Repubblica 2.3.18
Irlanda
Ritorno a Belfast
L’ultimo muro d’Europa
di Enrico Franceschini
Solenne
e paffuto come i tipici taxi londinesi, il “black cab” si arresta sotto
la parete dai colori sgargianti che taglia Belfast a metà. «Ecco il
murales più fotografato di Falls Road», annuncia Jackie, l’autista-guida
del tour. Una coppia di pensionati di Boston e due ragazze giapponesi
scendono dall’auto sguainando l’iPhone per portarsi a casa l’immagine
ricordo di Bobby Sands, icona della resistenza nord-irlandese,
l’attivista dell’Ira morto nel 1981 in una tetra prigione britannica per
lo sciopero della fame ad oltranza contro l’inumano trattamento a cui
erano sottoposti i detenuti politici. «La vendetta sarà il sorriso dei
nostri figli», recita la scritta sulla gigantesca effige di un giovane
dai capelli lunghi contornato di catene. «Facciamo un selfie?», propone
l’americana al marito. Sono di origini irlandesi e si mettono in posa
con orgoglio.
L’ultimo muro d’Europa è diventato meta turistica.
Più lungo e più alto di quello che divideva Berlino, tappezzato da oltre
300 ritratti e graffiti, ribattezzato “Peace Line”, è stato per tre
decenni la prima linea di una feroce guerra civile: una barriera di
acciaio, cemento e reticolati per separare il quartiere cattolico dal
quartiere protestante della città, da un lato i repubblicani
indipendentisti, dall’altro i lealisti fedeli al Regno Unito. Finché,
dopo oltre 3.500 morti fra attentati, omicidi e repressioni, nella
primavera di vent’anni fa l’accordo del Venerdì Santo mise fine a un
conflitto che sembrava insanabile. «Quando in via delle Cascate, tutti
sulle barricate, proclamammo la Repubblica a Belfast» (accento
sull’ultima sillaba), declamavano nel 1972 i versi di “Libera Belfast”,
brano del Canzoniere Pisano del Proletariato: come il digiuno di Sands e
le battaglie dell’Ira, Falls Road entrò nel linguaggio dei movimenti di
sinistra di tutto il continente, Italia compresa.
Il XX
anniversario della pace, fra qualche settimana, doveva rievocare il più
importante risultato dell’era di Tony Blair e rappresentare un modello
per altre dispute etnico-religiose apparentemente irrisolvibili. Ma i
mediatori inglesi e i negoziatori delle due fazioni non potevano
prevedere la Brexit. Il 10 aprile 1998, giorno dell’accordo, nessuno
avrebbe potuto immaginarla. L’appartenenza di Gran Bretagna e Repubblica
d’Irlanda all’Unione europea sembrava un dato di fatto destinato a
durare, sospingendo la questione di a chi appartenesse l’Irlanda del
Nord verso un futuro così distante da renderla obsoleta. Il confine tra
le “due Irlande” non esisteva più. I cittadini dell’una e dell’altra
parte potevano sentirsi europei. Di fatto, l’Emerald Island, l’Isola di
Smeraldo, era già unita. Poi è venuto il referendum del giugno 2016 con
cui il popolo britannico ha scelto di lasciare la Ue, rimettendo
l’assetto in discussione. A livello nazionale la Brexit è stata
approvata 52 a 48 per cento. Ma l’Irlanda del Nord ha votato, 56 a 44
per cento, per rimanere in Europa. Il contrasto complica il negoziato
fra Londra e Bruxelles e minaccia di fare risorgere il conflitto fra
cattolici indipendentisti e protestanti unionisti, perché l’Ue
rappresenta la base della pace. Esistevano piani per demolire il muro di
Belfast, entro il 2023. Ora non è più chiaro se verrà abbattuto.
BELFAST
«L’Irlanda si riunificherà grazie alla Brexit». La voce è profonda,
baritonale, resa cantilenante dall’inconfondibile cadenza locale:
l’inglese parlato come se uno avesse un sassolino in bocca. Un modo,
anche questo, di sottolineare la differenza: seppure separate da appena
21 chilometri nel punto più stretto del Canale del Nord, le due isole
sono profondamente diverse. Lo sguardo, dietro gli occhiali che gli
danno una severa aria intellettuale, è fiammeggiante. In un tempo non
lontano, Gerry Adams figurava accanto ad Arafat, Castro, Mandela,
nell’olimpo dei capi rivoluzionari, quella specie eletta ma controversa
che alcuni considerano eroi e altri terroristi. Di cappelli, sulla sua
testa adornata da una folta barba grigia, ne ha indossati tanti: leader
dello Sinn Fein a Belfast e a Dublino; presunto comandante dell’Ira,
acronimo di Irish Republican Army, per tre decenni l’esercito
clandestino più grande e meglio armato d’Europa; deputato al Parlamento
di Westminster, anche se non ha mai occupato il seggio; deputato al
Parlamento irlandese. Ora, almeno ufficialmente, non ne porterà più
nemmeno uno: in vista dei 70 anni si è dimesso dalla carica di
presidente del partito, l’ultima che conservava, e non si ricandiderà
più alle elezioni da nessuna parte, smentendo le voci su future
ambizioni alla presidenza della repubblica irlandese. Lo Sinn Fein (in
gaelico significa “Solo noi”) sarà guidato da due donne di una
generazione più giovane, le quarantenni Mary Lou Mc-Donald e Michelle
O’Neill, in questo momento sedute al suo fianco nella folta platea di
colleghi, militanti, giornalisti, nel centro congressi della città
immortalata da James Joyce.
