruzione di questa
piramide ideologica, secondo le Br è lui che porta integrale il peso
degli errori della Dc e, risalendo alla rovescia, la colpa dei misfatti
dei governi italiani, la responsabilità delle manovre del Sim, la
macchia dei piani della controrivoluzione imperialista mondiale. Nei
pochi metri quadrati di una cucina del quartiere Portuense, precipita
così un capo d’imputazione universale. Il groviglio di simboli sovrasta
il leader, annienta il politico, cancella l’uomo, che pro va a dormire
qualche ora nella sua cella. Mentre un sedicente “Tribunale del popolo”
annuncia il “processo”, oltre quella parete, l’imputato non ha scampo.
La
fotografia di Moro e la rivendicazione dell’agguato trovano un Paese
sbandato, che brancola nel buio. Una commessa di Cardia, il negozio di
via Firenze, riconosce in Adriana Faranda la donna che ha comprato le
divise da aviere di via Fani. Circolano identikit, la televisione
trasmette un elenco di sospetti terroristi, il ministro dell’Interno
Cossiga insedia due comitati di crisi che risulteranno pieni di nomi
iscritti nelle liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli. Il Pci
parla di “complotto internazionale”, le bandiere rosse e bianche si
affiancano nelle piazze per le manifestazioni anche se negli ambienti
intellettuali di sinistra si fa strada lo slogan «né con lo Stato, né
con le Br » . « Scambiereste Moro con Curcio? » , chiede Giampaolo Pansa
ai deputati che affollano il Parlamento, sempre più cuore ferito di uno
Stato sotto attacco: anticipando con quella domanda il dilemma dei 55
giorni.
A Milano due studenti di 19 anni, Fausto e Iaio, vengono
uccisi vicino al circolo Leoncavallo, una sigla di estrema destra
rivendica l’omicidio, che rimarrà senza colpevoli, a Roma lo Stato si
raduna nella basilica di San Lorenzo per i funerali dei cinque uomini
della scorta di Moro. « Hanno servito la patria » , dice l’ordinario
militare durante la messa. Ma si sentono le urla della madre di Zizzi: «
Franco, amore mio, dimmi qualche cosa», il pianto di Cinzia, la figlia
di Leonardi che si divincola dai carabinieri per singhiozzare sulla
bara, il lamento della madre di Iozzino che non vuole tornare nei
banchi: «Lui sta lì, perché io non posso stare qui?».
Continuano
le perquisizioni, c’è l’ordine di aprire sfondando le case sospette, ma
quando una pattuglia arriva in via Gradoli 96, davanti al covo dove
abitano Mario Moretti e Barbara Balzerani, si ferma davanti alla porta
chiusa dell’interno 11, dietro la quale nessuno risponde.
È una
domenica delle Palme cupa, il 19 quando Paolo VI, amico personale di
Moro dagli anni dell’Azione cattolica, prega alla finestra di piazza San
Pietro « per l’onorevole Moro, a noi caro, sequestrato in un vile
agguato, perché sia restituito a noi al più presto » . Scattano le nuove
norme antiterrorismo, che portano a trent’anni la pena per i sequestri
di persona e prevedono l’ergastolo se l’ostaggio muore. Ma a Torino
vengono trovati otto volantini firmati Brigate Rosse alla verniciatura e
alla carrozzeria di Mirafiori, a Genova la sezione “Gramsci” del Pci
non rinnova la tessera a sei iscritti, dopo che il collettivo operaio
portuale ha firmato un volantino che dice «né Stato né Br».
A Roma
Morucci e Faranda sono già arrivati in una copisteria vicina a piazzale
Belle Arti per fotocopiare il comunicato numero 1, lo porteranno in
largo Argentina per lasciarlo nel sottopassaggio, insieme con la foto
del prigioniero che rimbalza nelle prime pagine dei giornali di tutto il
mondo, mentre i periti della Procura escludono che sia un fotomontaggio
e stabiliscono che l’ostaggio era a una distanza di un metro e quaranta
dall’obiettivo. L’analisi del volantino rivela che è stato scritto con
una macchina elettrica da un tastierista abile, forse straniero come
suggeriscono le spaziature, di buon livello culturale, approssimativo
quando parla del governo, perché scrive che appoggiano Andreotti tutti i
partiti dell’arco costituzionale, mentre in realtà sono solo cinque.
La
folla si è portata la radiolina sul traguardo della Milano-Sanremo, per
restare collegata con l’emergenza, vince Roger De Vlaeminck che copre i
282 chilometri in 6 ore, 47 minuti e 34 secondi, ma un cartello sul
Capo Mele diceva: «Io prego». È tornato a correre sulla pista di San
Siro Sirlad, il cavallo più forte del mondo che da nove mesi soffriva di
solitudine, la Fiat annuncia che si chiamerà Ritmo la nuova 138
battezzata al 57° Salone di Torino, le azioni Montedison si svalutano da
500 a 175 lire, Paolo Rossi resterà un altro anno a Vicenza grazie
all’azionariato popolare dei tifosi, sei preti a Matera si dimettono
dalla Chiesa «per radicarsi nelle lotte operaie».
Ma la vera
notizia in un Paese stordito è che i terroristi hanno bucato la rete dei
diecimila uomini che presidiano Roma, tornando con una delle auto usate
nella fuga da via Fani – una 128 blu – vicino alla strada dell’agguato,
in via Licinio Calvo, proprio dove due giorni fa avevano abbandonato la
128 bianca usata nell’azione del sequestro. Sembrano muoversi come
vogliono, attenti ai luoghi emblematici, agli obiettivi simbolici, a
usare la sorpresa come una beffa, la beffa come una forza. Quei
volantini uguali che compaiono in quattro città. Quel santuario di via
Fani dove tutta Roma porta i suoi fiori. Quel processo che i capi
storici rifiutano a Torino. «È nelle nostre mani – urla alla quinta
udienza Renato Curcio, aggrappandosi alle sbarre nell’aula bunker –: Il
vero processo si sta facendo altrove, e sarà molto serio».
In
quell’“altrove” di 100 metri quadrati stasera Prospero Gallinari sta
lavando la prima camicia del prigioniero: se ne occupa lui, sempre,
nella casa non c’è la lavatrice, tutto viene portato in una lavanderia
automatica, salvo i vestiti dell’ostaggio, lavati a mano e stesi per
sicurezza nel bagno di servizio. Se si passa oggi in via Montalcini,
quarant’anni dopo, sembra di vedere dalla finestra la stessa luce
prigioniera delle notti del sequestro. In salotto Moretti prova il
registratore: domani comincia l’interrogatorio, si apre il processo.