lunedì 12 marzo 2018

Repubblica 12.3.18
L’evidenza di una vittoria mutilata
Se il M5S vuole davvero dialogare scelga la via della politica con un congresso (o come lo si vuol chiamare) alla luce del sole
di Ezio Mauro


Ha ragione Eugenio Scalfari quando dice che una soluzione di governo per il dopo-voto non c’è, e ha ragione Michele Serra quando dice che un residuo di orgoglio impedisce al Pd di accettare il dialogo proposto dai grillini, dopo che cinque anni fa il movimento sbeffeggiò la proposta di Bersani, irridendo in streaming l’apertura della sinistra.
Ma in realtà c’è qualcosa di più del risultato elettorale e anche dell’orgoglio. Perché, come si diceva una volta - e mi scuso per il lessico inattuale - la questione è politica, totalmente politica.
Non c’è alcun dubbio che il M5S abbia vinto, insieme con Salvini se riesce a completare l’opa estremistica sull’intera destra che fu berlusconiana.
Se è chiara la vittoria, è simmetricamente nitida la sconfitta: il Pd ha perso nettamente, anche perché governava il Paese ed è stato spodestato dopo che le minoranze grilline e leghiste avevano condotto una campagna molto forte proprio contro la sinistra riformista e i suoi leader, accusandoli di ogni infamia.
La prima conseguenza è che così come i vincitori rivendicano per sé il diritto di governare, gli sconfitti hanno il dovere di andare all’opposizione.
continua a pagina 25 ?
? segue dalla prima pagina È un dovere nei confronti del Paese, che così ha scelto, decidendo col voto chi premiare e chi punire; ma è un dovere anche nei confronti di se stessi, per provare a capire le cause del tracollo elettorale, correggere gli errori, ritrovare un’anima e produrre una leadership conseguente.
Per fare questo occorre prima di tutto ricentrare la propria identità, che può solo essere quella di una sinistra di governo consapevole della sua storia e finalmente moderna, occidentale, europea, che sappia farsi carico dei cittadini perduti, mettendo al centro (insieme con i diritti e la sicurezza) il lavoro come strumento di crescita, di sviluppo, di ricchezza ma anche e soprattutto di emancipazione, inclusione, dignità recuperata. È l’unico modo per trasmettere un segno di riconoscimento a quanti hanno votato a sinistra nel disastro, confermandoli nei valori, e a quanti se ne sono andati verso l’astensione o verso Grillo, recuperandoli nel cambiamento: inseguendo gli elettori propri, non i partiti altrui.
C’è il problema che i vincitori non hanno i voti per governare. Si potrebbe rispondere come fecero Grillo e Di Maio cinque anni fa: affari vostri. Ma le ripicche non producono politica e non danno risultati, come hanno imparato gli scissionisti del Pd. Guardiamo dunque politicamente quel che accade. La Lega chiede al Pd i voti che le mancano, per governare in nome di un’identità di destra estrema, xenofoba, lepenista, antieuropea: una contraddizione in termini, talmente incompatibile con qualsiasi sinistra di ieri, oggi e domani da non permettere neppure l’apertura di un confronto.
Per i grillini c’è una questione in più. Dalla loro comparsa hanno sempre messo in campo una pratica della diffidenza basata su una teoria della differenza che li ha portati a predicare l’autosufficienza e a proclamare una radicale estraneità rispetto al sistema politico e agli altri partiti costituzionali. Una differenza quasi antropologica, addirittura ideologica, che si rifiutava di distinguere tra destra e sinistra, metteva tutti nel sacco del sistema marcio da distruggere e usava come unico strumento di comunicazione politica il grido rivolto da Grillo agli altri partiti rappresentati in parlamento: «Arrendetevi».
Oggi sono i grillini vittoriosi ad arrendersi all’evidenza di una vittoria mutilata, perché i voti non bastano per governare. Ma questa insufficienza è frutto di un’incapacità-impossibilità a coalizionare che è stata teorizzata fin dalla nascita del movimento e praticata fino a ieri. È esattamente figlia di una politica che è diventata una cultura perché sta nella natura genetica del movimento: non confrontarsi per non contaminarsi, non collegarsi per non compromettersi, non confondersi per distinguersi.
Siamo al nodo del problema. Il M5S oggi, rigirandosi in mano una vittoria netta ma senza governo, tocca il suo limite, auto- imposto per scelta e per distinzione: una specie di “ impotentia coeundi” politica, una inattitudine naturale che diventa inabilità istituzionale a produrre maggioranze nel libero confronto dei parlamenti. Dove si è deciso che a differenza dei comizi in piazza non c’è una sola Verità con la maiuscola, ma le diverse verità si contrastano e si combinano nella costruzione delle alleanze alla ricerca di maggioranze, sotto gli occhi di tutti, nella scena pubblica delle Camere.
Voglio dire che il bozzolo impermeabile dell’autosufficienza funziona all’opposizione quando si gioca da soli a guardie e ladri, decidendo i ruoli. Ma quando si arriva sulla soglia del governo si scopre che le guardie non bastano a se stesse, devono chiedere aiuto, e di colpo i presunti ladri di ieri diventano oggi arruolabili.
Tutto questo senza altra spiegazione che la vittoria: che da sola conta molto, cambia tutto, ma non può spiegare qualsiasi cosa. Perché naturalmente un partito, e persino un movimento, ha diritto di mutare linea nei diversi passaggi di fase. Ma deve spiegarlo, perché altrimenti si cambia soltanto colore per opportunismo, come fanno i partiti- camaleonte.
Se i grillini vogliono davvero dialogare, devono dire perché scelgono la sinistra, cosa significa questa scelta, che riflessi ha sulla loro natura e sulla loro politica, perché ci sono arrivati e per fare che cosa. Devono convenire che in democrazia non esiste la verità in un solo partito. Devono rompere il fascio in cui hanno chiuso tutti gli altri partiti in attesa del rogo purificatore. Devono scegliere, imparando l’arte libera e democratica della distinzione.
Si chiama politica, si chiama trasparenza. La democrazia ha inventato anche gli strumenti per fare questa pubblica assunzione di responsabilità e dare intelleggibilità e dignità ad una svolta politica e culturale, se tale è: primo fra tutti un congresso ( o come lo si vuol chiamare) che si svolga alla luce del sole, dove il verbo del fondatore si confronti con le diverse anime del partito, e il capo politico indichi la linea in pubblico, non nei meandri informatici e proprietari della Casaleggio e associati.
Prima che il carro dei vincitori parta, i nuovi cantori dicono già che i grillini stanno cambiando pelle. Perché non sia una semplice muta stagionale, discutano in pubblico della loro natura, che sta sotto la pelle. La politica seguirà.