In un certo senso anche lui è un
Ulisse, ma la sua odissea non è ancora terminata. Un combattente non va
mai del tutto in pensione. Le sue parole continuano ad avere peso.
«L’accordo di pace firmato nel 1998 dipendeva dall’Unione europea»,
spiega Adams, cantilenando. «Senza la Ue, non sarebbe stato possibile.
Il fondamento di quell’intesa era il consenso, l’idea che il conflitto e
ogni dissenso che fosse rimasto dopo il conflitto venissero risolti
tenendo conto delle opinioni della maggioranza, anziché delle ragioni
della forza. Ebbene, nel referendum britannico del 2016 una netta
maggioranza di nord-irlandesi ha votato per rimanere in Europa».
L’intenso dibattito in corso a Londra su come limitare o addirittura
capovolgere la Brexit con un secondo referendum non gli interessa; la
discussione sulla possibile permanenza de facto o formale dell’Irlanda
del Nord nel mercato comune o nell’unione doganale, per mantenere
“aperto” come ora il confine, lo annoiano come dettagli secondari.
Nemmeno si scalda su cosa farà la Scozia, dove nel referendum ha votato
per la Ue una maggioranza ancora più ampia che in Irlanda del Nord. « La
questione dell’indipendenza scozzese riguarda gli scozzesi. Quanto agli
inglesi, facciano quello che vogliono su un eventuale secondo
referendum. Io mi occupo di quello che possono e dovranno fare gli
irlandesi, non solo del Nord ma di tutta la nostra isola. E dico che la
Brexit rende i tempi maturi per un referendum nella totalità
dell’Irlanda sulla riunificazione, anzi sulla creazione di una nuova
Irlanda, somma delle due parti. Spetterà al consenso democratico
stabilire il nostro futuro. Personalmente, non ho dubbi su come finirà.
Resta solo da stabilire il quando » . La sua erede Mary Lou McDonald
fissa una scadenza: «Faremo il referendum per la riunificazione
irlandese entro dieci anni » . Il loro ottimismo di Adams ha due
motivazioni. La prima si può notare nei reparti di ostetricia: in
Irlanda del Nord, i cattolici fanno più figli dei protestanti. Belfast
ha già un sindaco cattolico, gli indipendentisti diventeranno
maggioranza in tutta la regione. La guerra si può vincere anche nelle
culle. La seconda motivazione affonda nella storia.
Per i suoi
detrattori, Gerry Adams è il capo occulto di un’organizzazione
terroristica che ha giustificato omicidi, bombe e sangue per oltre 30
anni in accordo con l’Ira. Per i suoi estimatori, è l’uomo di pace che
ha saputo guidare faticosamente il movimento repubblicano verso la
rinuncia alla lotta armata e la ricerca di una soluzione politica.
«Vorrei che nessuno fosse mai stato ucciso», dice nell’ora del suo
ritiro. «Ma è importante ricordare che un movimento popolare di
liberazione nazionale come il nostro è stato capace di trovare
un’alternativa alla guerra». Sulla questione se lui sia stato o meno un
capo dell’Ira, non solo dello Sinn Fein, taglia corto: «Non ho mai preso
le distanze dall’Ira. L’ho sempre difesa, anche se talvolta l’ho
criticata: per esempio condannai l’attentato nel pub di Birmingham (nel
1974: causò 21 morti e 186 feriti, ndr.), quello fu un errore. Ma puoi
criticare, dare giudizi morali, solo quando ti metti nelle scarpe di chi
critichi». È come riconoscere che quelle scarpe le indossava a sua
volta. « Adams si è guadagnato il mio rispetto » , ricorda a Londra
Jonathan Powell, capo di gabinetto a Downing Street negli anni di Tony
Blair e capo negoziatore britannico nella lunga trattativa per arrivare
all’accordo del Venerdì Santo, «perché ha portato soprattutto sulle sue
spalle l’onere di persuadere i duri dell’Ira a deporre le armi. Sapendo
che, se avesse sbagliato una mossa, avrebbe potuto pagare con la vita».
Per descrivere il leader dello Sinn Fein, l’ex consigliere di Blair
rammenta uno scambio di battute nei giorni più intensi del negoziato.
«La cosa che mi piace di te, Jonathan, è che arrossisci quando menti»,
gli disse Gerry. «A differenza di te», rispose Powell. Tutti scoppiarono
a ridere. Tuttavia c’era poco da scherzare. Quando Adams e il suo
partner Martin McGuinness invitarono Powell a trattare nel cuore della
notte in un’isolata fattoria lungo il confine tra repubblica irlandese e
Irlanda del Nord britannica, con un trattore che andava su e giù per i
campi allo scopo di coprire le voci e disturbare eventua li ascolti
indesiderati, l’inviato di Blair replicò: « Vengo, a patto che non mi
uccidiate». Non era una spiritosaggine. Arrivando da solo all’aeroporto
di Belfast, caricato su un’auto da due tizi taciturni dall’aria losca,
portato a destinazione con un lungo giro nella campagna per fargli
perdere l’orientamento, Powell temeva che da un momento all’altro il
veicolo si arrestasse in un viottolo buio, sbucasse fuori un commando
dell’Ira e lo fucilasse su due piedi. Quando viceversa fu Adams a fargli
visita per la prima volta a Downing Street, il leader dello Sinn Fein
lasciò i presenti interdetti commentando: « E così questo è il posto
dove è cominciato tutto » . Powell fraintese. «Sì, il colpo di mortaio
cadde nel giardino dietro di lei», osservò cupo. «La finestra andò in
frantumi. I ministri si gettarono sotto il tavolo per mettersi al
riparo. C’era anche mio fratello. Si salvò per un pelo ». Nelle sua
visione a breve termine, il capo dello staff pensava che il leader
nord-irlandese si riferisse allo spregiudicato attacco dell’Ira del
1991, uno dei tanti tentativi di assassinare il primo ministro
britannico. Ma il suo interlocutore scosse la testa. « Non ha capito.
