Il Fatto 30.3.18
Le Br e la “strategia delle lettere” per beffare lo Stato
di Miguel Gotor
Come
uno sparo nel buio: così risuonarono, dopo tredici interminabili giorni
di silenzio, le prime tre lettere di Aldo Moro recapitate dalle Brigate
rosse il 29 marzo 1978. La prima era indirizzata alla moglie Eleonora,
la seconda al ministro degli Interni Francesco Cossiga e la terza a
Nicola Rana, capo della segreteria politica di Moro.
Nella tarda
serata, i brigatisti fecero ritrovare un comunicato, cui allegarono la
fotocopia della lettera a Cossiga (solo quella) che pervenne
contemporaneamente alle redazioni di alcuni giornali di Roma, Milano,
Genova e Torino, dando così prova di un imponente coordinamento e
dispiegamento di forze che rivelava una logistica e una organizzazione
ramificate a livello nazionale.
Queste tre lettere sono
importanti, anzi decisive, per diversi motivi in quanto costituirono il
momento genetico della complessa “operazione Moro” e, come una prima
cellula cancerogena, ne preannunciarono lo svolgimento futuro e l’esito
finale.
Sul piano della “propaganda armata” e della battaglia
comunicativa determinarono i successivi orientamenti dell’opinione
pubblica italiana concorrendo a formare l’immagine del prigioniero che
occupò lo spazio mediatico in quei 55 giorni. I sequestratori
dispiegarono una micidiale strategia differenziata dei recapiti che
divenne parte integrante della loro azione terroristica. In un primo
momento inviarono le tre lettere in originale a Rana così da potere
saggiare il comportamento dei destinatari, ma subito dopo stabilirono di
divulgarne una sola (quella a Cossiga), decidendo così loro quanto
doveva restare segreto e quanto essere offerto in pasto all’opinione
pubblica. In questo modo, costrinsero da subito il governo
all’inseguimento e i famigliari del rapito ad acconciarsi ai tempi e ai
modi della loro strategia comunicativa.
In secondo luogo, sul
piano della lotta politica visibile, le due lettere a Cossiga e a Rana
(che vanno lette insieme come un’unica missiva) innescarono la
dimensione spionistico-informativa del sequestro. Il prigioniero,
infatti, spiegava che era in gioco la ragione di Stato, che si trovava
“sotto un dominio pieno ed incontrollato”, che era sottoposto a un
“processo popolare” e che poteva “essere chiamato o indotto a parlare in
maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate
situazioni”.
In terzo luogo, con queste due lettere i brigatisti
lasciarono che Moro indossasse direttamente i panni del capo del fronte
della trattativa così da potere loro conservare uno spazio di autonomia e
di libertà di manovra e di smentita. L’ostaggio, infatti, propose un
esplicito scambio di prigionieri a condizione però che la trattativa
rimanesse segreta. Bisognava quindi limitarsi a informare il capo dello
Stato Giovanni Leone, il presidente del consiglio Giulio Andreotti “e
pochi qualificati capi politici” che è facile immaginare rispondessero
alle figure di Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Ugo La Malfa e forse
Amintore Fanfani. Inoltre Moro indicava con chiarezza a chi rivolgersi
per favorire il negoziato, ossia alla Santa Sede, essendo ben
consapevole di come quel sentiero extra-territoriale avesse per secoli
svolto un delicato ruolo di intermediazione tra i governanti della
penisola e di compensazione dei conflitti fazionari.
Infine, il
comportamento adottato dai sequestratori con queste due missive mostra
oggi come allora che i brigatisti in realtà erano ben interessati ad
avviare una trattativa segreta che a parole negavano perché “nulla
doveva essere nascosto al popolo”. Non si tratta di illazioni, ma di una
semplice analisi delle loro effettive azioni, tutte efficaci e
razionali. I brigatisti, infatti, dopo avere consegnato riservatamente
le due lettere e avere garantito al prigioniero che il loro contenuto
non sarebbe stato reso pubblico decisero di divulgare quella indirizzata
a Cossiga. Oggi sappiamo che contemporaneamente fecero credere al
prigioniero che non erano state loro a violare i patti, ma il ministro
dell’Interno cui Moro rivolse una seconda lettera di rimprovero, scritta
intorno al 4-5 aprile, che si guardarono bene dal recapitare, ritrovata
soltanto nell’ottobre 1978 come dattiloscritto e in fotocopia autografa
addirittura nell’ottobre 1990. In questo modo i brigatisti nel loro
comunicato serale non persero l’occasione per farsi beffe di Moro, di
Cossiga e della Dc e di conquistare punti davanti all’opinione pubblica
italiana sostenendo che “le manovre occulte sono la normalità per la
mafia democristiana”. Allo stesso tempo, però, vollero tutelare la
riservatezza della seconda missiva, quella indirizzata a Rana, il cui
contenuto rimase segreto per loro scelta.
Il contenuto di questa
lettera era sostanzialmente identico a quello della missiva a Cossiga ma
con una preziosa novità: Moro, infatti, individuava nella portineria
dell’abitazione privata del suo collaboratore il luogo da utilizzare per
far pervenire dei messaggi riservati dall’esterno all’interno della
prigione e viceversa e invitava Cossiga a difendere la segretezza di
questo canale di ritorno. Così facendo i brigatisti dimostravano
all’antiterrorismo e agli uomini politici più avveduti che proprio
quella era la preziosa informazione che essi volevano salvaguardare per
futuri ed eventuali utilizzi. Che insomma, un conto erano le parole
dette al popolo, un altro le loro effettive intenzioni che spietatamente
avrebbero perseguito.
Non a caso, tre giorni dopo il recapito di
questa missiva rimasta segreta iniziò la vera partita, giocata mediante
una serie interminabile di finte e controfinte, che avrebbe previsto
l’avvio di un doppio e intrecciato canale, riservato (primo livello, con
l’“iniziativa” socialista/Franco Piperno) e segreto (secondo livello,
con il “negoziato” Vaticano) e che avrebbe coinvolto proprio la Santa
Sede nella persona di Paolo VI e la famiglia pontificia lungo l’esile ma
tagliante filo della ragion di Stato. Una dottrina di matrice
cattolica, realistica, serissima e feroce, che già Benedetto Croce aveva
definito “un Dio ascoso”: dunque non stupisce che avrebbe coinvolto
persino lo spirito di Giorgio La Pira, che sarebbe stato interrogato nel
corso di una seduta spiritica il 2 aprile 1978 e di seguito certamente
invocato da Moro in una lettera d’addio non recapitata con un enigmatico
“spero mi aiuti in altro modo”, di cui però parleremo la prossima
volta. E già, in altro modo.
3 – continua