Repubblica 30.3.18
Il futuro del Pd
Renzi, le finte dimissioni
Il Pd rimane alla finestra a guardare, senza far nulla. La classica posizione dei depressi
di Piero Ignazi
Il
Pd rimane alla finestra a guardare, senza far nulla. La classica
posizione dei depressi. C’è da capirlo. Una sconfitta così devastante,
che ha portato il partito al minimo storico, annichilisce. Sette punti
percentuali e 170 deputati in meno rispetto al risultato del 2013,
giudicato allora dai renziani una sconfitta nonostante il Pd in
coalizione con Sel godesse della maggioranza assoluta alla Camera, sono i
dati duri e inoppugnabili della catastrofe. Nonostante tutto questo,
Matteo Renzi, il leader che ha condotto il partito al disastro, continua
a spadroneggiare. Le sue dimissioni sono una delle più sonore fake news
degli ultimi tempi. Riunisce i suoi in qualche caminetto discreto e
indica le azioni che solerti luogotenenti rendono operative. Invece di
assumere un atteggiamento di decoroso e doveroso distacco, l’artefice
della peggior Waterloo della sinistra italiana continua a voler dettar
legge.
Può farlo perché sappiamo con quale cura abbia confezionato
liste di fedelissimi alle elezioni, assicurandosi un adeguato manipolo
di yes- man in Parlamento. Grazie al controllo di gran parte dei gruppi
parlamentari, come si è visto con la scelta dei capigruppo, continua a
dare la linea. Che è quella dell’immobilismo: rimanere a guardare le
iniziative degli altri attori politici nell’attesa di un loro passo
falso. Questa strategia avrebbe una sua logica se fosse chiaro cosa il
Pd (o meglio, Renzi) si propone di fare dopo. Godere degli insuccessi
altrui può lenire qualche taglio dell’anima ma politicamente è del tutto
sterile.
Invece di discutere sul significato del risultato
elettorale e sulle prospettive future, il Pd si ripiega in un
immobilismo cadaverico, seguendo, in questo, la parola d’ordine lanciata
da Renzi all’indomani delle elezioni. In effetti, solo se il Pd rimane
imbalsamato in un rifiuto pregiudiziale ad ogni relazione politica con
gli altri partiti, quasi una autoghettizzazione, l’ex segretario può
mantenere il suo potere di interdizione.
Perché questo sembra
l’obiettivo primario di Renzi: mantenere la propria presa sul partito,
costi quello che costi. Se Renzi ricordasse quanto disse nella direzione
che sancì la scissione dei bersaniani ( febbraio 2017), e cioè che si
era « chiuso un ciclo alla guida del Pd, perché abbiamo preso un Pd che
aveva il 25% e nell’unica consultazione politica lo abbiamo portato al
40,8%» dovrebbe umilmente prendere atto che portare il Pd al 18% implica
una uscita di scena.
Allo stesso tempo, però, la minoranza, a
parte il tonitruante Emiliano che ogni tanto lancia i suoi fulmini, si
limita a qualche flebile lamento. Non è in grado di alzare la voce
intimando a chi ha perso di passare la mano senza brigare e tramare.
Fino a che il Partito Democratico non risolve la contraddizione di una
leadership effettiva benché dimissionaria e, soprattutto, sfiduciata dai
2 milioni e mezzo di elettori mancati all’appello, non riuscirà né a
ripensare sé stesso, né a progettare una strategia.
Forse, l’unica
certezza è che lo sfondamento al centro con politiche pro- market, da
tanti evocato per giustificare la politica renziana, sia fallito quanto
la riproposizione di ricette socialdemocratiche pre- globalizzazione
avanzate dagli scissionisti. Per ragionare a testa fredda sul futuro
bisogna chiudere un altro ciclo, quello renziano.