Intendevo che qui cominciò la guerra civile irlandese, perché in questo
edificio Michael Collins firmò il trattato del 1921 che diede
l’indipendenza all’Irlanda. Al prezzo di dividerla in due». Occorre una
visione a lungo termine per comprendere la questione irlandese. A lungo
termine verso il futuro, così come verso il passato.
Grande meno
di un terzo dell’Italia, con una popolazione totale di neanche 7 milioni
fra la repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord (anche detta Ulster)
britannica, l’Isola di Smeraldo – come è soprannominata per il colore
dei suoi prati perennemente bagnati dalla pioggia – rimase abitata per
secoli da un gruppo di origine celtica, i gaelici, dai quali deriva
tuttora la sua lingua ufficiale (l’inglese è soltanto il secondo idioma
nazionale: non per nulla la denominazione ufficiale dello stato è Eire,
richiamo a una dea mitologica che aiutò i gaelici; e primo ministro si
dice Taoiseach). Dal 400 dopo Cristo iniziò l’opera di evangelizzazione
da parte dei primi missionari cristiani, tra cui il monaco Patrizio,
diventato in seguito il santo patrono dell’isola. Dopo il crollo
dell’Impero romano furono proprio i monaci irlandesi a rivitalizzare
monasteri dalla Scozia alla Puglia, ricopiando instancabilmente a mano
antichi libri e codici che altrimenti sarebbero andati perduti e perciò
giudicati i salvatori dello scibile greco-romano, come racconta il
saggio di un teologo americano, “ How the Irish saved civilization”. Ma
nel dodicesimo secolo in Irlanda iniziarono le invasioni degli inglesi.
Nel 1541 Enrico VIII, il re d’Inghilterra con sei mogli, autore dello
scisma anglicano dalla chiesa di Roma per potersi risposare a suo
piacimento, si proclamò anche re d’Irlanda. Da allora ci vollero 400
anni perché la lotta per l’autonomia irlandese sfociasse nel Trattato
firmato a Downing Street da Michael Collins, uno dei leader
dell’insurrezione contro la Gran Bretagna e poi presidente del governo
provvisorio irlandese, l’atto a cui si riferiva Adams nella
conversazione con Powell a Downing Street. Da quella firma grondò altro
sangue. Una parte degli insorti irlandesi, contraria a lasciare una
parte dell’isola al Regno Unito, non riconobbe l’accordo. Ne seguì una
guerra civile fratricida, nel corso della quale Collins venne
assassinato dai suoi avversari, tragico episodio che ha ricevuto una
notorietà mondiale grazie a un bel film del 1996, “Michael Collins”, con
Liam Neeson nel ruolo del protagonista.
Dopo la fatale firma di
Collins, la piena indipendenza dell’Irlanda richiese altri vent’anni,
passando attraverso la neutralità irlandese nella seconda guerra
mondiale, l’abolizione della monarchia (fino a quel momento il re
britannico restava capo dello Stato, come avviene ancora oggi in Canada e
Australia), la proclamazione della repubblica e l’uscita dal
Commonwealth. La rottura con l’organizzazione che riuniva (e riunisce
tuttora) le ex colonie britanniche aveva un significato fortemente
simbolico. Gli odierni unionisti protestanti dell’Irlanda del Nord sono i
discendenti dei coloni inglesi mandati a espropriare le terre degli
irlandesi, ribattezzandole contea dell’Ulster. La lotta per riunificare
l’Irlanda del Nord britannica con la repubblica d’Irlanda è vista da
Gerry Adams e i suoi seguaci alla stregua dell’ultimo capitolo della
decolonizzazione post- imperiale. Ancora prima del Trattato del 1921 che
concesse l’indipendenza a tre quarti dell’isola, i coloni inglesi
iniziarono a formare una milizia armata, l’Ulster Volunteer Force (Uvf),
un corpo paramilitare che crebbe fino ad avere 90mila uomini, un
arsenale di armi acquistate clandestinamente dalla Germania e l’appoggio
a Londra di personaggi come lo scrittore Rudyard Kipling. Due fazioni
in armi, in un territorio così piccolo che si attraversa in auto dalla
mattina alla sera, erano la ricetta per un’altra guerra civile: nord-
irlandese stavolta. Da una parte, i cattolici che volevano
l’indipendenza in tutta l’isola, non soltanto in tre quarti,
rappresentati dall’Ira e dal suo braccio politico, lo Sinn Fein, oltre
che da vari gruppi armati dissidenti; dall’altra i protestanti lealisti
fedeli alla monarchia britannica e ben decisi a rimanerci attaccati,
rappresentanti dall’Uvf e da una pletora di partiti e gruppuscoli non
meno armati dei cattolici. La contrapposizione ribollì per qualche
decennio come un conflitto a bassa intensità. Quindi, nel 1969, esplose
in una vera e propria guerra, con attentati (non limitati all’Irlanda
del Nord ma anche in casa dell’invasore originale, il nemico ultimo,
l’Inghilterra: molto prima di conoscere il terrorismo di al Qaeda e
dell’Isis, Londra imparò a convivere con la costante minaccia delle
bombe dell’Ira) e repressioni, omicidi e vendette, marce di protesta e
sparatorie nelle strade. I “ Troubles”, come sono stati chiamati i
trent’anni successivi: classico understatement inglese, perché quei
“problemi” o “guai” che dir si voglia hanno provocato decine di migliaia
di morti e di feriti, facendo diventare Belfast simile a Beirut o
Bagdad: la città più violenta e pericolosa d’Europa.
