lunedì 12 marzo 2018

Repubblica 12.3.18
Le elezioni russe
Daghestan, Putin contro i corrotti per fermare la rabbia dei giovani
Il Cremlino vuole placare il malcontento nella Repubblica del Caucaso dove gli abusi della nomenklatura hanno provocato la crescente minaccia della jihad
di Rosalba Castelletti


MAKHACHKALA Zhanna Ismailova ha il volto stropicciato da tante notti insonni.
Seduta al tavolo della cucina, tira fuori un foglio dopo l’altro da una cartella blu. Sono i tanti appelli inoltrati alle autorità dalle 86 donne che hanno fondato l’associazione “Cuore di Madre” dopo aver visto i loro figli inghiottiti nel buco nero di menzogne e abusi del Daghestan. Si dice che la Russia cominci da qui perché è la regione più a Sud del Paese.
Invece sembra che qui tutto finisca. Da oltre vent’anni questa Repubblica ospitale, incastonata tra il Mar Caspio e le montagne del Caucaso, è una terra che non ha guerre, ma non conosce pace.
Mosaico di oltre trenta etnie e babele di altrettanti idiomi, con il russo come lingua franca, è la regione più multietnica e musulmana della Federazione. Le città punteggiate dai minareti delle moschee risuonano dei richiami dei muezzin. La tradizione sunnita e le confraternite sufi dominano, ma due guerre separatiste nella vicina Cecenia hanno radicalizzato molti musulmani d’ispirazione salafita. Da qui sono partiti i fratelli Tsarnaev, autori dell’attentato di Boston, e oltre un migliaio di giovani andati a combattere nelle fila dell’Isis in Siria e Iraq. Le autorità rispondono con rastrellamenti indiscriminati e schedature del Dna che però non fanno che alimentare il jihadismo.
Centinaia di giovani sono spariti nel nulla. Come Rashid Ismailov, il figlio di Zhanna.
«Aveva 26 anni, una moglie e un figlio di 15 giorni quando è stato sequestrato sei anni fa. Lo hanno caricato su una Lada Priora nera e da allora non ne abbiamo più avuto notizie.
Sono oltre mille i casi come questo. Le autorità cavalcano la minaccia del terrorismo perché vivono di questo». Il Daghestan è la Repubblica che riceve più sovvenzioni da Mosca: oltre 52 miliardi di rubli nel 2017, il 75% del budget. In cambio, i “clan” locali investono nella “guerra al terrorismo”. Ogni arresto di un vero o presunto jihadista è una voce che aumenta i sussidi.
Soprattutto da quando il Daghestan ha rimpiazzato la Cecenia come “posto più pericoloso d’Europa”.
Corruzione endemica e abusi delle forze dell’ordine, però, vanificano gli scopi. Per tentare di fermare l’emorragia di denaro dal budget, lo scorso autunno, per la prima volta, il Cremlino ha nominato un governatore non daghestano e non musulmano: l’ex generale della polizia ed ex leader di Russia Unita alla Duma, Vladimir Vasiliev, 68 anni, che ha avviato la più vasta purga di tutta la Russia post-sovietica.
Decine di alti funzionari sono stati incriminati, incluso il primo ministro della Repubblica e due suoi vice.
Lanciando un’offensiva anti-corruzione e insediando nuovi manager nei posti chiave, il Cremlino tenta di placare il malcontento espresso dai manifestanti, perlopiù adolescenti, scesi in piazza la scorsa primavera in tutta la Russia per protestare contro le ruberie dell’élite al potere. Una mossa in vista delle presidenziali del 18 marzo dove Vladimir Putin, senza reali rivali, cerca un plebiscito.
Anche il Daghestan è stato teatro d’inedite manifestazioni l’anno scorso: non solo i cortei promossi da Navalnyj e gli oceanici blocchi stradali degli autotrasportatori contro il sistema di pedaggio Platon, ma anche sit-in di attivisti locali.
La capitale Makhachkala è un agglomerato urbano scomposto e sfrangiato.
Enormi scheletri di acciaio e cemento si stagliano sulla superba scenografia dei contrafforti del Caucaso. Sono il risultato di una corsa edilizia selvaggia che sacrifica gli spazi verdi. Quando l’amministrazione locale ha annunciato la costruzione di un museo nel parco Lenin Komsomol, un gruppo di cittadini ha lanciato picchetti, petizioni e cause legali. «Per una volta abbiamo messo da parte differenze confessionali, etniche e politiche e siamo riusciti a salvare l’unico polmone verde della capitale», racconta la giornalista e scrittrice femminista Svetlana Anochina, fronte aggrottata e sigaretta in mano. «Non ho memoria di altri movimenti spontanei in questa città. Alle presidenziali faremo tutti gli osservatori. Vogliamo elezioni oneste».
Desiderio ambizioso. Il Daghestan annovera le irregolarità elettorali più palesi e diffuse. Colpa di funzionari più realisti del re. Le percentuali di affluenza e consensi sono tra le più alte del Paese. Alle presidenziali 2012, l’affluenza fu del 91% e i voti per Putin superarono il 92% contro il 65% nazionale. «Le violazioni del diritto di voto portano al potere gli incompetenti. Le istituzioni pubbliche non adempiono al loro dovere. I sindacati non difendono i lavoratori. Il consiglio per i diritti umani trascura gli abusi», sostiene Marat Ismailov, l’avvocato 27nne che ha portato le petizioni cittadine contro l’abusivismo in tribunale e ora organizza i corsi di formazione degli osservatori. I trucchi servono a poco. Il Daghestan resta fedele al Cremlino.
«Putin qui otterrà il 90% dei voti. Da quando c’è lui al potere, c’è stabilità, rispetto dei valori ed è tornata la pace nel Caucaso», ci dice Ali Ibragimov, direttore del Museo storico architettonico artistico di Derbent, la più antica città della Russia, accogliendoci nel suo studio. Sul tavolo, tè e cioccolatini: impossibile sottrarsi, questa è terra del Sud, terra di ospitalità. Alle sue spalle un grande arazzo della fortezza con un ritratto di Putin in primo piano. «L’ho fatto fare apposta tre anni fa in occasione del giubileo della città. Avrei voluto regalarlo al presidente, ma alle celebrazioni non venne».