« La cosa che
so bene di Gesù è che perdonava, non condannava » , ammonisce Gerry
Adams. «Tratta la gente con dignità e ti risponderà con dignità.
Trattala male e ti risponderà male». Come formula per riassumere i
Troubles è riduttiva, ma non sbagliata. I cattolici dell’Irlanda del
Nord si sono sentiti a lungo maltrattati e hanno risposto trattando
male, talvolta molto male, la controparte. Naturalmente la religione in
questo trentennale conflitto non c’entra, almeno non direttamente: era e
rimane una disputa etnico- nazionale, territoriale. Ma sono stati i
diritti calpestati dei cattolici ad alimentare la rabbia poi sfociata
nella guerra civile: discriminazioni sul lavoro, sull’accesso a case
popolari, sulle ripartizioni elettorali. Non c’è un momento esatto in
cui cominciarono le ostilità: fu un progressivo surriscaldamento fatto
di scontri, dimostrazioni, disordini. Come in altri conflitti della
stessa epoca, a partire dalla guerra in Vietnam, la presenza militare
britannica continuò a crescere, provocando in parallelo un aumento delle
operazioni clandestine per contrastarla. Il primo tratto di muro fu
eretto a Belfast nel 1969: era lungo poche centinaia di metri e doveva
servire soltanto per sei mesi. Alla fine la barriera si è estesa per 34
chilometri, fuori e dentro il perimetro cittadino, separando Falls Road,
la strada principale del quartiere cattolico, da Shankill Road, la
strada principale del quartiere protestante. Barricate e divisioni si
moltiplicavano in tutta la regione. La frontiera con la repubblica
d’Irlanda, costellata di torrette, filo spinato, meticolosi controlli,
era a sua volta una specie di muraglia. Trent’anni di guerra, costellati
di atrocità. Bloody Sunday, il massacro di 13 civili disarmati da parte
dell’esercito britannico a Derry, il 30 gennaio 1972, tramutato molto
tempo dopo in un inno rock dalla band irlandese U2. L’assassinio nel
1979 di lord Mountbatten, zio del principe Filippo, il marito della
regina Elisabetta, ucciso insieme a un nipote e altre due persone da una
bomba piazzata nella sua barca. La morte per sciopero della fame di
dieci detenuti, il primo dei quali fu Bobby Sands, nel famigerato
carcere di Belfast, nel 1981. La bomba del 1982 a Hyde Park che uccise
11 soldati del reggimento a cavallo della regina durante una parata.
L’attentato del 1984 al Grand Hotel di Brighton, durante l’annuale
congresso del partito conservatore, che uccise cinque persone, incluso
un deputato, mancando però l’obiettivo, che era colpire Margaret
Thatcher. «Nell’ultimo quarto del ventesimo secolo», sintetizza l’ex
capo negoziatore britannico Powell, «l’Irlanda del Nord poneva la più
grande minaccia terroristica che il nostro Paese avesse mai confrontato e
il maggiore timore per l’esercito britannico » . Almeno quattro primi
ministri dedicarono considerevole tempo a cercare di fermare o almeno
attenuare questa minaccia: Edward Heath, Harold Wilson, la “ lady di
ferro” e John Major. Nessuno ottenne risultati. Poi, nel 1997, a Downing
Street arrivò un certo Tony Blair e un anno dopo ci fu la firma del
Good Friday Agreement. «Non era la fine della guerra civile, come
speravamo, bensì soltanto l’inizio del processo di pace», riconosce
Powell. In effetti ci vollero altri dieci anni per completare il
processo con l’insediamento a Belfast di un governo autonomo congiunto,
che apriva la strada non solo alla devolution promessa da Blair anche a
Scozia e Galles, ma in primo luogo alla pacifica convivenza al governo
tra acerrimi nemici. Qualcosa di inconcepibile fino a non molto tempo
prima. «Vedere Ian Paisley, nel ruolo di premier protestante, e Martin
McGuinness, in quello di vice-premier cattolico, il primo meglio
conosciuto come Dottor No perché non sapeva dire altro che no a ogni
offerta di compromesso, il secondo come il comandante e autore materiale
di innumerevoli azioni dell’Ira, costituiva ai miei occhi niente di
meno di un miracolo», riconosce l’ex capo di gabinetto di Blair. Il
leader laburista, sottolinea Powell, ebbe un merito non indifferente
nella realizzazione della pace. «Ho perso il conto delle volte in cui
sono tornato esausto da una sessione di negoziati inconclusivi per dire a
Tony che era finita e lui si rifiutava di arrendersi, ordinandomi di
riprendere i contatti con le due parti, di riprovarci».
Eletto
primo ministro con una maggioranza schiacciante, sulle ali di un
entusiasmo popolare e di aspettative di rinnovamento epocali, ammantato
dallo slogan della “ Cool Britannia” che avrebbe effettivamente
trasformato e modernizzato la Gran Bretagna, fino alla guerra in Iraq,
che gli costò la popolarità e il potere, Blair ebbe un’intuizione in
fondo semplice: per raggiungere un accordo, ciascuna delle due parti
doveva sacrificare qualcosa. Il suo compito era convincerle che quel
sacrificio fosse vantaggioso nel lungo termine. «Il mio scopo non è
un’Irlanda unita», disse a David Trimble, leader dei lealisti
protestanti al tavolo dei negoziati. « L’Irlanda del Nord fa parte del
Regno Unito quanto l’Inghilterra, la Scozia e il Galles. Io credo nel
Regno Unito. Voglio preservarlo». Ma l’unico modo di mettere fine al
conflitto era portare i repubblicani dello Sinn Fein al disarmo, al
dialogo e a una contesa politica anziché militare: dunque non trattarli
più da terroristi, riconoscerli, coinvolgerli, mettersi d’accordo con
loro invece di combatterli. Sia pure con estrema riluttanza, alla fine
Trimble si lasciò persuadere. Era una posizione nuova per il Labour, che
in passato, specie dalle file dell’opposizione, aveva espresso simpatie
per “l’unità irlandese”. Ma il premier britannico aveva una promessa,
in cambio del disarmo, anche per i repubblicani: « L’Irlanda del Nord fa
parte del Regno Unito perché questo è il desiderio della maggioranza
dei suoi abitanti. Resterà parte del Regno Unito finché le cose stanno
così. Il principio del consenso è alla base della politica del mio
governo in Irlanda del Nord. E’ la chiave di tutto. Non c’è possibilità
di cambiare lo status dell’Irlanda del Nord senza il chiaro e formale
consenso della maggioranza dei suoi abitanti». E anche Gerry Adams si
lasciò convincere da questo concetto. Sembrava escludere la
riunificazione. In realtà aveva un secondo significato, che lui colse
subito: rendeva la riunificazione irlandese possibile per stessa
ammissione di Londra. A una sola condizione: che fosse la maggioranza a
volerla e che avvenisse pacificamente. E anche questo rappresentava una
svolta. «L’Irlanda del Nord è un problema politico, non una questione di
sicurezza » , gli rispose il leader dello Sinn Fein, «perciò può essere
risolto soltanto politicamente». Ma esisteva anche un problema di
sicurezza. “ Decommissionare” le armi, l’eufemismo usato dai negoziatori
per intendere che gli arsenali andavano smantellati, era una richiesta
difficile da porre all’Ira, in cambio soltanto di belle parole sul
consenso. «Non voglio creare un Hamas irlandese», ammoniva Adams di
continuo, rivolto agli interlocutori inglesi. Non voleva firmare una
pace che gli irriducibili dell’Ira avrebbero rifiutato, scavalcandolo e
continuando la guerra: come era successo pochi anni prima ad Arafat
nella pace con Israele, mai accettata dai fondamentalisti di Hamas. Le
faide intestine nel fronte repubblicano erano antiche come la lotta per
l’indipendenza dalla Gran Bretagna. L’assassinio di Michael Collins,
liberatore dell’Irlanda per alcuni, traditore dell’Irlanda per chi gli
sparò, bastava a testimoniare il rischio che correva anche Adams.
A
sua volta, pure Blair rischiava qualcosa. Ai primi incontri pubblici
con Adams e con la delegazione dello Sinn Fein, il primo ministro
britannico doveva sopportare i cori di una folla di “ infernali
nonnine”, come vennero chiamate dai media, che gli gridavano «traditore»
e gli tiravano guanti di gomma, affermando che avrebbe dovuto
indossarli prima di «stringere la mano a un assassino come Gerry Adams».
Non potevano credere che il loro premier negoziasse con “dei
terroristi”. Non poteva crederci, effettivamente, nemmeno il protestante
Trimble. Le collusioni fra unionisti ed esercito britannico erano state
tali e tante, nei trent’anni dei Troubles, che le due forze venivano
considerate più che alleati o complici: una cosa sola. L’idea che il
premier del Regno Unito si atteggiasse ad arbitro imparziale sembrava
inconcepibile al capo degli unionisti. Ai primi incontri con Adams,
Trimble nemmeno gli rivolgeva la parola: parlava solo a Blair o a
Powell, come se Adams non fosse nemmeno nella stanza. E quando Adams
rispondeva, se Trimble aveva qualcosa da obiettare si rivolgeva di nuovo
a Blair o a Powell. «Era una pantomima», ricorda il negoziatore
britannico. Con momenti di pura comicità, come la volta in cui Trimble
andò al gabinetto e si ritrovò a urinare di fianco ad Adams. Questi
provò ad attaccare discorso con i calzoni aperti. «Non facciamo i bam
bini » , fu la secca risposta dell’altro: il leader unionista terminò le
sue funzioni, lavò le mani e uscì dalla toilette senza aggiungere
altro. Vent’anni più tardi, insignito del Nobel e del titolo di lord,
Trimble non sembra affatto ammorbidito. «La vera ragione per cui lo Sinn
Fein e in ultima analisi l’Ira vennero al tavolo del negoziato era che
li avevamo battuti sul campo », afferma convinto. «Si sentivano
militarmente sconfitti. Non avevano altra scelta che implorare la pace »
. Le molte ore trascorse insieme ad Adams, con cui alla fine parlò
senza intermediari, non gli hanno fatto cambiare impressione sul suo
conto: «Oh, certo, anche Gerry avrebbe voluto ricevere il Nobel.
Smaniava per averlo. Ma sarebbe stato vergognoso condividere il premio
con il capo di un’organizzazione terrorista». Gli si può far notare che
lo stesso pensava probabilmente il premier israeliano Rabin di Arafat,
eppure il Nobel andò a entrambi dopo la stretta di mano sul prato della
Casa Bianca nel 1993. Trimble alza le spalle. Il paragone non lo tocca.
Rabin pagò con la vita la pace – per quanto effimera – con i
palestinesi. Anche Trimble ha pagato per quella con l’Ira. Alle
successive elezioni nord-irlandesi, il suo partito ha perso la
maggioranza. Oggi è politicamente irrilevante. Gli unionisti protestanti
preferiscono farsi rappresentare da altri. Non gli hanno perdonato di
avere stretto la mano al nemico. Trimble condivise il Nobel con John
Hume, leader dei socialdemocratici nord-irlandesi, primo repubblicano a
indicare il dialogo come via d’uscita dal conflitto, anche lui coinvolto
nel negoziato, ma con un ruolo infinitamente meno importante di Adams.
L’accordo
del Venerdì Santo fu preceduto da giornate convulse. Il 7 aprile Blair
presiedette un summit dei leader della sinistra europea a Londra: nove
primi ministri progressisti ( altri tempi), tra cui Romano Prodi per
l’Italia. Ma il premier britannico entrava e usciva di continuo dalla
sala per telefonare a Powell a Belfast e sapere a che punto era il
negoziato. «Tutti gli sconsigliavano di raggiungerci», ricorda Powell.
«C’era il timore che, se la trattativa si fosse complicata, Tony ne
sarebbe divenuto ostaggio: non avrebbe potuto andarsene con in mano un
fallimento, ma restare lo avrebbe costretto a fare concessioni che non
poteva permettersi » . Blair ignorò il parere dei suoi collaboratori e
partì per l’Irlanda del Nord. Distratto da pensieri più importanti,
dimenticò di preparare un discorso per i giornalisti al suo arrivo:
«Aveva l’abitudine di ripeterlo due o tre volte a se stesso, per
pronunciarlo con completa sicurezza quando veniva il momento, ma fu
costretto a improvvisare » , ricorda Powell. L’istinto del grande
comunicatore lo sorresse: «Un giorno come questo», esordì, «non è un
giorno per gli slogan». Poi ne confezionò uno perfetto: «Le mani della
storia sono sulle nostre spalle». Nelle cinquantasei ore successive,
nessuno dormì, a eccezione di qualche pisolino sui divani. «Adams e
McGuinness avevano passato talmente tanto tempo insieme che erano come
una vecchia coppia » , ricorda Powell. « Recitarono sino alla fine la
sceneggiata del poliziotto buono, Gerry, e del poliziotto cattivo,
Martin. Facevano di tutto per farci credere che il capo vero fosse
McGuinness. Ma al momento cruciale di decidere, McGuinness aspettava
l’imbeccata da Adams. Il vero capo era Gerry » . Adams cerebrale e
McGuinness emotivo, il primo capo politico, il secondo militare:
qualcuno li definiva lo yin e yang del movimento repubblicano nord-
irlandese. Ma l’ultima spinta all’accordo arrivò per telefono,
dall’America. Blair pregò Bill Clinton di chiamare Adams. Il presidente
degli Stati Uniti aveva già il suo rappresentante sul campo, il senatore
George Mitchell, uno dei più esperti politici di Washington. Ma
Clinton, rodato dalla maratona negoziale fra israeliani e palestinesi,
sapeva quanto la persuasione personale contasse in queste situazioni.
Chiamò Adams ben tre volte, all’ 1, alle 2: 30 e alle 4: 45 di notte,
ora di Belfast. Da sempre gli Usa, la nazione che aveva accolto milioni
di immigrati irlandesi quando in Irlanda c’era la fame, erano stati
vicini alla causa dell’indipendenza irlandese. Intanto Blair si lavorava
Trimble e la delegazione unionista. All’alba del 10 aprile, Venerdì
Santo pasquale, l’accordo era pronto. Più tardi, quando Blair e Powell
montarono su un elicottero militare per il volo fino all’aeroporto di
Belfast dove li attendeva un aereo per riportarli a Londra, il capo di
gabinetto ricevette una telefonata da Buckingham Palace: la regina
voleva parlare con il primo ministro. Forse per complimentarsi, oppure
perché ansiosa anche lei di sapere, come e più di tutti, cosa c’era
esattamente dentro quell’accordo su un pezzo del suo regno. Powell
rispose che Blair in quel momento non poteva parlare con Sua Maestà. «In
effetti eravamo già in elicottero, c’era un frastuono assordante».
Sfiniti, fisicamente e psicologicamente, il funzionario, il premier e il
portavoce Alastair Campbell che li accompagnava, furono presi da un
riso isterico per la breve durata del viaggio in elicottero. « Anche se
per tutto il tempo un militare con le gambe a penzoloni fuori dal
portello aperto del velivolo teneva un cannoncino mitragliatore puntato
sulla città sotto di noi». L’accordo era stato firmato. Ma era ancora
presto per celebrare la pace. Per escludere che qualche fazione
repubblicana dissidente provasse ad abbattere l’elicottero con il primo
ministro britannico a bordo.
Quanto fosse prematuro celebrare,
sarebbe diventato chiaro in seguito: da quel giorno ci sono voluti quasi
altri dieci anni perché il processo di pace si completasse con la
formazione nel 2007 del primo governo congiunto tra cattolici e
protestanti, tra repubblicani e unionisti, in Irlanda del Nord. «Il Good
Friday Agreement consisteva nel riconoscere e accettare un disaccordo»,
ammette Powell. Nessuna delle due parti rinunciava alle proprie
aspirazioni. Ma entrambe – ecco la storica novità – accettavano di
provare a realizzarle politicamente, non con la violenza. Un duplice
referendum sancì il patto: approvato con il 94 per cento nella
repubblica d’Irlanda, con il 71 per cento in Irlanda del Nord. Un 71 per
cento costituito dal 96 per cento dei cattolici e dal 55 per cento dei
protestanti: anche fra questi, seppure meno largamente, la maggioranza
si espresse a favore dell’accordo. Le parole più belle le trovò Clinton.
«Quando vado in Israele e in Palestina, dico: guardate l’Irlanda del
Nord. Quando vado in India e in Pakistan che cercano di risolvere la
crisi in Kashmir, dico: guardate l’Irlanda del Nord. Quando vado nello
Sri Lanka e in tutte le altre regioni problematiche del mondo, dico:
guardate l’Irlanda del Nord. La pace è possibile ». Lezione che l’ex
negoziatore britannico Powell traduce con un motto: «Se vuoi mettere
fine a un conflitto, devi parlare con i tuoi nemici, non con i tuoi
amici » . Lo stesso dell’israeliano Rabin per giustificare la sua
stretta di mano con Arafat.
Per un altro decennio, dal 2007 al
2017, la pace nord-irlandese ha sostanzialmente funzionato. Gli
irriducibili nemici hanno governato insieme a Belfast, imparando non
solo a parlarsi senza intermediari ma persino a ridere e scherzare
insieme. L’Unione europea ha inondato di soldi l’Irlanda, quella
repubblicana del Sud e lo spicchio ancora monarchico e britannico del
Nord. Pace e benessere hanno gradualmente cambiato l’isola. Questa
piccola nazione di emigranti ha cominciato ad attirare immigrati.
Dublino si è riempita di grattacieli e – con l’incentivo dei benefici
fiscali – di quartier generali dei giganti della rivoluzione digitale:
Facebook, Google, Apple, Amazon. Il Paese che aveva la fama di essere il
più tradizionalmente cattolico d’Europa non va più in chiesa con la
frequenza del passato, mette sotto accusa cardinali e prelati per lo
scandalo degli abusi negli orfanatrofi, approva commosso la legge sul
matrimonio gay, si accinge a votare in maggio in un referendum per
abrogare il divieto di aborto: con un nuovo primo ministro, Leo
Varadkar, giovane, gay e figlio di un immigrato indiano. Chi avrebbe
immaginato tutto questo?
La stessa Belfast, una volta sinonimo di
barricate, oggi somiglia a un quartiere globalizzato di Londra. Autobus
rossi a due piani e “black cab” identici ai taxi della capitale
britannica portano carovane di turisti a fotografare i truci murales
dell’ultimo muro d’Europa. L’Irlanda non sembra più quella dello
stereotipo, terra di cavalli, dinamitardi, preti e scrittori. Ne ha
avuti tanti e grandissimi, di scrittori, questa piccola terra abitata da
un piccolo popolo: l’autore dell’Ulisse, Samuel Beckett, William Yeats,
per citare tre capostipiti. E tanti contemporanei. «Dublino e Belfast
distano appena un’ora e 40 di macchina», dice una di loro, Catherine
Dunne. «Io abito in Irlanda, i miei parenti in Irlanda del Nord, ci
facciamo visita di continuo senza nemmeno più renderci conto che c’è un
confine». L’unico modo per accorgersene è badare ai cartelli stradali
sui divieti di velocità, a un certo punto non più in chilometri, ma in
miglia. «Certo, qualcuno può sognare un’Irlanda unificata», continua
l’autrice del bestseller “La metà di niente” e molti altri romanzi, «ma
quanto sangue è stato versato, quanto dolore consumato, per quel sogno?
Ora a Nord e a Sud del confine è più importante per tutti avere la pace,
il lavoro, un domani sicuro per i nostri figli». Sul lato opposto della
frontiera, a Belfast, un altro scrittore, Sam Millar, ex guerrigliero
dell’Ira, scappato in America per fuggire alla prigione, condannato a
New York per una delle più grande rapine in banca nella storia americana
(la gang era tutta di irlandesi), graziato da Clinton l’ultimo giorno
di presidenza e tornato in patria a scrivere thriller autobiografici,
dice qualcosa di simile: «Avrei dato la vita per l’Irlanda unita. Non
sono sicuro che la vedrò io, ma sono sicuro che la vedranno i miei
figli. Ma la vedranno come risultato di un processo politico. Non di
un’insurrezione armata, come credevo da giovane».
Quindi è giunta la Brexit. Nel nuovo ufficio della sua fondazione a Londra, a due passi dalla
l’architetto
della pace nord-irlandese la ritiene un pericolo mortale. «Non c’è mai
stata una situazione in cui Irlanda e Irlanda del Nord erano una dentro e
una fuori dalla Ue», osserva Tony Blair. «Prima erano entrambe fuori.
Poi sono state entrambe dentro. Avere l’Irlanda nella Ue e l’Irlanda del
Nord fuori è una minaccia alla pace. Una miccia sotto le ceneri della
guerra civile. Che può riaccenderla». La Brexit diventerà, come si
augura Gerry Adams, lo strumento per realizzare l’unificazione
irlandese? «Non ne sono certo», frena l’ex premier laburista, «ma ne
aumenta le chances. Capisco perché Adams e i repubblicani sentono
crescere questa possibilità. L’Unione europea è stata la cornice
dell’accordo di pace. Deposte le armi, accresciuto il benessere, non era
più così importante stabilire se un cittadino era irlandese o
nord-irlandese. Era prima di tutto europeo». Il passaporto della Ue è
uguale a Dublino come a Belfast. Un nord-irlandese britannico può avere
doppia cittadinanza, prendendo anche quella della repubblica d’Irlanda, e
viceversa. La lingua che parlano è la stessa. Il confine è invisibile.
«Senza la Ue, tutto questo si modifica», afferma Blair. «Nella mente
della gente ancora prima che nelle norme». Come minimo, per tenere
aperta la frontiera e mantenere l’impressione o l’illusione che l’isola
sia già unita, l’Irlanda del Nord dovrebbe rimanere nel mercato comune e
nell’unione doganale: questo prevede in teoria l’accordo raggiunto nel
dicembre scorso fra il governo britannico e i negoziatori della Ue. «Ma è
un accordo volutamente ambiguo », sostiene l’ex primo ministro,
«destinato a vanificarsi quando dovrà passare dalla teoria alla
pratica». Non ha torto. Arlene Foster, la leader del Democratic Unionist
Party (Dup), il partito unionista nord-irlandese che ha spartito il
governo a Belfast insieme allo Sinn Fein (fino a un anno fa, quando la
Brexit ha messo fine all’intesa), ingoia il boccone appunto perché è
ambiguo. «Se l’Irlanda del Nord resta nel mercato comune e nell’unione
doganale, mentre il resto della Gran Bretagna ne esce, sarebbe come
riconoscere che si è riunificata con la repubblica irlandese, che
l’Irlanda del Nord non è più Gran Bretagna», avverte Foster. «E noi non
lo permetteremo». Ha i mezzi per impedirlo: senza il voto del suo
drappello di una decina di deputati, il governo di Theresa May cadrebbe,
ci sarebbero nuove elezioni nel Regno Unito e secondo i sondaggi le
vincerebbe il laburista Jeremy Corbyn. Beninteso, la leader del Dup non
vuole neanche questo: per gli unionisti nord-irlandesi, Corbyn è
“l’amico dell’Ira”, di cui ha sempre appoggiato la causa. E d’altra
parte, alleandosi con il Dup, il governo britannico ha perso il ruolo di
arbitro imparziale che aveva cercato di assumere negli ultimi vent’anni
in Irlanda del Nord. Dal dilemma non si intravede via d’uscita. Sembra
il zugzwang degli scacchi: la posizione in cui, qualunque mossa fai,
subisci scacco matto. «No, una soluzione esiste ed è l’unica che
consente di avere un governo congiunto a Belfast, un’Irlanda del Nord
pacificata e un Regno Unito che non rischia di perdere pezzi», insiste
Blair. «È la rinuncia alla Brexit. Perciò continuo a sperare in un
secondo referendum. Cambiare idea, davanti a una migliore valutazione
dei fatti, non è antidemocratico, è l’essenza stessa della democrazia. E
fino all’ultimo minuto possibile mi batterò affinché il popolo
britannico abbia l’opportunità di tornare a votare, scongiurando il
peggiore errore politico della nostra storia». Nel frattempo, ogni sera
dopo il tramonto, quando in giro non si vedono più turisti, le porte
metalliche del muro di Belfast vengono richiuse ermeticamente. Cattolici
di qua, protestanti di là. Si riapre all’alba. Per stare nel sicuro.
Pioviggina.
Sulla strada da Belfast a Dublino, la stessa che la scrittrice
Catherine Dunne percorre per visitare la sorella, sorge una fattoria
come tante. Non dissimile da quella in cui due militanti dell’Ira
portarono Jonathan Powell a negoziare in segreto con Gerry Adams, una
notte di vent’anni fa. La frontiera invisibile fra le “due Irlande” è a
una manciata di chilometri. Ai lati del nastro d’asfalto, pecore brucano
l’erba senza sapere se è britannica o irlandese. «Se su questa linea di
confine torneranno i posti di blocco, diventeranno obiettivi per
attacchi repubblicani», predice George Hamilton, il capo della polizia
nord-irlandese. Nei fienili che punteggiano la campagna, l’alto
ufficiale ne è consapevole, sono nascoste abbastanza armi per
ricominciare la guerra civile. La stessa guerra che davanti a questa
fattoria vide cadere tre fratelli cattolici all’epoca dei Troubles, come
ricorda un memoriale: John, Brian e Anthony, 24, 22 e 17 anni,
“massacrati dai paramilitari”, informa una targa di marmo. «Erano i miei
fratelli», dice Eugene, il solo sopravvissuto, perché andò a giocare a
pallone. Abita ancora da queste parti. Viene quotidianamente a lucidare
il monumento ai suoi fratelli. «La pace fu firmata il Venerdì Santo
della Pasqua 1998», sospira, «e noi aspettiamo ancora il sabato della
Resurrezione. Ma sento che si avvicina. Sento che quel giorno si
avvicina». Tutto intorno, prati verde smeraldo, placide mucche, morbide
colline: l’Irlanda eternamente bagnata di pioggia. D’un tratto,
l’insistente acquerugiola s’interrompe, fra le nubi sbuca il chiarore e
una magica luce addolcisce l’orizzonte. «Ogni volta che attraverso il
canale del Nord ed entro in Irlanda comincia a piovere», amava ripetere
Tony Blair nei frequenti viaggi del negoziato. «Ma vale la pena
sopportarlo. Perché poi, quando viene fuori il sole, è ancora più
bello».